Sul FOGLIO di oggi, 08/12/2012, a pag.3, Giulio Meotti analizza il problema delle armi chimiche in Siria, Carlo Panella la rivolta contro il Presidente egiziano Morsi.
Ecco gli articoli:
Giulio Meotti: " Assad potrebbe trasferie il gas nervino all'Iran, parla Shoham"
Roma. Parlando da Bruxelles, il segretario di stato Hillary Clinton ha ammonito il regime di Assad a non “superare la linea rossa” dell’uso delle armi chimiche. L’intelligence occidentale ritiene dunque concreta la possibilità di un simile scenario. E chi guarda con forte preoccupazione i movimenti dell’“arma nucleare dei poveri” nelle mani di Damasco è Israele. Parlando al Foglio, il colonnello Dany Shoham, grande esperto israeliano di armi di distruzione di massa e noto microbiologo, dice che “Assad possiede molte armi tossiche e mortali, come quelle che Saddam Hussein usò contro i curdi di Halabja. Per adesso il regime siriano non penso voglia usarle contro Israele o i civili, ma se la situazione degenerasse e Israele fosse visto come parte in causa nel cambio di regime, allora potrebbe esserci una situazione irrazionale in cui tutto può succedere”. Secondo Shoham, “l’arsenale chimico potrebbe finire a elementi terroristici dentro alla Siria, a un regime ancora più ostile, a Hezbollah o all’Iran. Israele ha opzioni limitate. Bombardare questi siti potrebbe causare un vasto inquinamento ambientale. Il miglior scenario è una trasformazione concordata del regime, con un trasporto sicuro dell’arsenale a una autorità centrale stabile. Il trasferimento di armi chimiche a Hezbollah o altri terroristi costringerebbe Israele a intervenire, anche a rischio di una escalation militare. Assad potrebbe usare queste armi contro i propri oppositori e c’è un precedente: il padre di Bashar, Hafez el Assad, ordinò il massacro di Hama nel 1982 con il gas cianidrico. L’arsenale siriano si basa su un elemento volatile come l’agente nervino. Ci sono anche agenti patogeni come l’antrace, il botulino e il ricino”. Secondo Shoham, la neutralizzazione dell’arsenale siriano da parte di una forza internazionale sarebbe una cosa importante, “ma è uno scenario molto improbabile. Fra i due estremi, ovvero trasferire le armi all’Onu o passarle ai terroristi, ci sono altre possibilità. La prima è passare le armi all’Iran o a Hezbollah. Nel primo caso serve un trasporto aereo o via mare, mentre a Hezbollah può arrivare via terra. Lo scenario più plausibile è il continuo controllo delle armi da parte dell’attuale regime, seguito da un trasferimento dell’arsenale all’Iran nella fase finale”. Shoham dice che Assad deve gran parte del suo arsenale mortale all’Europa. Il Washington Post ha scritto che l’Unione europea ancora nel 2010 ha devoluto alla Siria 14 milioni di dollari in assistenza tecnica e industriale, parte delle quale viene usata per gli impianti chimici. Nel 1992 un rapporto di cento pagine, preparato dal Middle East Defence News con base a Parigi, elencava la lista di trecento aziende europee che, secondo il centro studi, “avevano svolto un ruolo significativo nei programmi di armi non convenzionali in Iran, Siria e Libia”. Il rapporto vede la Germania in cima alla lista con cento fornitori, seguita da 29 aziende francesi, 22 britanniche, 13 italiane e 13 svizzere. Per esempio la produzione di di-fluoro, da cui si ottiene il gas nervino, richiede vetri speciali. Due aziende tedesche li avrebbero forniti ai siriani. Si è parlato del coinvolgimento tedesco in un impianto di gas tossici ad Aleppo, simile a quello di Tarhuna in Libia. Dice Shoham: “Le compagnie europee hanno dato un contributo decisivo alle armi di Assad, come il materiale e l’expertise per realizzare l’arsenale, e spesso i tecnici europei andavano a Damasco. L’aiuto europeo ad Assad è stato massiccio e quasi sempre queste compagnie e governi preferivano ignorare l’uso che il regime avrebbe fatto delle armi”.
