Trascurando quelli prevedibili, che recitano la solita solfa, smentita oggi, 04/12/2012, nella Cartolina di Ugo Volli, pubblichiamo i commenti di Fiamma Nirenstein sul GIORNALE a pag.20, Giulio Meotti sul FOGLIO a pag.3, Stefano Magni sull'OPINIONE, e l'intervista a David Grossman di Fabio Scuto su REPUBBLICA a pag.19, preceduta da un nostro commento.
Ecco gli articoli:
Il Giornale-Fiamma Nirenstein: " L'Europa perde il ruolo di mediatore con Israele "
L'Europa si dice molto preoccupata, ma si vede di lato un sorrisetto di malvagio compiacimento. Parigi, Londra, Stoccolma hanno invitato per spiegazioni gli ambasciatori israeliani, anche la Germania condanna. L'Italia, per bocca del premier Mario Monti, esprime il suo sdegno in maniera molto pesante anche perché si unisce alla Francia parlando di «colonizzazioni » israeliane e si preoccupa riconoscendosi nelle dichiarazioni di un personaggio che verso Israele ha sempre avuto un'antipatia così profonda da comparare a suo tempo l'eccidio terrorista di Tolosa alla morte dei bambini a Gaza, la signora Ashton! Monti e il resto dei leader europei, dopo aver tutti o quasi votato a New York contro Israele si aspettavano forse che Israele opponesse un dolce sorriso. Invece Israele ha reagito, e l'Europa insorge, non sembra capire che ha provocato lei la reazione: no, Israele è cattivissimo, anche se l'Onu l'ha appena aggredito con la risoluzione che stabilisce unilateralmente lo Stato palestinese, senza trattative, cancellando tutti i trattati. Ieri, alla notizia che Israele ha deciso di costruire tremila unità nei pressi di Ma'aleh Adumim, un insediamento molto vicino a Gerusalemme, stabilito e sostenuto da Yitzhak Rabin, l'Europa si è sentita chiamata a proseguire la sua crociata antisraeliana, invece di aprire una riflessione sull'evidente fatto che il voto all'Onu, lungi dall'aprire nuove vie verso la pace, alimenta la tensione nell'area. Un Paese attaccato da tutte le parti non può che cercare di mettersi al riparo. Chi conosce il terreno sa che la parte detta E1 non impedirebbe, come ora si sostiene, la continuità di uno Stato palestinese, e sa anche che Ma'aleh Adumim era una delle zone stabilite da Clinton per i famosi swap territoriali. Preoccuparsi per il «colonialismo» israeliano è una forma di incitamento, piuttosto il nostro governo ha il dovere di preoccuparsi del rapido decadimento dell'Europa e dell'Italia dal ruolo di possibili mallevadori per un processo di pace che così intensamente diciamo di auspicare. Se si parla con gli israeliani disillusi dall'Europa, la domanda che fanno è «Ma l'Europa non lo sa che cessammo, su richiesta di Abu Mazen, di costruire per dieci mesi aspettando che tornasse alla trattativa, e l'attesa è stata vana? E non è giusto assicurare la via d'accesso al nostro traffico anche militare dalla valle del Giordano a Gerusalemme, invece di lasciarla, in mancanza di accordi, nelle mani di chi con noi non vuol nemmeno parlare?». L'Italia sembra convinta di aver compiuto un gesto che finalmente la rimette in riga con i Paesi europei, cheda sempre propendono per i Paesi arabi. Oggi poi, nell'incertezza la tentazione di abbracciare i Paesi delle rivoluzioni arabe è grande, e in genere il prezzo richiesto è quello dell'abbandono di Israele. Se guardiamo Bersani che ha annunciato il viaggio in Libia come primo gesto dopo la vittoria, si capisce bene come Lawrence d'Arabia sia una sindrome (ma lui teneva per gli ebrei!) tipica della sinistra tradizionale, e lo è in tutta Europa.
