Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 21/12/2012, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Putin scarica Assad, ma non ha un piano B in Siria ".
Vladimir Putin Bashar al Assad
Roma. Ieri il presidente russo, Vladimir Putin, ha preso atto del fallimento della sua strategia in Siria: ha inviato una flotta a Latakia, uno dei porti più importanti della Siria, per mettere in salvo le migliaia di russi che rischiano il linciaggio per aver sostenuto il regime. Già all’inizio di questa settimana sono stati rapiti due tecnici russi, assieme anche all’ingegnere italiano Mario Belluomo. I segnali di un cambio di strategia di Mosca verso Damasco erano nell’aria, e ieri Putin li ha formulati esplicitamente: ha scaricato il rais di Damasco, Bashar el Assad, dopo averlo difeso con forza e costanza durante venti mesi di massacri: “La Russia non è preoccupata per la sorte di Assad – ha detto Putin ieri nella conferenza-show di fine anno – e certamente servono cambiamenti in Siria”. E ancora: “Dopo che la stessa famiglia è stata al potere per 40 anni, serve un cambiamento”, ha ribadito Putin. “Ma che cosa succederà dopo? Ci inquieta uno scenario di guerra civile a oltranza, a ruoli invertiti, e naturalmente siamo interessati alla posizione russa nella regione”. Passati sei giorni dalle prime ammissioni del viceministro degli Esteri, Mikhail Bogdanov – “l’opposizione siriana potrebbe vincere” – Putin elimina il condizionale e cerca di recuperare un ruolo della Russia per il dopo Assad, ma non si vede quale spazio possa trovare anche soltanto per proteggere i porti di Tartous e Latakia, strategici per Mosca. A replica della caotica posizione russa sulla guerra di Libia (approvata in sede Onu dall’allora presidente Dmitri Medvedev, ma giudicata “una chiamata medievale alle crociate” dal premier Putin), il tardivo abbandono di Assad rivela una strategia mediorientale putiniana di matrice brezneviana, e inefficace. Sino alla primavera scorsa, all’inizio della battaglia per Aleppo, Putin poteva giocare un ruolo decisivo a Damasco, a patto di cessare l’invio di armi e finanziamenti al regime e di dare il via libera alla risoluzione dell’Onu contro Assad. In questo modo oggi Mosca avrebbe propri fiduciari nella coalizione dell’opposizione siriana e potrebbe barattare il proprio ruolo determinante nella fine dei massacri e delle ostilità contrattando una forte presenza nel nuovo governo per i propri numerosi referenti politici siriani. Da quarant’anni il russo è la seconda lingua in Siria, migliaia e migliaia di consiglieri russi sono determinanti in tutti i settori militari, economici, tecnologici e universitari e decine sono gli ex allievi della università Lumumba di Mosca ad avere occupato ruoli di secondo piano (sono oggi riciclabili) sia nel Parlamento sia nell’amministrazione baathista. Putin non ha utilizzato questa potenziale e forte leva di condizionamento e anzi ha di fatto subìto il comando politico di Bashar el Assad e della sua logica di “guerra finale”. La ragione di questa inerzia post sovietica è stata più volte spiegata dal ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov: “La Russia non può favorire una rivoluzione contro un governo legittimo” (soprattutto se è dominata da islamisti) nell’evidente timore di ulteriori contagi, dopo quello ceceno.
La cecità anche sul versante iraniano
Vladimir Putin è mosso dalla stessa cecità strategica anche sul quadrante iraniano, là dove il percorso verso la bomba atomica degli ayatollah poteva essere bloccato da Mosca fino a un anno fa, ma non lo è stato. Tutta la tecnologia nucleare iraniana dipende dalle forniture del Cremlino, che ha preferito privilegiare le ragioni della sua contrapposizione agli Stati Uniti sul terreno della politica di potenza rispetto a una visione di lungo periodo. Si tratta, nel complesso, dell’inerziale ripetizione delle secolari logiche del Grande gioco asiatico, con Mosca tesa a costruirsi uno sbocco sul Mediterraneo e sull’oceano Indiano, ma senza alcuna duttilità tattica e ancor meno strategica. Ora, Putin, manovrando su personaggi siriani ambigui come Abdul Hazim e Haytan al Manna, portavoci del Comitato per il cambiamento democratico (compromessi col regime siriano sino al 2011 e con la giusta nomea di emissari del Cremlino), tenterà di avere voce nella transizione siriana, ma non ha più spazio per imporre una successione soft al vicepresidente baathista Farouk al Sharaa (in aria di fronda già dall’estate scorsa), né è in grado di imporre alcunché a una opposizione che sta trionfando sul piano militare.
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