Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 26/11/2012, a pag. 1-27, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo "Perché serve un accordo con Hamas".
A. B. Yehoshua Hamas
A. B. Yehoshua sostiene che Israele dovrebbe trattare con Hamas (anche se quest'ultima desidera la sua cancellazione) perché ha fatto altrettanto con tutti i propri nemici in passato. Tutti gli accordi di pace raggiunti in passato sono stati possibili perché si trattava di Stati sovrani riconosciuti dalla comunità internazionale e con regolari eserciti.
Hamas non rappresenta nessuno Stato. E' un'entità terroristica. Senza un esercito, ma con milizie dedite al terrorismo contro Israele.
Contrariamente a quanto sostiene Yehoshua, l' etichetta non deriva da Israele, ma da Onu, Ue e Usa.
Yehoshua scrive : "È arrivato perciò il momento di smettere di considerare Hamas un’organizzazione terroristica e di definirlo piuttosto un «nemico». L’uso inflazionato del termine «terrorista», tanto caro al nostro primo ministro, pregiudica infatti la possibilità di raggiungere un qualsiasi accordo a lungo termine con questo acerrimo nemico.". La terminologia non c'entra nulla. Hamas è sia nemico, sia entità terroristica. La sostanza non cambia. Il suo obiettivo è la cancellazione di Israele, non la fondazione di uno Stato.
Yehoshua continua : "se non patteggeremo con loro una separazione ragionevole finiremo inevitabilmente per convivere in uno Stato binazionale, un’eventualità deleteria e pericolosa per entrambe le parti.". L'idea di uno Stato binazionale è deleteria solo per Israele. Hamas (ma anche l'Anp) avrebbe tutto da guadagnarci, dal momento che, in pochi giorni, gli arabi sarebbero la maggioranza e cancellerebbero Israele.
Yehoshua scrive : "Alla base del comportamento di Hamas c’è una contraddizione. Da un lato i suoi leader provano un giustificato senso di eroismo e di audacia per avere allontanato i coloni e l’esercito israeliano da Gaza, dall’altro avvertono una profonda frustrazione dovuta al duro isolamento imposto a una striscia di terra tanto stretta, distaccata non solo da Israele ma soprattutto dai palestinesi in Cisgiordania.". Alla base del comportamento di Hamas c'è l'odio per Israele. I 'leader' di Hamas non possono provare nessun 'giustificato senso di eroismo' per aver 'allontanato' i coloni e l'esercito israeliano da Gaza. Questo perché il ritiro è avvenuto per volontà dell'allora primo ministro Ariel Sharon e perché, all'epoca, non c'era Hamas al potere nella Striscia.
Yehoshua, poi, individua 4 punti che porterebbero alla pace fra Israele e Hamas.
Se il primo è accettabile (Hamas dovrebbe smantellare il suo arsenale di razzi), gli altri non lo sono : "2. L’apertura del valico di frontiera tra Gaza e l’Egitto.; 3. L’apertura del valico di frontiera tra Gaza e Israele per un transito controllato di lavoratori palestinesi.; 4. L’apertura graduale di un corridoio sicuro tra Gaza e la Cisgiordania – in base alle norme stabilite a Oslo – perché venga ripristinata l’unità palestinese in vista di un negoziato con Israele.". Con questi tre punti si darebbe il permesso legale ad Hamas di girare liberamente in Israele, compiere attentati grazie all'apertura dei valichi. Per quanto riguarda il corridoio sicuro tra Gaza e Cisgiordania, per il momento è pura fantascienza, tanto più che non interessa nemmeno alle due parti che andrebbero unite. C'è stata la riconciliazione tra Hamas e Anp, ma sul piano pratico non ha portato a nulla. Le due parti continuano a non dialogare e ad essere in disaccordo su tutto. Solo su una cosa sono d'accordo, l'odio contro Israele.
Yehoshua continua : "Il dialogo con Hamas e un graduale ripristino delle sue relazioni con la Cisgiordania sono quindi condizioni essenziali per il raggiungimento di un accordo che preveda due Stati per i due popoli ". Di quali due Stati parla? Ormai è evidente che gli Stati sono 3: Israele, Gaza e Cisgiordania. Gli ultimi due interessati più alla cancellazione di Israele che alla propria autonomia.
Ecco il pezzo di A. B. Yehoshua:
Durante la guerra di Indipendenza del 1948 la Giordania bombardò la zona ebraica di Gerusalemme per diversi mesi, pose la città sotto assedio e impedì i rifornimenti di acqua e carburante. Centinaia di civili rimasero uccisi sotto le bombe eppure Israele non definì i giordani «terroristi» e dopo il cessate il fuoco fu avviato un negoziato tra le parti al termine del quale fu firmato un armistizio.
Anche i siriani prima della guerra dei Sei Giorni bombardarono per anni la Galilea settentrionale uccidendo e ferendo molti civili. E un articolo della Costituzione del partito siriano Ba’ath prevede persino la distruzione di Israele. Eppure gli israeliani non hanno mai definito «terroristi» i siriani. Li hanno sempre chiamati «nemici» e negli anni hanno raggiunto vari accordi con loro, fra cui il disimpegno dei rispettivi eserciti dopo la guerra del Kippur.
Gli egiziani guidati da Abdul Nasser proclamarono più volte di volere distruggere Israele, ed era questa la loro intenzione alla vigilia della guerra dei Sei Giorni. Eppure il dittatore egiziano non fu visto come un terrorista ma come un nemico.
Di più. Neppure i nazisti furono definiti terroristi. Commisero indicibili atrocità indossando un’uniforme e sottostando agli ordini di un governo riconosciuto. Sono stati i nemici più brutali nella storia dell’umanità ma non erano terroristi.