Il Foglio-Giulio Meotti: " Israele pensa a difendersi con nuove case. Furiosi pure gli alleati "
Roma. Non era mai successo che Francia e Gran Bretagna minacciassero di ritirare gli ambasciatori da Israele, un passo definito “senza precedenti”, per protestare contro la decisione del governo di Benjamin Netanyahu di costruire tremila alloggi fra Gerusalemme e la Cisgiordania. “Questa volta non ci sarà una formale protesta, ci sarà una concreta reazione contro Israele”, scrive il quotidiano Haaretz citando un diplomatico europeo anonimo. E’ iniziato il “day after” dell’iniziativa dell’Autorità palestinese alle Nazioni Unite, che ha conferito a Ramallah l’upgrade diplomatico a osservatore non membro, iniziativa che il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha definito “terrorismo diplomatico”. Dopo il voto all’Onu, Israele si ritrova più solo. Al Palazzo di vetro ha potuto contare sull’amicizia di Stati Uniti, Canada, Repubblica Ceca, Panama, isole Marshall, Micronesia, Nauru e Palau. Non molto. Adesso a suscitare le ire della comunità internazionale, compresa la Casa Bianca che si è detta “scioccata”, è il più controverso progetto di insediamento nei territori contesi dal 1967. Si tratta dell’ambizioso progetto edile volto a collegare Gerusalemme all’insediamento ebraico di Maale Adumim. Il progetto in questione – noto come “E1” o anche “La porta d’oriente” – prevede la costruzione di un capillare tessuto urbano fra l’insediamento e i quartieri orientali di Gerusalemme. La nuova zona sarebbe la continuazione del rione ebraico di Har Homa, la cui costruzione da parte di Netanyahu, a partire dal marzo 1997, aveva già provocato il congelamento del processo negoziale in medio oriente. “Londra è furiosa sul progetto E1”, ha detto un diplomatico europeo. “Non sono semplicemente altre case in una collina della West Bank”, ha detto Daniel Kurtzer, ex ambasciatore a Tel Aviv. “E’ una delle aree più sensibili”. Ma Israele ritiene strategico costruire lì. Maale Adumim è uno di quegli insediamenti a cui neppure i centristi o la sinistra dicono di poter rinunciare in un ipotetico scambio di territori con i palestinesi. Per questo ieri la leader laburista Shelly Yachimovich, pur contestando la tempistica del governo, ha detto che “costruire nei quartieri ebraici di Gerusalemme non è controverso”. E infatti Maale Adumim è uno dei soli quattro insediamenti, su più di centoventi esistenti in Cisgiordania, a cui Israele ha conferito lo status di città. Fondata nel 1975 da venti famiglie, la città conta oggi quarantamila abitanti, negozi, scuole e centri commerciali. L’insediamento guarda avidamente a un’area di dodici chilometri quadrati, la “E1”, che gli permetterebbe di congiungersi a Gerusalemme. Ma per i palestinesi, costruire lì significa tagliare in due la Cisgiordania, spezzando ogni continuità territoriale del futuro stato. Ramallah e Betlemme sarebbero tagliate da Gerusalemme e i quartieri arabi di Abu Dis, Eizariya, Anata e Zaim non avrebbero legami con il nord dei territori. Il progetto israeliano è teso a rafforzare quella che la sinistra chiama la “Grande Gerusalemme”, in particolare Har Homa, che sorge a meno di un chilometro da Betlemme. Prima del 1997, quando con Netanyahu il quartiere iniziò a prendere forma, a Har Homa si poteva trovare una sola cosa: il vento e qualche nuraghe. Per entrambe le parti possedere quella zona è oggi strategico: se ci costruiscono gli israeliani, allargano il confine della città a sud, impedendo l’accerchiamento di Gerusalemme da parte dell’Autorità palestinese, che a sua volta godrebbe di una continuità geografica fino al quartiere di Talpiot, praticamente in centro città, nel caso contrario. Come oggi, Netanyahu anche allora disse che se Har Homa non fosse stata costruita, “la battaglia di Gerusalemme sarebbe perduta per sempre”. I coloni israeliani commentavano ieri che se Netanyahu va avanti col progetto “varcherà il Rubicone”, ma dubitano che riuscirà a resistere alla pressione interna e internazionale. Agli occhi dei palestinesi e degli alleati d’Israele è “drammatica” l’espansione di Givat Hamatos, che l’organizzazione Peace Now chiama “silent killer”. Oggi è un ghetto di roulotte ingiallite abitate da ebrei yemeniti in cima a una collina che si affaccia su Gerusalemme. Il governo Netanyahu