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Il Foglio Rassegna Stampa
15.12.2012 Susan Rice, l'amica dei dittatori africani (e non solo)
Commento di Mattia Ferraresi

Testata: Il Foglio
Data: 15 dicembre 2012
Pagina: 3
Autore: Mattia Ferraresi
Titolo: «L'addio di Rice ferisce Obama ma risolve un problema interno»

Sul FOGLIO di oggi, 15/12/2012, a pag.3, con il titolo " L'addio di Rice ferisce Obama ma risolve un problema interno", Mattia Ferraresi aggiunge nuovi, interessanti motivazioni alla uscita scena di Susan Rice, che se da un lato ne giustificano la caduta, dall'altro aiutano a meglio capire di quale paste sia l'entourage del presidente Obama.
Ecco l'articolo:

a sin. il corpo dell'ambasciatore americano in Libia Chris Stevens
a d. Susan Rice, annuncia le  dimissioni
in basso Mattia Ferraresi

New York. Madeleine Albright dice che quello che hanno fatto a Susan Rice è “sconcertante”, che le accuse contro di lei sono “completamente inventate e ingiuste” e “non è questo il modo di trattare una persona che ha dedicato la vita al servizio degli Stati Uniti”. L’ex segretario di stato conosce la donna che non sarà segretario di stato da quando questa aveva quattro anni e frequentava la stessa scuola delle sue bambine e da allora la coccola e la protegge come una figlia adottiva. Il suo sconcerto è più un fatto personale che un giudizio politico. Ed è l’immagine della traiettoria di Rice, sempre al confine fra le pulsioni del carattere e il galateo dell’establishment. Come ha detto il consigliere della Casa Bianca Ben Rhodes: “Susan ha le qualità che le derivano dalla frequentazione dell’establishment, ma allo stesso tempo vuole cambiare le regole. E questo per il presidente è un grande pregio”. Ma fuori dal muro di cinta presidenziale anche i compagni di partito sono freddi nei suoi confronti. A Washington ci sono non pochi democratici che mentre accusano sdegnati i vari John McCain, Lindsey Graham e Kelly Ayotte di avere organizzato la character assassination senatoriale che l’ha portata a chiamarsi fuori dalla corsa per sostituire Hillary Clinton ai vertici della diplomazia, sotto il tavolo esultano in silenzio. Negli incontri a porte chiuse molti al Congresso hanno espresso spesso scetticismo nei confronti di Rice, e pubblicamente sono stati più frequenti gli attacchi contro i suoi avversari che le esplicite difese della sua candidatura. L’ambasciatrice è troppo turbolenta e indomabile per essere gestita nei margini politici che le competono, è fatta per esondare e travolgere, non per accomodare e fare patti. La legittimazione politica che l’ha portata a essere la prima nella lista dei candidati non veniva soltanto dal cursus honorum, nel quale non mancano le zone d’ombra, ma da una diretta investitura di Barack Obama condivisa con il cerchio magico dei consiglieri più stretti, quelli che rispondono a Valerie Jarrett. Non è un tipo di protezione fatta per attrarre le simpatie di chi non è membro del circolo esclusivo. La lettera con cui Rice ha spiegato che “ci sono questioni più importanti” per il paese di una “distrazione” come quella di cui è stata oggetto è di quelle che Obama non avrebbe mai voluto ricevere, da un punto di vista personale, ma risolve il problema di una conferma al Senato che sull’onda lunga di Bengasi si sarebbe trasformata in una via crucis. Per John Kerry, che ora è il frontrunner, è invece una passeggiata al parco. Il presidente si è esposto in favore dell’ambasciatrice, ha reagito di scatto quando l’hanno attaccata e, come scrivono David Sanger e Jodi Kantor sul New York Times, è tutta una faccenda di affinità elettive: Rice ricalca i tratti di Obama, ne condivide la coolness e la voglia di combattere dall’interno la conventional wisdom. Odia le cene lunghe e malsopporta gli eccessi di formalità. Ma al di fuori del tinello dei consiglieri non c’erano curve di ultras democratici a sostenerla. Il bastione liberal del New York Times ha fatto pervenire critiche velenose per interposti editorialisti, dagli attacchi di Maureen Dowd fino a Salem Solomon, che ha messo in fila i profili dei dittatori africani con cui Rice si è amichevolmente intrattenuta negli anni. Thomas Friedman l’ha buttata sul paradosso proponendo Arne Duncan per il dipartimento di stato: tutto tranne Rice, insomma. David Ignatius sul Washington Post ha scritto a caldo un elogio del diplomatico Kerry così freddo e ragionato che sembrava pronto da tempo. Gli endorsement più convinti di Rice sono arrivati dalla corte obamiana, fuori da quella soltanto difese d’ufficio e pochissime lacrime quando l’ambasciatrice s’è fatta da parte.

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