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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.12.2012 Negoziati fra Israele e palestinesi in alto mare
Arrigo Levi attribuisce la colpa a Israele, forse dovrebbe informarsi meglio

Testata: Corriere della Sera
Data: 20 dicembre 2012
Pagina: 46
Autore: Arrigo Levi
Titolo: «La nascita dello Stato palestinese a garanzia dell'esistenza di Israele»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/12/2012, a pag. 46, l'articolo di Arrigo Levi dal titolo "La nascita dello Stato palestinese a garanzia dell'esistenza di Israele".


Arrigo Levi

L'errore principale dell' 'analisi' di Arrigo Levi sta nel considerare 'moderato' Abu Mazen e credere che sia pronto a riconoscere a Israele il diritto di esistere.
E' sufficiente osservare la foto in alto a destra per rendersi conto della realtà: Abu Mazen sorride mostrando una mappa della Palestina dalla quale è stato cancellato Israele.
Il fatto che l'Anp, per il momento, non lanci razzi contro Israele come fa Hamas, significa una cosa soltanto: l'Anp sa vendersi meglio all'opinione pubblica mondiale. Ma gli obiettivi sono identici. Mesi fa i giornali hanno parlato di una riconciliazione fra Hamas e Fatah, con foto di Abu Mazen che stringeva la mano di Haniyeh. Nè in quell'occasione nè successivamente, Abu Mazen ha condannato quel punto dello statuto di Hamas che sancisce la necessità di distruggere Israele.
Aggiungiamo che Levi dovrebbe leggersi il discorso di Abu Mazen all'ONU, definito da tutta la stampa mondiale 'Hate Speech' (discorso di odio). Forse, dopo, le sue critiche per lo stallo dei negoziati andrebbero rivolte ad Abu Mazen invece che a Netanyahu.
Lo strabismo oculare è curabile. Quello mentale è più difficile, ma non impossibile.
Ecco l'articolo:

Mi è capitato di leggere un articolo di un israeliano, il cui titolo («È dall'età di sei anni che sono in guerra») diceva tutta la stanchezza che non può non prevalere in tanti giovani e meno giovani israeliani. Non poteva non tornarmi alla mente un momento un po' speciale nella mia vita — e nella vita dello Stato ebraico. Il 1° gennaio 1948, alle due del mattino, arrivò alla mia unità, che era la compagnia di genio numero 2 della brigata del Negev, a cui ero stato assegnato poco dopo il mio arrivo in Israele, il 28 giugno di quell'anno, la notizia che a Cipro era stata firmata la tregua fra Israele e i vari Paesi arabi che avevano dato inizio alla guerra con l'aggressione a Israele, rifiutando la decisione dell'Onu di istituire in Palestina due Stati nazionali, uno ebraico e uno palestinese, essendo sicuri che i loro eserciti avrebbero «buttato a mare», rapidamente e senza difficoltà, ognuno di quei cinquecentomila ebrei che formavano allora tutta la popolazione d'Israele. Un annuncio ripetuto, convincente e intollerabile, che aveva spinto oltre a me un certo numero di giovani ebrei della diaspora, non programmaticamente sionisti, a partire per Israele per arruolarsi.
La notizia ci raggiunse al confine con l'Egitto. Eravamo rientrati quel giorno da Abu Agheila, la punta avanzata dello schieramento israeliano, a 36 chilometri sulla strada verso il Cairo, che correva in quel punto a una trentina di chilometri dal mare. Quella notte, in quel momento, noi pensammo che la guerra fosse finita, e che Israele avesse vinto la pace, il diritto di vivere in pace in un proprio Stato, accanto a uno Stato palestinese. Non soltanto noi al fronte; quella notte, con dilagante entusiasmo, Israele pensò di aver conquistato il proprio diritto all'esistenza e si sentì finalmente in pace: dopo la guerra di solito viene la pace. Non perché pensassimo di esserci sbagliati, ma con un ultimo riflesso condizionato da militari in uniforme (le uniformi, in verità, non le avevamo avute da molto tempo: per quasi tutta la guerra ognuno era rimasto vestito così come si era presentato al momento dell'arruolamento), dopo aver brindato con bicchieri di succo d'arancia, ripartimmo poco dopo per Abu Agheila, per minare e far saltare in aria il grande ponte che correva in quel punto su un vasto «vadi». In caso che gli egiziani, nonostante la tregua, intendessero continuare la guerra: ma non era possibile. Alle sei di mattina eravamo già di ritorno in patria: lo stesso giorno, la nostra unità, o forse dovrei dire tutto l'esercito, cominciò a sfaldarsi. Il nostro bravo tenente se ne tornò a Ramat Gan, dove gestiva un garage, facendosi vedere di rado. Noi immigrati, che venivamo dai Paesi dell'Occidente e non eravamo dei sopravvissuti ai gulag, restammo al nostro posto: anche se al venerdì sera molti di noi andavano a passare il sabato ospiti di amici, a Tel Aviv o altrove. Israele era un piccolo Paese; quando ci chiedevamo: tu che farai, finita la guerra? rispondevamo: visiterò Israele. La controrisposta di rito era: e al pomeriggio? Non immaginavamo che saremmo arrivati alla fine della vita senza aver visto la fine della guerra. Ci chiediamo: per colpa di chi? Principalmente di quel mondo arabo-palestinese che (anche se oggi il rifiuto dell'esistenza d'Israele rimane limitato a Hamas e alla Siria, ma non è dir poco) continua a non accettare non dico lo Stato d'Israele, ma la nascita dello Stato di Palestina accanto a quello di Israele. Così, ha forse ragione quel non più giovane israeliano che dall'età di sei anni sente di vivere in guerra. Di questo, ha un poco di colpa anche quella destra israeliana, religiosa o ultranazionalista, che invece di cogliere la decisione dell'Onu di ammettere i Palestinesi, sia pure dall'entrata di servizio, come l'occasione di iniziare subito un negoziato definitivo di pace in sede Onu (come suggerisce il presidente Peres), risponde con la tipica cecità di Netanyahu (ma lui non la considera certo cecità), di prenderne motivo per costruire nuovi insediamenti in punti strategici, creando una montagna di ostacoli sulla via del negoziato: di un negoziato che conduca finalmente alla pace.
Dico questo; anche se sento come sempre in questi casi una certa riluttanza a criticare Israele. Affiora ogni qualvolta (e le volte sono state tante) ho sentito non la tentazione ma direi piuttosto il dovere di farlo. Sono già in tanti a criticare Gerusalemme, a torto o a ragione, è proprio necessario aggiungere anche la mia piccola fastidiosa voce dalla diaspora? Prevale la convinzione (l'ho argomentata già qualche decennio fa) che criticare è giusto, e anzi doveroso quando la critica appare giustificata, nell'interesse d'Israele. E poi la mia critica sarà non meno irrilevante dell'automatica alzata di consensi a Israele che viene, come è d'uso, appunto dalla diaspora, da parte di quella grande maggioranza di ebrei del mondo che non si sono mai sognati di trasferirsi in Israele, magari anche soltanto per il tempo di combattere una guerra. Conforta, ovviamente, il giudizio di un grande scrittore israeliano come David Grossman, che definisce la risposta di Netanyahu «una reazione prepotente al voto delle Nazioni Unite». Oltre che prepotente, a mio avviso dannosa per l'interesse d'Israele, che sarebbe, ovviamente, di vedere nascere finalmente uno Stato palestinese al proprio fianco, a suprema garanzia della propria stessa esistenza.

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