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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
12.12.2012 Turchia, il Paese della censura
Ora Recep Erdogan mira alla presidenza. Cronache di Lorenzo Cremonesi, Matteo Matzuzzi

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Lorenzo Cremonesi - Matteo Matzuzzi
Titolo: «Cento giornalisti in cella, il triste primato della Turchia - Erdogan fa il sultano ma si ritrova con un guaio in casa»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 12/12/2012, a pag. 44, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Cento giornalisti in cella, il triste primato della Turchia ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Matteo Matzuzzi dal titolo " Erdogan fa il sultano ma si ritrova con un guaio in casa ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Cento giornalisti in cella, il triste primato della Turchia "


Lorenzo Cremonesi

Libertà di stampa sempre più a rischio nella Turchia di Recep Tayyp Erdogan. «Cresce il numero dei giornalisti incarcerati. La repressione dei media in quel Paese è peggiore che in Cina, Iran o Eritrea», tornano ad accusare le organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani. L'ultimo a puntare il dito è il newyorkese Comitato per la Protezione dei Giornalisti, che denuncia la facilità con cui il governo di Ankara ricorre al pretesto dell'imputazione di «terrorismo» per intimidire e persino imprigionare i reporter scomodi. «Viviamo in un'epoca dove le accuse di attentato alla stabilità dello Stato e attività eversiva sono diventati strumenti privilegiati dei governi per minacciare, fermare ed arrestare i giornalisti», si legge nel comunicato diffuso nelle ultime ore.
Oggi, come del resto in passato, nel mirino degli apparati di sicurezza sono soprattutto gli intellettuali che a vario titolo si schierano in difesa dei curdi, o anche più semplicemente cercano di far conoscere al Paese e nel mondo i dettagli delle persecuzioni subite da questa minoranza. Secondo l'organizzazione Usa i giornalisti in cella sono «almeno 49», però è un paio d'anni che le associazioni degli avvocati turchi ne segnalano un centinaio, condannati a pene detentive che in genere partono dai 12 mesi, ma tendono poi a protrarsi molto più a lungo. «Almeno il 70 per cento sono curdi, oppure si occupano della causa curda», specificano. Tra i casi più noti quelli della 34enne Zeynep Kuray, reporter del quotidiano Birgun, in cella da 15 mesi. A loro si aggiungono comunque intellettuali legati all'idea kemalista di Stato laico e oppositori del governo. Una repressione molto dura, specie tenendo conto che i casi noti di reporter cinesi in cella sono 32 e in Iran 45. Nonostante ciò, la Turchia è continuamente additata come esempio illuminato di convivenza tra Islam e democrazia. Un modello di riferimento per il Medio Oriente, addirittura Paese-guida per le piazze delle primavere arabe. «Voi europei continuate a sostenere Erdogan per il suo ruolo a favore della Nato. Per i successi economici. Ma dimenticate i fallimenti nel campo delle libertà democratiche», protestano i pochi giornalisti turchi riusciti ad ottenere asilo politico in Francia e Germania. Qui si sentono finalmente liberi di parlare. Ma, lamentano, «nessuno ci ascolta».

Il FOGLIO - Matteo Matzuzzi : " Erdogan fa il sultano ma si ritrova con un guaio in casa "


