Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 07/12/2012, a pag. 14, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Assad pronto a usare i gas ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Susan Dabbous dal titolo " Sulla lista nera ".
Da una parte Bashar al Assad pronto a usare armi chimiche, dall'altra i ribelli tra i quali si è infiltrata al Qaeda o, come dimostrato dall'intervista (un po' troppo compiacente) di Susan Dabbous, simpatizzanti.
La Siria, insomma, sta passando dalla padella alla brace.
Ecco i pezzi:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Assad pronto a usare i gas"
Maurizio Molinari
Unità speciali siriane hanno riempito di gas sarin un numero imprecisato di bombe che potrebbero essere lanciate con gli aerei contro i ribelli: è questo il motivo dei moniti che da 72 ore Washington continua a indirizzare al regime di Bashar al Assad.
A spiegare la genesi dell'allarme dell'amministrazione Obama sono alti funzionari del governo citati dal sito della tv Nbc: «Il gas nervino è stato inserito in appositi contenitori e caricato dentro le bombe aeree». Basta un semplice comando per passare dalla fase del «precursore chimico»" a quella del gas-killer pronto al lancio e le bombe in questione possono essere portare sull’obiettivo da tre tipi di aerei siriani: i Sukhoi 22 e 24 come i Mig 23, tutti di produzione russa. È inoltre possibile che lo stesso tipo di "«caricamento» chimico sia avvenuto su razzi Frog-7, a corto raggio, simili a quelli già utilizzati contro i ribelli.
Il sarin è un agente chimico molto letale e lo scenario di un attacco dal cielo da parte di Assad evoca il precedente iracheno del 1988, quando gli aerei di Saddam Hussein lo sganciarono sopra la città curda di Halabja causando in poche ore oltre 5000 vittime. Dall’inizio della rivolta contro Assad, è la prima volta che gli Stati Uniti registrano lo spostamento di armi chimiche dai depositi alle basi militari e il loro caricamento su ordigni che possono essere usati nell'arco di poche ore.
Ciò comporta lo scenario di una escalation militare da parte del regime contro i civili che è stata definita dal presidente Barack Obama, dal Segretario di Stato Hillary Clinton e, ieri, dal capo del Pentagono Leon Panetta come una «linea rossa». «Se Assad commetterà il tragico errore di usare queste armi vi saranno serie conseguenze», dice Panetta, ribadendo le parole di Obama. Sebbene il più stretto riserbo protegga i dettagli delle «serie conseguenze», l’ipotesi più accreditata negli ambienti del Congresso di Washington è si tratti di un attacco contro difese aeree, truppe di élites e centri di comando e controllo per impedire al regime di operare, in maniera analoga a quanto avvenuto nella fase iniziale dell'attacco Nato alla Libia di Muammar Gheddafi. È di questo scenario che Hillary Clinton ha discusso ieri a Dublino, in Irlanda, con il collega russo Sergei Lavrov e l’inviato Onu per la Siria Lakhdar Brahimi. Hillary si avvia a trasmettere simili messaggi agli alleati arabi durante il viaggio della prossima settimana in Medio Oriente, al fine di creare in tempo record una coalizione internazionale simile a quella anti-Gheddafi, basata sul principio Onu della «responsabilità di proteggere i civili».
Da ambienti militari trapela la convinzione che Assad potrebbe autorizzare un «blitz chimico limitato« contro i ribelli nella convinzione di riuscire a far sopravvivere il regime. E in caso di attacco Usa si prevede una ritorsione siriana contro la Turchia, per via dell’adesione alla Nato e del sostegno ai ribelli. È questo il motivo per cui accelera il dispiegamento di batterie di Patriot nel sud della Turchia: gli Usa ne hanno schierate due, altrettanto si appresta a fare la Germania e poi toccherà all’Olanda. In totale saranno sei batterie antimissili, con circa 1200 soldati Nato, a proteggere Ankara dalla minaccia di Scud B siriani, simili a quelli con cui Saddam nel 1991 bombardò Israele.
La reazione di Damasco arriva da Faisal Mekdad, viceministro degli Esteri, che dagli schermi della tv Al Manar, degli Hezbollah libanesi, parla di «montature Usa» e «provocazioni della Nato», ribadendo che «se abbiamo le armi chimiche non le useremo contro i nostri cittadini perché non siamo una nazione suicida». Si moltiplicano intanto le voci su possibili fughe di Assad: fonti diplomatiche europee escludono il Sud America perché «l’unico Paese dove potrebbe sfuggire all'arresto internazionale è l’Iran».