Carlo Panella: " Nello scontro tra islamisti, Morsi sceglie i fratelli più duri "
Roma. La piazza egiziana ieri era ancora piena, sette cortei paralleli nel venerdì della preghiera al Cairo, con scontri davanti al palazzo presidenziale, con sfondamento delle barricate. Dietro a quelle porte, mentre il presidente Mohammed Morsi sembra intenzionato a posticipare il referendum costituzionale previsto per il 15 dicembre, continua la lotta più dura: la lacerazione all’interno dei Fratelli musulmani. Le dimissioni di Saif Abdel Fattah, consigliere di Morsi, e di tutti e sedici i consiglieri presidenziali hanno svelato le fratture che tormentano la componente islamista e la stessa Fratellanza. La crisi è stata innescata dalla decisione di Mahamoud Hussein, segretario generale dei Fratelli musulmani e leader della corrente “populista” e tradizionalmente più legata al Qatar e a Riad, di costringere Morsi ad assumere potere semidittatoriali, e anticipare la pubblicazione della Costituzione. Intanto sventolava sul Palazzo lo spettro di un “complotto”, che altro non era se non il tentativo dell’ala della Fratellanza più moderata – che ha come riferimento l’Akp del premier turco Recep Tayyip Erdogan – di scendere a patti con l’opposizione egiziana per la definizione di una Costituzione meno sbilanciata sulla sharia. Abdel Fattah, il consigliere dimissionario di Morsi, non è certo un laico (“Tra Allah e il suo servo c’è la sharia” è il titolo di un suo recente saggio), ma è un islamista moderato che non intende essere complice della politica autoritaria che l’ala populista della Fratellanza cerca di imporre, anche a costo di innescare un’altra guerra civile. Le sue posizioni, così come quelle di altri collaboratori di Morsi, sono assimilabili a quelle di Mohammed Ghannouchi, leader della Fratellanza della Tunisia, che tenta di governare il paese di concerto con i partiti laici, pur minoritari. Pressato da Mahamoud Hussein e dall’iperfondamentalista Mohammed Badie – leader mondiale della Fratellanza – Morsi ha però deciso di recidere i legami con la componente islamista moderata e ha assunto i pieni poteri in stile dittatoriale. Il risultato ottenuto è però ben diverso da quanto sperato: la mossa di Morsi ha compiuto il miracolo di unire una opposizione laica egiziana da sempre divisa, di affiancarle molti esponenti islamisti, di provocare le dimissioni del cristiano Rafik Habib, vicepresidente del partito Libertà e Giustizia (proiezione politica della Fratellanza) e persino di creare una pericolosa tensione con i generali egiziani. Ieri il ministro dell’Interno, l’ammiraglio Ahmed Gamal Eddin, garante della lealtà di Morsi al quadro di comando militare dopo l’estromissione concordata del feldmaresciallo Hussein al Tantawi, primo successore del rais Mubarak, è stato accusato da Mahmoud Hussein di essere “responsabile” dell’assalto subìto giovedì dalla sede principale della Fratellanza nel quartiere Muqattam del Cairo: avrebbe ordinato alle forze di sicurezza di “stare a guardare i 3.500 militanti dell’opposizione che incendiavano l’edificio senza fare nulla per impedire lo scempio”. L’accusa forse non è del tutto infondata (assalti simili, non contrastati dalle forze di sicurezze, erano già avvenuti a Ismailia e Suez) ed è il sintomo di un atteggiamento dei militari non allineato a difesa della Fratellanza. Con la prima grave crisi interna al blocco islamista, il Fronte delle opposizioni, in cui figurano Mohamed ElBaradei, Amr Moussa e Hamdeen Sabbahi, ieri ha rifiutato l’invito al dialogo (accompagnato però da dure affermazioni sul “diritto di comando” della maggioranza) pronunciato da un Morsi costretto a registrare l’appello nel comando della Guardia nazionale (probabilmente più timoroso dei suoi avversari interni che della piazza).
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