domenica 24 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Repubblica Rassegna Stampa
06.12.2012 Disinformazione, falsificazione e menzogne su Israele
Lucio Caracciolo e Adriano Sofri in tandem

Testata: La Repubblica
Data: 06 dicembre 2012
Pagina: 42
Autore: Lucio Caracciolo - Adriano Sofri
Titolo: «Palestina - Quanto si somigliano quei due popoli nemici»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 06/12/2012, a pag. 42, l'articolo di Lucio Caracciolo dal titolo "Palestina", a pag. 42, l'articolo di Adriano Sofri dal titolo " Quanto si somigliano quei due popoli nemici ".

Fare la pace con chi ti vuole distruggere ? Facilissimo !

Ecco i pezzi, preceduti dai nostri commenti:

Lucio Caracciolo - "Palestina"


Lucio Caracciolo   

Caracciolo inizia l'articolo con un paragone assurdo : "Che differenza c’è fra Santa Sede e Palestina? Secondo l’Onu nessuna, da quando il 29 novembre scorso l’Assemblea Generale ha elevato a schiacciante maggioranza (...)l’Autorità nazionale palestinese (Anp) al rango di “Stato osservatore non membro”, lo stesso di cui gode l’entità vaticana. Ma mentre la monarchia papale, con i suoi 572 cittadini in 0,44 chilometri quadrati, è uno Stato a tutti gli effetti, l’Anp del “sindaco di Ramallah”, Abu Mazen, resta una categoria dello spirito. ". Già, peccato che il Vaticano non abbia uno statuto nel quale si prevede la cancellazione di uno Stato limitrofo e che non possegga un arsenale in razzi col quale bombardare altre città.
Caracciolo continua : "
quel che avanza della Cisgiordania occupata da Israele, amputata dal Muro e colonizzata dagli insediamenti ebraici – tra cui vere e proprie città fortificate – è strettamente sorvegliato dalle Forze armate di Gerusalemme. Sicché oggi nella “Palestina storica”, accanto allo Stato d’Israele troviamo due monconi isolati – Gaza e pezzi di Cisgiordania – che sfuggono a qualsiasi definizione geopolitica. ". La barriera di sicurezza (non muro), facile menzionarla senza specificare per quale motivo esiste. E' stata eretta per bloccare gli attentati terroristici suicidi della seconda intifada. Le vittime israeliane non contano mai nulla ?
Che cosa sarebbe la 'Palestina storica' di cui scrive Caracciolo ?
Non è ben chiaro, se non per il fatto che suggerisce che, prima della nascita di Israele, su quei territori ci fosse uno Stato palestinese denominato 'Palestina storica' e che Israele le abbia rubato terra.
Fa bene Caracciolo a definire 'teatro retorico-diplomatico' la votazione all'Onu. Dal punto di vista pratico, infatti, non ci sono stati sostanziali cambiamenti per quel che concerne la nascita di uno Stato palestinese. Solo un cambiamento, il permesso per Abu Mazen di accedere alla corte internazionale dell'Aja e attaccare Israele per vie legali. Un bel passo avanti per i negoziati, senza dubbio.
Caracciolo spaccia Gaza per 'territorio conteso' con Israele. Niente di più falso. Israele si è ritirato dalla Striscia di Gaza nel 2005. Non ci sono israeliani nella Striscia che, dal 2006, è nelle mani dei terroristi di Hamas.
Hamas non è classificata 'terrorista' solo da Israele, anche se Caracciolo scrive questo. Sono Usa, Ue e Onu a definirla in questi termini.
Caracciolo scrive : "
Non ingannino le “guerre di manutenzione” Hamas-Israele, che servono a oliare i meccanismi di uno stallo cui nessuna delle due parti intende rinunciare, per carenza di alternative migliori.". Guerre di manutenzione? Migliaia di razzi contro la popolazione israeliana costretta a vivere nel terrore del suono delle sirene di allarme sarebbe 'manutenzione'. E gli scudi umani di Hamas? Manutenzione pure quella ?
Ecco il pezzo:

Che differenza c’è fra Santa Sede e Palestina? Secondo l’Onu nessuna, da quando il 29 novembre scorso l’Assemblea Generale ha elevato a schiacciante maggioranza (138 sì, 9 no e 41 astenuti) l’Autorità nazionale palestinese (Anp) al rango di “Stato osservatore non membro”, lo stesso di cui gode l’entità vaticana. Ma mentre la monarchia papale, con i suoi 572 cittadini in 0,44 chilometri quadrati, è uno Stato a tutti gli effetti, l’Anp del “sindaco di Ramallah”, Abu Mazen, resta una categoria dello spirito. Non controlla nessun territorio sovrano: quel che avanza della Cisgiordania occupata da Israele, amputata dal Muro e colonizzata dagli insediamenti ebraici – tra cui vere e proprie città fortificate – è strettamente sorvegliato dalle Forze armate di Gerusalemme. Sicché oggi nella “Palestina storica”, accanto allo Stato d’Israele troviamo due monconi isolati – Gaza e pezzi di Cisgiordania – che sfuggono a qualsiasi definizione geopolitica. Nel primo, esteso quanto la fu provincia di Prato, sono compresse oltre un milione e mezzo di anime, sotto il regime islamista di Hamas. Nel secondo, più piccolo della provincia di Perugia, si accalcano due milioni e mezzo di palestinesi, più quasi mezzo milione di coloni ebraici. Su questo sfondo, il ritornello “due popoli due Stati” che la “comunità internazionale” – altra entità indefinibile – continua imperterrita a salmodiare, suona piuttosto beffardo. Non sarà certo il voto del Palazzo di Vetro a renderlo meno astratto. Eppure intorno ad esso si è animato l’ennesimo teatro retorico-diplomatico che i protagonisti della disputa israelopalestinese sentono il bisogno di allestire a intervalli irregolari per certificare l’esistenza in vita del contenzioso. Dunque del loro diritto a occuparsene, da professionisti del negoziato virtuale. La drammatizzazione scenica non deve farci perdere di vista la sostanza: il sogno (o l’incubo) dei due Stati resta chimera. Per molte ragioni, di cui due decisive: il popolo palestinese è lungi dal formare una nazione; allo stesso tempo, la crescente eterogeneità della sua popolazione spinge Gerusalemme a cementare il fronte interno nella logica dell’emergenza permanente, a garanzia dello status quo geopolitico, dunque del titolo di massima potenza regionale. Consideriamo i palestinesi. Oggi se ne contano circa 12 milioni e mezzo. Di questi, quattro milioni nei Territori occupati (Gaza e Cisgiordania), che per Israele sono “terre contese”. Solo un terzo del totale, quindi. Il resto (4,5 milioni) è dato da profughi nei paesi arabi, spesso stipati in campi invivibili, trattati come paria dai regimi che pure si proclamano difensori della loro causa; altri (1,2 milioni) sono cittadini della Giordania, separati nella fatiscente casa del re hashemita; altrettanti dispersi nel mondo, specie in Europa e nel Nordamerica. Infine, quasi un milione e mezzo sono israeliani. Cittadini non sionisti di che alcuni di loro continuano a considerare “entità sionista”, trattati come soggetti di serie B dal governo di Gerusalemme e come traditori dai più fanatici fra i loro connazionali (non concittadini). Tuttavia refrattari a scambiare il benessere e le relative garanzie della democrazia israeliana con la gabbia di Gaza o la Cisgiordania occupata e depressa. Fra i palestinesi vigono inoltre ataviche gerarchie claniche. Alcune riflesse nella frammentazione politica, polarizzata fra i “moderati” (perché accettati dall’Occidente) di Fatah e gli “estremisti” (classificati come “terroristi” da Israele) di Hamas, oltre a un rosario di formazioni minori, dalle più laiche e liberali a quelle di matrice islamista, vicine all’Iran. Ciascuna di tali organizzazioni ha la sua milizia e la sua intelligence – quasi sempre più di una. Più che dedicarsi a combattere il nemico sionista, anzi collaborando spesso con il Mossad, tali bande si contendono i traffici d’ogni genere che proliferano all’ombra dell’occupazione israeliana. Insomma, il popolo palestinese soffre, sopravquella vive grazie agli aiuti internazionali (che contribuiscono a denazionalizzarlo), ma è lungi dal formare una nazione compatta e decisa nel reclamare un proprio Stato. Peraltro Israele fa di tutto per impedire che le diverse anime palestinesi si raccolgano in un fronte unico. Con il paradossale risultato di intendersi meglio con Hamas – ad oggi il “male minore” nella Striscia, infiltrata dai qaidisti e dalle milizie filo-iraniane – grazie anche alla mediazione del nuovo Egitto di Morsi, che con il clan di Ramallah, comunque ricattabile perché ipercorrotto. Non ingannino le “guerre di manutenzione” Hamas-Israele, che servono a oliare i meccanismi di uno stallo cui nessuna delle due parti intende rinunciare, per carenza di alternative migliori. Quanto al popolo israeliano. I cittadini dello Stato d’Israele sono circa 8 milioni, di cui quasi 6 classificati come ebrei, 1,7 arabi e 0,3 di altro ceppo. In base alle statistiche ufficiali, un quarto degli abitanti dello Stato ebraico non sono dunque ebrei. E di tanto in tanto riecheggia l’allarme del sorpasso arabo nello spazio dell’ex Mandato britannico, fra Mediterraneo e Giordano, recentemente riannunciato da Ha’aretz in base a discutibili statistiche fondate sul fisco. Ma il problema maggiore, per l’ebraicità dello Stato ebraico, non deriva tanto dalla crescita araba ai suoi vaghi confini (ovvero nei limiti del “Grande Israele”, esteso a Giudea e Samaria/Cisgiordania), quanto dalle divisioni interne alla maggioranza ebraica. Non solo la classica partizione originaria fra sefarditi e ashkenaziti, ma quelle recentemente accentuate dall’immigrazione di neoisraeliani di ascendenza africana e soprattutto slava. Immigrati recenti che costituiscono, fra l’altro, il grosso dell’esercito nazionale. A cominciare dagli ebrei di origine russa, alcuni dei quali meglio definibili come russi di origine ebraica (talvolta millantata), che occupano posizioni di rilievo nell’élite politica e nelle gerarchie sociali d’Israele, magari dotati di doppio o triplo passaporto. Per tacere dell’incomunicabilità fra estremisti ultrareligiosi, concentrati tra Gerusalemme e colonie, ed ebrei assai più laici, prevalenti a Tel Aviv e dintorni. Un tempo, quando di venerdì ai preti veniva voglia di carne, la battezzavano pesce. L’“ ego te baptizo Palestinam” pronunciato dall’Assemblea generale dell’Onu può divertire i cinici ma non cambia i termini del dramma. La Palestina è altrove.  