Il FOGLIO - Susan Dabbous : " Sulla lista nera "
Susan Dabbous, Jabhat al Nusra
Tripoli (nord del Libano). “Sarei pronto a farmi esplodere anche domani se servisse, ma per il momento sono molto più utile qui in Libano”. Abu Yasser al Sibahi è un ragazzo di ventott’anni di Homs, in Siria, ed è un uomo di Jabhat al Nusra, il gruppo jihadista più violento e attivo in Siria contro il regime di Bashar el Assad. Letteralmente significa Fronte di protezione del popolo, di fatto è una costola di al Qaida: è la prima brigata ad aver utilizzato autobomba e attentati suicidi, rivendicati con video o comunicati, secondo i modi che già abbiamo conosciuto in Iraq e Afghanistan. Per questo gli Stati Uniti hanno intenzione di inserirlo nella lista nera delle organizzazioni terroristiche internazionali: la formalizzazione potrebbe avvenire all’incontro, la settimana prossima, dei Friends of Siria, che è stato anticipato ieri da un doppio incontro a sorpresa tra Hillary Clinton e il suo collega russo, Sergei Lavrov. L’America teme per i depositi di armi chimiche, e tra i suoi obiettivi c’è quello di annacquare il sostegno di Mosca a Damasco. Sibahi è seduto sulla moquette azzurra di un negozio di Tripoli, al secondo piano di una tappezzeria. Pelle chiara, barba rossiccia, occhiali non ha l’aria di uno adatto alla battaglia. Infatti si occupa di logistica: in Libano recluta uomini e rifornisce il fronte di armi e apparati elettronici. In Siria, a Homs, suo fratello comanda una brigata di più di venti uomini. Jabhat al Nusra è presente in sette delle tredici province che compongono la Siria e si è avvalsa finora dell’aiuto di molti stranieri: libici, iracheni, maghrebini, afghani, ceceni, ma soprattutto sauditi concentrati nella zona di Homs. “Molti musulmani arrivano anche dai paesi occidentali – ci dice Sibahi – mi è capitato di aver a che fare con uomini venuti dall’Australia, dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra”. In realtà Jabhat al Nusra non accetta tutti: per essere ammessi bisogna superare una serie di prove fisiche (l’allenamento è più pesante rispetto a quello dell’Esercito libero di Siria) e avere un forte, anzi “fortissimo”, fervore religioso. I membri di Jabhat al Nusra prestano giuramento di fedeltà al capo e “non litigano su chi deve comandare”, come fanno le altre brigate. I ragazzi intorno a Sibahi nei loro computer hanno foto di Bin Laden e del saudita Amir Khattab, una specie di “Che islamico”. Jabhat al Nusra dice di non rispondere ai proclami di al Zawahiri, ma i metodi e gli scopi sono gli stessi di al Qaida: attentati suicidi, decapitazioni, autobomba, indottrinamento religioso e creazione di un califfato islamico. “In linea di principio condividiamo molte cose con al Qaida – spiega – Però non abbiamo come obiettivo la distruzione delle chiese o l’attacco dei simboli sacri delle altre religioni”. I siriani sono abituati a vivere in una società multiconfessionale, ma in vista dell’instaurazione di un califfato islamico potrebbero recuperare la consuetudine arabo-ottomana di “chiedere pegno”. Nel nord di Aleppo molti delle brigate islamiche l’hanno già fatto: nella zona industriale hanno iniziato a taglieggiare gli imprenditori cristiani chiedendo dai 30 ai 200 mila dollari per non incendiare le loro fabbriche. “Non capisco perché non mi è stata posta la domanda più ovvia – interrompe Sibahi – Perché non mi è stato chiesto: perché combattiamo?”. Forse perché la risposta è scontata: “L’esercito di Assad ha massacrato le nostre famiglie. Ha ucciso i nostri bambini, cosa dovevamo fare? Abbiamo il diritto di difenderci”. Quanto agli attentati suicidi, spiega: “Nell’islam c’è il calcolo dei costi e dei benefici. Se voglio eliminare un check-point e vado lì a sparare contro i soldati, loro risponderanno al fuoco e io morirò comunque. Se mi faccio esplodere, riesco ad avvicinarmi di più al bersaglio e ho la certezza di eliminare il maggior numero di persone”. Poco importa se si tratta di coetanei siriani che indossano la divisa del regime: secondo Jabhat al Nusra, “avrebbero potuto disertare”.
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