vuole farci duemila case. Sarebbe la prima comunità ebraica costruita ex novo in venticinque anni nei territori contesi dal 1967 (quelle attualmente in costruzione sono estensioni di colonie esistenti). Israele andrà a edificare su terra demaniale, appartenuta ai turchi, agli inglesi, ai giordani e infine agli israeliani. Netanyahu assicura che andrà a studiare ogni centimetro e che le case saranno disponibili anche per i palestinesi. Sul Jerusalem Post, Lenny Ben- David, già diplomatico a Washington, ha spiegato l’importanza di questi quartieri “Sorgono a un chilometro da Betlemme e a cinque dalla città vecchia di Gerusalemme. Non stupisce che i palestinesi attacchino. Ma questi quartieri ospitano un terzo della popolazione della capitale e proteggono la città”. Nel progetto E1 ci sono ragioni demografiche. Israele vuole mantenere sul 70 a 30 la percentuale di ebrei e arabi nella capitale. C’è bisogno di costruire cinquemila case ogni anno, centomila in venticinque. Nel maggio del 2009, Netanyahu aveva promesso all’Amministrazione Obama che non avrebbe costruito in quel corridoio di terra. Ma questo era prima del “bid” palestinese all’Onu. Ieri, parlando al magazine on line al Monitor, ufficiali israeliani hanno detto che “l’accordo con gli americani sulla E1 non è più rilevante”. E sempre ieri Netanyahu ha spiegato che anche l’ex premier, Yitzhak Rabin, incluse Maale Adumim nel municipio di Gerusalemme. E infatti il comandante militare dell’area, Gadi Shamni, ha firmato il via libera per la costruzione di questa “lifeline”. Il sindaco di Maale Adumim, Benny Kashriel, mostra i documenti che portano la firma di Rabin su quella che l’ex premier definì “opzione nucleare”, tanto per capire la sua importanza e sensibilità. L’espansione nella E1 rientra in quello che Netanyahu chiama “piano Allon plus”, che ricalca i principi di quello presentato dall’ex leader laburista Yigal Allon. In sostanza, Israele annette la regione di Gerusalemme, le aree con la più alta densità di colonie ebraiche, le fonti idriche e quattro strade principali. Nel piano di Netanyahu ci sono le “zone di difesa irrinunciabili”, ovvero l’area di Gerusalemme, che per assicurarsi il destino di capitale d’Israele deve inglobare le città satelliti che pareggino la forza degli arabi dentro e nei dintorni, e i “Green line settlement”, ovvero gli insediamenti a ridosso della linea del 1967 e a pochi minuti di auto da Tel Aviv
L'Opinione-Stefano Magni: " Come ammazzare il processo di pace "
Una singola dichiarazione del governo israeliano sta provocando un’improvvisa escalation di reazioni diplomatiche. «(La decisione dell’esecutivo Netanyahu, ndr) rappresenterebbe un colpo fatale alle rimanti chance di una soluzione di due Stati per due popoli», stando alle parole del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Ma in cosa consiste questa decisione, capace di ammazzare sul colpo un processo di pace? Esaminare il terreno per la costruzione di 3000 case in Cisgiordania. Sì, stiamo parlando di case, abitazioni civili, più le loro necessarie infrastrutture di luce, gas, telefono, strade e fogne. Non stiamo parlando di razzi lanciati, nemmeno di missili puntati contro un nemico, o di un’invasione del suo territorio, né tantomeno di un genocidio o di una pulizia etnica. Ma di: nuove case. Eppure la reazione internazionale è pari a quella che seguirebbe lo scoppio di un conflitto. Il ministro degli Esteri britannico ha minacciato l’ambasciatore israeliano di “dure reazioni” nel caso il piano di costruzioni dovesse andare avanti. «Deploriamo la decisione del governo israeliano – si legge nella nota del Foreign Office di Londra – di costruire 3000 nuove case e di sbloccare il piano di sviluppo della zona E1. Questo progetto ostacola la soluzione che mira alla costituzione di due Stati». A Parigi l’ambasciatore israeliano è stato convocato al Ministero degli Esteri per subire una lavata di capo da un alto funzionario. Sia Parigi che Londra hanno avvertito Gerusalemme che, se il piano dovesse procedere, ritirerebbero i loro ambasciatori. E stiamo parlando di un piano di costruzione di nuove case, è bene ricordarlo. Francia e Gran Bretagna sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Così come lo è la Russia, che sul sito del Ministero degli Esteri ha pubblicato una