Matteo Matzuzzi              Recep Erdogan

Quando i regimi nordafricani hanno iniziato a cadere l'uno dopo l'altro, nel pieno della primavera araba, l'unica consolazione per le cancellerie occidentali preoccupate dal perdere rapporti e amicizie consolidate da decenni era la Turchia del premier Recep Tayyip Erdogan. L'esempio di come la democrazia possa convivere con l'islam, il modello di riferimento per quelle realtà che tentavano di chiudere con gli anni della dittatura e di aprirsi alla democrazia, seppure con molte incertezze. II premier turco è andato a Tunisi e al Cairo, tra ali di folla che lo acclamavano come il salvatore, il vate. Diceva di essere il testimone del fatto che religione e democrazia possano camminare fianco a fianco, che "un musulmano può governare uno stato laico con successo". I numeri, d'altra parte, sono con lui: crescita economica incessante, al punto che la Turchia è stata definita "la Cina del Mediterraneo"; peso sempre maggiore in politica estera; turismo in espansione e capacità di ospitare grandi eventi internazionali (Istanbul è in corsa per ospitare le Olimpiadi del 2020). Non a caso, a Erdogan si richiamavano un po' tutti i nuovi leader, da Hamadi Jebali in Tunisia a Mohammed Morsi in Egitto. Rassicuravano, questi, che non ci sarebbero mai state derive integraliste, che l'obiettivo era copiare (almeno in parte) la Turchia. Piaceva, a Morsi, il modo in cui il premier di Ankara avesse progressivamente spogliato l'esercito custode dei principi kemalisti dei poteri - immensi - di cui godeva. Erdogan, che nel mezzo della crisi siriana per mesi è scomparso, ha titubato, mostrandosi indeciso sul da farsi e su quale strada intraprendere, è anche l'uomo che poi non ha esitato ad appellarsi alla Nato quando i colpi d'artiglieria delle Forze armate di Bashar el Assad, suo vecchio alleato, cadevano sui campi profughi ai limiti del confine turco. Ed è stato sempre Erdogan a chiedere (con successo) che l'Alleanza atlantica dispiegasse i missili Patriot lungo i novecento chilometri di frontiera con la Siria, per difendere l'Anatolia orientale dagli eventuali attacchi - anche con armi chimiche - di Damasco e, se ce ne fosse la necessità, di coprire il sud della Turchia imponendo di fatto una "no fly zone". Erano amici, Erdogan e Assad, al punto che proprio pensando a Damasco il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu co- niò la dottrina "zero problemi con i vicini". Poi, temendo che l'instabilità si propagasse anche a casa sua, il premier turco troncò i rapporti. Una mossa che il rais si- nano ha visto come un tradimento, e non ha perso tempo a definire Erdogan "uno che si crede il nuovo sultano ottomano, un califfo". La vicina Trchia, amica inseparabile di un tempo, è diventata uno stato che "appoggia il traffico di anni e di terroristi più di qualsiasi altro", aggiungeva rabbioso Assad lo scorso novembre. Ma essere l'avamposto strategico è un'arma a doppio taglio: l'attivismo del premier turco ha portato a rompere i rapporti con l'Iraq di Nouri al Maliki, a irrigidire le relazioni con l'Iran degli ayatollah e a dar vita a una commedia degli equivoci con Israele: da una parte si interrompono le esercitazioni militari congiunte e si condanna l'aggressività nei confronti di Gaza e dall'altra si continua a firmare accordi commerciali con il governo di Gerusalemme. Un protagonismo che non piace a tutti, in patria, a cominciare dal presidente Abdullah Gfll, con il quale i rapporti non sono più idilliaci come un tempo. "Io ed Erdogan diciamo cose diverse: io sono il presidente, non un politico", ha detto in un recente colloquio con il Financial Times. E pensare che per portare Gfll - "quello che va in giro con la moglie velata", dicevano dall'opposizione - alla presidenza nel 20M il premier aveva fatto di tutto, arrivando anche ad accusare la Corte costituzionale, che aveva accolto il ricorso dell'opposizione contro la prima elezione di Gill per mancanza del numero legale, di aver "sparato un proiettile contro la democrazia". Il presidente della Repubblica, però, non ha il carisma del premier: è un riflessivo professore universitario che per anni ha studiato e lavorato all'adesione della Turchia all'Unione europea, un progetto che non è più in cima ai pensieri di Erdogan. Sullo sfondo c'è anche la battaglia per il progetto di riforma della Costituzione, con l'aumento dei poteri al capo dello stato e la diminuzione di quelli del primo ministro. Il premier ha già detto che non si candiderà più alla carica di premier, perché il suo obiettivo è prendere il posto di Gill, meglio ancora se con poteri simili a quelli del presidente francese. Per cambiare la Carta c'è tempo fino al 31 dicembre, ma la commissione incaricata di varare il testo lavora lentamente, al punto che Erdogan è sbottato dicendo che "a questo punto ci penserà l'Akp". Il problema è che neppure nel suo partito sono tutti convinti dell'opportunità di consegnare più potere a un uomo che di potere ne ha già tanto e che ha dimostrato di saperlo usare.

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