È arrivato perciò il momento di smettere di considerare Hamas un’organizzazione terroristica e di definirlo piuttosto un «nemico». L’uso inflazionato del termine «terrorista», tanto caro al nostro primo ministro, pregiudica infatti la possibilità di raggiungere un qualsiasi accordo a lungo termine con questo acerrimo nemico.
Oggigiorno Hamas è in controllo di un territorio, possiede un esercito, istituzioni governative, canali radiotelevisivi ed è riconosciuto da numerosi Paesi. Un’organizzazione responsabile di uno Stato dovrebbe essere definita «nemica», non «terroristica».
Ma perché è importante la terminologia? È solo una questione di semantica? Non esattamente. Con un nemico si può infatti instaurare un dialogo e concludere accordi anche parziali mentre tentare di dialogare con «un’organizzazione terroristica» non avrebbe senso e di certo non ci sarebbe nessuna speranza di accordo. Occorre pertanto legittimare il tentativo di stipulare un qualsivoglia accordo diretto con Hamas.
Non dobbiamo infatti dimenticare che i palestinesi saranno per sempre i nostri vicini e se non patteggeremo con loro una separazione ragionevole finiremo inevitabilmente per convivere in uno Stato binazionale, un’eventualità deleteria e pericolosa per entrambe le parti. Un accordo con Hamas è quindi importante non solo per normalizzare la situazione al confine con Gaza ma anche per creare la base di un eventuale Stato palestinese a fianco di quello israeliano.
Il regime di Hamas, eletto dopo l’evacuazione israeliana della Striscia di Gaza, mostra comunque preoccupanti segni di perdita del senso della realtà, di incapacità di comprendere ciò che è possibile e ciò che non è possibile. E le dure reazioni militari di Israele non solo non lo portano a rinsavire ma rafforzano il suo vittimismo aggressivo.
A cosa è dovuta la ferocia e la violenza di Hamas? Il fanatismo religioso è un fenomeno diffuso ma neppure un regime fanatico si esporrebbe alla reazione distruttiva di un esercito come quello israeliano, uno dei più forti al mondo.
Alla base del comportamento di Hamas c’è una contraddizione. Da un lato i suoi leader provano un giustificato senso di eroismo e di audacia per avere allontanato i coloni e l’esercito israeliano da Gaza, dall’altro avvertono una profonda frustrazione dovuta al duro isolamento imposto a una striscia di terra tanto stretta, distaccata non solo da Israele ma soprattutto dai palestinesi in Cisgiordania.
I leader di Hamas, incoraggiati dal successo del ritiro israeliano, ritengono di potere quindi cacciare i «sionisti» da tutti i «territori occupati», o per lo meno di costringerli a rimuovere il blocco. Non avendo fiducia nelle intenzioni di Israele, convinti che la separazione tra Gaza e la Cisgiordania serva gli interessi di quest’ultimo e consapevoli che lo Stato ebraico non tenterà più di riconquistare e di governare la Striscia di Gaza, anziché cercare di risollevare l’economia del territorio, di fermare la violenza, di costruire una vita normale e di convincere gli israeliani a consentire alla popolazione libertà di movimento scelgono la strada che si è dimostrata efficace in passato: una costante aggressione.
Ma nonostante il recente cessate il fuoco le due parti non hanno la sensazione che la spirale di violenza si sia conclusa. Il comportamento di Hamas denota un istinto suicida che, con l’incoraggiamento scellerato dell’Iran, potrebbe portare altra distruzione e morte. Occorre perciò fare uno sforzo per instaurare un vero e proprio dialogo con i suoi leader. E come «un’organizzazione terroristica» quale l’Olp si è trasformata nell’Autorità palestinese così Hamas dovrebbe essere considerata non «un’organizzazione terroristica» ma il rappresentante di un governo con il quale, mediante negoziati diretti, si possa giungere a un accordo basato su quattro principi:
1. L’accettazione da parte di Hamas di una rigorosa supervisione internazionale sullo smantellamento dei lanciarazzi nella Striscia di Gaza.
2. L’apertura del valico di frontiera tra Gaza e l’Egitto.
3. L’apertura del valico di frontiera tra Gaza e Israele per un transito controllato di lavoratori palestinesi.
4. L’apertura graduale di un corridoio sicuro tra Gaza e la Cisgiordania – in base alle norme stabilite a Oslo – perché venga ripristinata l’unità palestinese in vista di un negoziato con Israele.
L’Autorità palestinese non potrebbe infatti completare o concludere un accordo di pace con Israele senza la partecipazione attiva o passiva di Hamas. Una decisione su questioni nazionali di primaria importanza richiede un ampio consenso nazionale, come avviene in molti Paesi, tra i quali Israele.
Il dialogo con Hamas e un graduale ripristino delle sue relazioni con la Cisgiordania sono quindi condizioni essenziali per il raggiungimento di un accordo che preveda due Stati per i due popoli e che porti all’arresto di un’avanzata lenta ma costante verso uno Stato binazionale. È questo ciò che spera la maggioranza della popolazione israeliana.
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A proposito di rapporti Israele e Hamas, riportiamo da Yedioth Aharonot la seguente analisi:
"Hamas non dispone di un proprio sistema bancario. L'organizzazione raccoglie fondi negli stati arabi in dollari, ma la moneta a Gaza è lo Shekel. Così, ogni mese Israele trasferisce milioni di shekel a Gaza per essere scambiati con i dollari.".
Il commentatore israeliano Guy Bechor del Centro Interdisciplinare di Herzliya ha commentato:
"Noi rappresentiamo la prima evidenza nella storia di un paese che ad un tempo alimenti e finanzi il suo nemico, anche durante un periodo di guerra tra i due".
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