nota ufficiale contraria al piano israeliano. Che, come recita la nota stessa, potrebbe avere «un impatto molto dannoso per la pace». La costruzione di 3000 nuove case, dunque, suscita grandi preoccupazioni a Mosca. Gli stessi uomini che difendono il dittatore Bashar al Assad, anche a fronte di un massacro che ammonta ormai a più di 30mila morti (fatti a poche decine di km da Gerusalemme), sono preoccupati per il fatto che nuovi villaggi abitati da ebrei possano danneggiare la quiete di quella regione. Stevie Wonder, nel suo piccolo, per protesta contro la decisione di Netanyahu, ha annullato il suo prossimo concerto in Israele. «Data l’attuale delicata situazione nel Medio Oriente e con un cuore che ha sempre pulsato per l’unità del mondo, io non suonerò», recita il suo laconico comunicato. È la conferma che il doppiopesismo, che ha sempre caratterizzato la narrativa della guerra mediorientale, ormai caratterizza anche la diplomazia ufficiale delle democrazie occidentali. E si perde completamente il senso delle misure. Qualche esempio? Si attribuisce ad una passeggiata di Sharon (per di più, autorizzata dalle autorità religiose musulmane) nella spianata delle Moschee di Gerusalemme l’inizio di una guerriglia e di un’intera stagione del terrorismo, la II Intifadah. Durata cinque anni. Quando l’esercito israeliano ha costruito una barriera per impedire ai terroristi di entrare nelle città israeliane e farsi esplodere in bar, ristoranti, discoteche, autobus, televisioni e delegazioni politiche sono accorse sul terreno con i righelli per misurare e condannare ogni singola, centimetrica, violazione del futuro territorio palestinese, ogni strada bloccata, ogni villaggio tagliato fuori, ogni singolo uliveto attraversato dal muro, ogni ulivo abbattuto. Ciascuno di questi dettagli si è trasformato in un caso mondiale. Contrariamente alle migliaia di vittime israeliane del terrorismo che, per i più, restano anonime. Il furore suscitato da un annuncio israeliano sulla costruzione di nuovi insediamenti, muove dallo stesso doppiopesismo. Israele ha appena subito una pioggia di razzi da Gaza, sul proprio territorio. Ma in quel caso sono state più numerose, in sede Onu, le proteste contro la reazione militare israeliana che non contro l’attacco che stava subendo. Una settimana dopo la tregua, tuttora fragile, l’Onu è stata prontissima a votare una promozione di status dell’Autorità Nazionale Palestinese, senza garanzie per la sicurezza di Israele (né sul tracciato stesso dei confini stessi), senza tener conto del processo di pace iniziato ad Oslo e boicottato, in tutti questi anni, dai palestinesi. L’annuncio del governo Netanyahu è una risposta a questa mancanza di garanzie sul futuro dei confini e della loro sicurezza. Costruendo nella zona E1, a Est di Gerusalemme, il governo Netanyahu lancia due segnali ben precisi: garantire l’unità della capitale di Israele (che i palestinesi vorrebbero dividere, per trasformare la zona Est nella loro capitale) e assicurare i 500mila ebrei, che già vivono in Cisgiordania, che non verranno abbandonati nell’eventuale nuovo Stato palestinese. Tra l’altro quello del governo Netanyahu sulle nuove case è solo l’annuncio di un progetto: i cantieri non sono ancora aperti. I lavori inizieranno solo se i palestinesi non torneranno seriamente al tavolo negoziale. Ma, anche nel caso i cantieri si dovessero aprire realmente e le 3000 case dovessero essere completate, esse non danneggerebbero neppure i palestinesi. Non minerebbero la continuità territoriale del loro nuovo Stato, nemmeno in caso di partizione di Gerusalemme: i quartieri orientali della città potrebbero comunque essere collegati al resto della Palestina con almeno due corridoi, a Sud e a Nord dei nuovi insediamenti. Solo calandoci in un’ottica nazionalista araba potremmo vedere questa mossa israeliana come un affronto: un ostacolo alla nascita di una nazione palestinese senza enclave ebraiche, senza case ebraiche… senza ebrei. Più o meno consapevolmente, il resto del mondo, da Ban Ki-moon a Stevie Wonder, sposa questo progetto puramente razzista. Onu, Russia, Gran Bretagna e Francia (solo per nominare i più autorevoli) protestano, ora, contro Israele come se avesse commesso un crimine di guerra inaccettabile. E dimenticano che si sta parlando solo di case.
La Repubblica-Fabio Scuto: " Il mondo accetterà sempre meno l'occupazione della Palestina "
Di David Grossman si consocono le opinioni, o, piuttosto, le utopie, non staremo qui a confutarle per l'ennesima volta. Gli rivolgiamo soltanto una domanda, se lui considera Gerusalemme est un territorio occupato. Tutto qui.
David Grossman
Ecco l'intervista:
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME
— «Il modo in cui il governo israeliano ha reagito al voto dell’Onu sulla Palestina come Stato osservatore è sbagliato e poco perspicace. Invece di essere il primo paese a riconoscere il nuovo Stato palestinese, Israele ha scelto di reagire in maniera prepotente, tentando di mortificare i palestinesi con un comportamento che di fatto è mortificante per Israele stesso». Dice sempre con libertà le sue scomode verità lo scrittore israeliano David Grossman, una coscienza critica nella quale si riconosce una larga parte degli israeliani: «Dopo il voto all’Onu siamo nella situazione paradossale in cui uno Stato democratico, Israele, occupa un altro Stato democratico, la Palestina. Questa situazione sarà sempre più inaccettabile al resto del mondo».
Piovono critiche, forse mai così dure, dall’Europa e dagli Stati Uniti sulle decisioni del governo Netanyahu.
«Israele ha scelto di punire i palestinesi, ma sostenere che è una reazione ad una loro azione unilaterale è ridicolo. Si è comportato secondo questo principio vergognoso: poiché è stato mortificato all’Onu, Israele ora mortifica i palestinesi. Blocca le tasse che ha riscosso per conto dell’Anp e annuncia la decisione di costruire migliaia di case in un nuovo insediamento. È un passo prepotente, arrogante, che renderà ancora più difficile la situazione per i palestinesi, interrompendo la continuità territoriale della Cisgiordania e rendendo Israele oggetto dell’ira anche di quei Paesi che capiscono la complessità del contesto e vorrebbero davvero arrivare alla pace».
Che pensa della decisione di Abu Mazen di ricorrere all’Onu?
«Sono a favore del passo intrapreso dai palestinesi, prima di tutto perché hanno diritto ad uno Stato: è giunto il momento in cui questo popolo torturato, che ha visto l’occupazione turca, egiziana, inglese, giordana ed israeliana, possa esprimere la propria sovranità e la propria specifica identità. Proclamare il proprio Stato più o meno nei
territori occupati da Israele nel 1967 significa l’accettazione della soluzione “due Stati per due popoli”. Questo mi fa tanto più piacere perché negli ultimi tempi si sono moltiplicate le voci che sostengono che questa soluzione sia sorpassata dagli avvenimenti, mentre ora Abu Mazen conferma tale principio, che dal mio punto di vista è l’unico possibile».
Perché?
«Le alternative sono solo due: la prima è uno stato bi-nazionale, a cui mi oppongo nettamente. Penso che israeliani e palestinesi abbiano diritto, almeno per un certo periodo, a vivere
in un loro focolare nazionale. Hanno bisogno di guarire da cento anni di conflitto e di violenza, di crearsi una loro propria identità, che non sia quella nata in rapporto al conflitto. L’altra soluzione, che sembra stia prospettandosi adesso ed a cui mi oppongo in eguale misura, è quella dell’occupazione militare e dell’apartheid
».
Pensa che la crisi di Gaza prima e adesso il “caso Onu” possano incidere sul risultato delle elezioni di gennaio dove il premier Netanyahu era già dato per vincitore?
«E’ diffusa la sensazione che nell’ultimo periodo il governo abbia varcato confini che non erano stati varcati prima, che abbia fatto uso di una forza sproporzionata nei confronti dei palestinesi, ma ritengo che non avrà alcuna influenza sugli elettori di destra, che in ogni modo sono convinti che tutto il mondo ce l’ha con noi e non capisce i nostri problemi e il pericolo in cui ci troviamo. Credo che gli elettori di centro-sinistra, invece, siano stati scossi da tale reazione e questo potrebbe avere un’influenza sul voto».
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