Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 05/12/2012, a pag. 17, gli articoli di Fabio Scuto e Gilles Kepel titolati "Sulla Collina del giorno del giudizio la colonia con cui Israele sfida il mondo" e " Netanyahu mette alla prova la pazienza di Usa e Ue ".
Sia Scuto sia Kepel vedono nella costruzione di nuovi appartamenti (non case) su una collina limitrofa a Gerusalemme una specie di piano di colonizzazione israeliano che minerà tutti i processi di pace.
I negoziati sono bloccati da anni 'grazie' alla volontà palestinese. Il riconoscimento della Palestina all'Onu, questo bloccherà tutti i negoziati, non la costruzione di una manciata di palazzi. 3000 case, si legge nel pezzo di Scuto. Si tratta di appartamenti, il che significa una cinquantina di edifici, non 3000 case !!!. Ma, com'è abitudine, a Repubblica non interessa informare i lettori, solo diffondere propaganda.
Gerusalemme, poi, non è una colonia. E' naturale che, con l'aumento della popolazione, sia necessario costruire nuove case. Succede in tutto il mondo. Per quale motivo la capitale israeliana dovrebbe fare eccezione ?
Ecco i due articoli:
Fabio Scuto - "Sulla Collina del giorno del giudizio la colonia con cui Israele sfida il mondo"
Bibi Netanyahu
COLLINA E 1 (CISGIORDANIA) — La “collina del giorno del giudizio” è uno sperone, arido e desolato, che sulla sinistra domina la strada che da Gerusalemme digrada verso Gerico, la Valle del Giordano e il Mar Morto. Il silenzio che regna qui attorno è l’immagine speculare dello scontro a livello internazionale nato intorno a quest’altura diventata simbolica. Ufficialmente ha solo un nome amministrativo E 1 (East One), il nome ufficiale di questo insediamento è già deciso e sarà Mevasseret Adumin, ma per tutto il movimento dei coloni e la destra israeliana che li sostiene, è adesso “The Doomsday Hill”, il luogo del destino che si deve compiere con la nascita di una nuova piccola città con 3500 nuove case e un bel centro commerciale, ben oltre la “Linea Verde” del 1967 dove già vive oltre mezzo milione di coloni. Una decisione che darà, come ha detto il segretario generale dell’Onu Ban ki-moon, «un colpo mortale alla possibilità di una pace basata su “due Stati”», spingendo il processo di pace verso i pericolosi marosi di una tempesta perfetta che si sta addensando in Medio Oriente. Ma la “rappresaglia” del premier Benjamin Netanyahu per il voto all’Onu sulla Palestina, non si ferma qui: presto si discuterà di altre 1700 nuove case a Ramat Shlomo e altre centinaia a Givat Hamatos e Gilo, tre grandi insediamenti che fanno da cintura alla Città santa. Su terre che per i palestinesi devono far parte di quello Stato del quale hanno appena avuto il riconoscimento “de facto” alle Nazioni Unite. «Le costruzione di nuovi insediamenti sono illegali, e per questo Israele deve essere considerato responsabile di crimini di guerra contro il popolo palestinese», ha denunciato ieri al Consiglio di sicurezza l’ambasciatore palestinese all’Onu Ryad Mansour, «la politica colonialistica deve finire: oppure Israele dovrà essere considerato responsabile per i crimini posti in essere». La collina E 1 è uno dei pochi luoghi intorno a Gerusalemme che anche Cristo e i suoi apostoli potrebbero ancora riconoscere: una collina arida, sassosa e polverosa, riarsa dal sole e battuta dal vento caldo, talvolta percorsa dai pastori beduini che con le loro greggi ancora attraversano queste alture. Sono solo 12 chilometri quadrati ma in un punto strategico. Costruire qui significa creare un cuneo nel cuore della Cisgiordania, che isolerà i Territori dell’Anp da Gerusalemme, compromettendo così la contiguità territoriale di uno Stato palestinese: sarà impossibile andare da Ramallah (nord) a Betlemme (sud). I progetti di espansione nella zona vennero avviati nel Duemila e ma poi sono sempre stati fermati per le pressioni americane. Un blocco mal digerito già a quel tempo da Netanyahu che si esibì qui in un polemico show per denunciare il «cedimento» dell’allora premier Sharon. Ma intanto erano già state spese somme enormi per le strutture, le basi erano state gettate e sono rimaste. Oggi è una specie di città fantasma, strade — che sembrano non andare da nessuna parte — seguono i pendii rocciosi e l’ombra dei lampioni si stampa su marciapiedi vuoti. Ci sono le piazze, gli incroci, le rotatorie, i terreni edificabili sono stati livellati ma mancano gli edifici e le case private. Sembra il set di un film abbandonato a metà da un regista rimasto senza soldi e senza idee. C’è solo una costruzione che sta proprio in cima alla collina. È un piccolo fortino e ci si arriva percorrendo una strada nel nulla. Ospita il distretto della Polizia israeliana per la Giudea e la Samaria, ed è senz’altro uno dei commissariati più strani del mondo perché è completamente staccato dalla popolazione che dovrebbe servire. Incuranti della crisi internazionale che è nata attorno alla E1, i sostenitori del progetto resuscitato da Netanyahu lo difendono come la naturale estensione del vicino insediamento di Maale Adumim — la cittadina con le villette dai tetti rossi che si vede sulla collina di fronte — la reazione d’orgoglio nel diritto che Israele ritiene di avere nel costruire dove «necessario per la sua espansione». Dice Benny Kashriel, il sindaco di Maale Adumim: «Molti governi hanno promesso di costruire qui, ma come vede intorno a noi ci sono solo colline vuote. Adesso vedremo se Netanyahu avrà il coraggio di andare fino in fondo». L’avvocato Daniel Seidmann, che patrocina alcune cause dei proprietari palestinesi della zona, mostra una serie di mappe che raccontano la storia complessa che c’è dietro la zona E 1: un piano globale per circondare Gerusalemme con gli insediamenti colonici e separarla dalla Cisgiordania. La città santa è al centro di due “cerchi”: quello interno è costituito dai piccoli insediamenti attorno alla Old City e alle sue Mura, il secondo è esterno e attraversa tutte le alture intorno a Gerusalemme, dove già esistono le grandi colonie sponsorizzate dal governo. La “collina del giorno del giudizio” è l’ultima. Il pezzo mancante del puzzle per chiudere il cerchio esterno.
Gilles Kepel - " Netanyahu mette alla prova la pazienza di Usa e Ue "
Gilles Kepel
L’IRRIGIDIMENTO della politica colonizzatrice israeliana dopo il riconoscimento della Palestina come Stato non-membro dell’Onu ricorda quanto accadde, un anno fa, quando questa fu ammessa all’Unesco. Oggi, tuttavia, il progetto dello Stato ebraico appare ancora più sorprendente: la costruzioni dei nuovi insediamenti a Est della città vecchia di Gerusalemme finirebbe per tagliarla dalla Cisgiordania con cui è connessa tramite il passaggio di Kalandia. E’ chiaro che con questa provocazione il premier Benyamin Netanyahu vuole mettere alla prova la pazienza dell’Europa e del presidente americano rieletto, Barack Obama.
Ma qual è la vera ragione della sfida di Netanyahu? Per capirla non ci si deve fermare alla situazione interna israeliana. Infatti, il premier ha sciolto la Knesset e anticipato le elezioni a gennaio. Ora, durante l’offensiva su Gaza diversi missili sparati da Hamas sono caduti vicino a Tel Aviv, città tradizionalmente di sinistra ma che lo spavento di quei giorni potrebbe spingere verso il partito dei “falchi”. In un contesto internazionale in cui la primavera araba è vista sia come l’autunno del caos sia come l’inverno islamista, ogni forma di fermezza nei confronti degli arabi è ovviamente fruttuosa.
Tuttavia, più che come rappresaglia
il debole Abu Mazen, la politica israeliana sembra tesa al conseguimento di obiettivi strategici in Medio Oriente, con l’ovvio beneplacito non solo degli
occidentali ma anche di quelle cancellerie arabe sunnite che sono terrorizzate dalla minaccia iraniana. Quando ha attaccato la Striscia, distruggendo i suoi siti missilistici, Netanyahu mirava in realtà il fronte iraniano, dal momento che Hamas è la punta più avanzata dell’influenza di Teheran in Medio Oriente.
Basta ascoltare i predicatori sunniti o salafisti nel Qatar, nel Bahrein e in Libano, i quali si dicono convinti che la presa di potere di Hamas a Gaza nel 2007 sia stata un’operazione voluta dall’Iran, così come la guerra di Hezbollah contro Israele nel 2006 o l’attacco contro i sunniti libanesi nel 2008.
Fino al mese scorso, quando Israele voleva parlare con Hamas non trovava mai un interlocutore, perché i suoi referenti erano sia a Damasco sia a Teheran. Ma le cose sono cambiate: da un lato Hamas ha perduto il sostegno siriano; dal-l’altro, l’attacco israeliano contro Gaza ha fortemente indebolito il ramo proiraniano del partito islamico palestinese, favorendo invece coloro che sono più vicini ai Fratelli musulmani egiziani. Perciò, nonostante le dimostrazioni di vittoria inscenate a Gaza, Israele ha segnato un punto importante. Da ora in poi per trattare con Hamas gli basta comporre il prefisso egiziano. Non solo: all’indomani delle rivoluzioni arabe sembra finalmente delinearsi una politica dello Stato ebraico riguardo alla spaccatura sciita-sunnita, che vede tra i suoi antagonisti l’Iran aiutato dall’Iraq, da ciò che resta della Siria di Bashar Al Assad e da Hezbollah da un lato e i Paesi del Golfo capeggiati dall’Arabia saudita dall’altro.
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