Adriano Sofri - " Quanto si somigliano quei due popoli nemici "


Adriano Sofri

Adriano Sofri suggerisce che Israele sia nato dal senso di colpa dell'Europa per la Shoah e che l'attuale governo marci su questo sentimento per compiere tutti i suoi 'crimini' senza venir mai punito.
Sofri scrive "
israeliani e palestinesi si conoscono, e perciò si assomigliano". Teoria interessante. Gli abitanti di Sderot conoscono i terroristi di Hamas per via dei razzi che ricevono quotidianamente dalla Striscia, perciò si assomigliano? Cittadini vittime=terroristi?
Sofri continua a diffondere lamenzogna dei 'due popoli'. Il popolo ebraico esiste da millenni. Quello palestinese no. E' 'nato' 64anni fa dalla propaganda araba contro Israele. Non c'è nessun popolo palestinese, ma semplici musulmani simili in tutto e per tutto a quelli che abitano in Giordania, Siria, Arabia Saudita.
Secondo Sofri "
Chi ama Israele deve avere il coraggio di dire che è pericolosa e dissennata l’idea di costruire altre case". Chi ama Israele ne ha a cuore la sicurezza e la sopravvivenza, cose che non sono garantite dalla nascita di uno Stato palestinese entro i confini del '67 e in base a dichiarazioni unilaterali e senza negoziati. Gerusalemme è la capitale di Israele, non un insediamento. Per quale motivo a Israele non deve essere permesso costruire nella propria capitale ?
Sofri continua : "
Se fossi un israeliano (lo siamo un po’, no? Se non altro per la nostra porzione di passato, ad dishonorem) farei di tutto per favorire la nascita della Palestina, perché finalmente sarà lo Stato palestinese a sancire agli occhi del mondo arabo la legittimità di quello degli ebrei. ". No, non siamo tutti un po' israeliani, specialmente per il nostro 'passato'.
Israele è uno Stato legittimo perché fondato in seguito a una risoluzione Onu, la stessa che prevedeva la nascita di quello Palestinese. Sono stati gli arabi a rifiutare. Non sarà la nascita di uno Stato palestinese a dare a Israele pace e legittimità agli occhi degli arabi i quali vogliono esclusivamente la sua cancellazione. Basta vedere come sono andati i negoziati negli ultimi 60anni.
Ecco il pezzo:

Succede che si confonda volentieri Israele con “gli ebrei”, e che si confonda lo Stato di Israele coi suoi governi: confusione che non avviene per altri paesi, e che sottintende, più o meno avvertitamente, l’idea che lo Stato di Israele sia un infortunio provvisorio della storia. Reciprocamente, governanti di Israele si fanno scudo della stessa confusione per far passare le loro libere e deliberate scelte politiche come imposte da una condizione di necessità: la difesa della sopravvivenza di Israele. Quest’ultima non è oggi meno minacciata di quanto fosse in passato, come nell’avanzata nucleare dell’Iran. Chi ama Israele e ricorda il debito irrisarcibile che l’Europa tutta contrasse con i cittadini europei superstiti che vi ripararono, fa spesso fatica a tener ferma la distinzione. Il governo di Netanyahu e Liberman è mosso da un oltranzismo miope, e ne ha appena dato saggio con la ritorsione delle nuove colonie. Sotto la formula, ripetuta troppo stancamente e a memoria, “due popoli e due Stati”, c’è un punto così scandalosamente semplice che si esita quasi a enunciarlo: che non si può voler bene a Israele senza voler bene alla Palestina, che non si può voler bene alla Palestina senza voler bene a Israele. Suona come una stucchevole banalità, vero? Il mondo va altrimenti. Per voler bene a Israele bisogna odiare la Palestina, per voler bene alla Palestina bisogna odiare Israele. Succede anche con le squadre di calcio. Là ha l’odore eccitante della guerra e del sangue, o la rassegnazione a una condanna. L’odore del sangue e la sensazione di una fatalità si nutrono della prossimità, della strettezza. La terra che si contendono, poco più grande della Toscana, è la stessa, colline dolci e ulivi secolari, troppo piccola per separarli davvero, per allargare le maglie, come occorre in una mischia. E poi israeliani e palestinesi si conoscono, e perciò si assomigliano. Lo disse una volta, quasi vent’anni fa, David Grossman. Disse che i due popoli sono sempre stati affascinati l’uno dell’altro: guardano la stessa tv, ascoltano le stesse canzoni; hanno la stessa scettica insofferenza nei confronti dei poteri costituiti. Da allora sono passate due intifade, due guerre di Gaza e un processo di pace che tutti proclamano fallito. Ma i due popoli continuano a specchiarsi l’uno nell’altro. Il parossismo della tensione fra vittima e carnefice cambia di campo, secondo le circostanze, in un vorti- ce di violenze, recriminazioni, disconoscimenti, e fondamentalismi. A sua volta Amos Oz sostiene che ad accomunare i fondamentalisti delle due parti è la mancanza del senso dell’umorismo. È un allarme: attenti perché le somiglianze tra i due popoli stanno prendendo una china senza ritorno. Chi ama Israele deve avere il coraggio di dire che è pericolosa e dissennata l’idea di costruire altre case, un altro insediamento (3.400 abitazioni) alle porte di Gerusalemme come una ritorsione per la decisione dell’Assemblea generale dell’Onu di conferire alla Palestina lo status dello Stato osservatore. È un paradosso, ma proprio perché lo spazio della Palestina-Israele è così esiguo e limitato, e perché i due popoli sono condannati a convivere, a meno di una catastrofe, oggi occorre la separazione. Come in una famiglia che disponga di una sola casa: ognuno nella propria stanza, per cercare di riprendere il filo della propria vita. Ci si incontra quando è necessario – o quando si è pronti. C’è un argomento ancora più forte per convincersi della reciprocità. Se fossi un israeliano (lo siamo un po’, no? Se non altro per la nostra porzione di passato, ad dishonorem) farei di tutto per favorire la nascita della Palestina, perché finalmente sarà lo Stato palestinese a sancire agli occhi del mondo arabo la legittimità di quello degli ebrei. Gli accordi di pace con Egitto e Giordania non tolgono che Israele sia inviso al mondo arabo. Intellettuali, attivisti, artisti rifuggono i contatti con i loro colleghi israeliani. Israele è tuttora sentito come una potenza (una potenza, nonostante le dimensioni fisiche) estranea alla regione, che esiste perché ha spogliato il suo vicino di ogni diritto. Lo Stato della Palestina accanto a quello d’Israele contraddirebbe questo sentimento di fuori, e indurrebbe dentro Israele il ripensamento della storia propria e di quella dei palestinesi. Lo Stato di Palestina aiuterebbe una convalescenza della società israeliana da molte delle sue nevrosi. E i palestinesi, una volta conquistata la sovranità, sarebbero indotti, se non a rinunciare ai sogni (chi può vivere senza sognare?) di tornare nelle case di Giaffa, Haifa o Lod, a misurarli con la realtà. Si può anche condividerlo, un sogno: per esempio, che nasca a Gerusalemme un’università comune ai due popoli dove studiare la storia del conflitto, e i suoi effetti sulle anime.

Per inviare la propria opinione a Repubblica, cliccare sull'e-mail sottostante


rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT