Il commento di David Meghnagi
David Meghnagi, Le sfide di Israele (ed. Marsilio)
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Proviamo a immaginare a quale trasformazione devastante andrebbe incontro la qualità della vita nelle principali capitali europee, se da un giorno all’altro diventassero insicure al punto da non poter salire tranquillamente su un autobus o prendere la metropolitana per paura di un attentatore suicida. Immaginiamo a quale deriva andrebbe incontro, se i confini della città eterna passassero per Trastevere e dal rione di Monti fossero lanciati dei missili contro il Pantheon e la Basilica di San Pietro. Proviamo a immaginare che cosa diventerebbe la vita a Londra e a Parigi, se una delle rive del Tamigi e della Senna rappresentasse un confine ostile da cui quotidianamente può arrivare un attentatore terroristico e ogni volta che un autobus salta per aria la popolazione avversa festeggia per strada, ripresa dalla televisione. Proviamo a immaginare che avendo il governo intrapreso un’azione legittima in difesa della propria popolazione, le principali città dei paesi amici si riempiano di manifestanti che chiedono la sua messa al bando, considerandolo ontologicamente colpevole; che la televisione e la stampa facciano a gara nel fornire un’informazione alterata e manipolata della realtà appiattendone la complessità, trasformando in colpevole chi si difende per proteggere la sua popolazione facendo il possibile per non colpire la popolazione civile utilizzata come scudo, e in vittima disperata, che non ha più altri mezzi per farsi ascoltare, chi al contrario lancia razzi forniti da alleati padroni potenti e ben armati (l’Iran) con l’obiettivo di provocare un collasso sistemico della regione intera e portare avanti indisturbato il suo progetto atomico. Proviamo a immaginare questo e altro, forse riusciremmo a capire un po’ di più i sentimenti di amarezza che i cittadini di uno stato amico provano di fronte alle ambiguità e alle falsificazioni con cui è rappresentata in Europa la realtà della situazione in cui essi vivono quotidianamente. Sarebbe sufficiente una breve disamina delle vignette apparse negli anni sui principali quotidiani europei, per comprendere che non siamo di fronte a degli “errori” che si possono facilmente correggere con altre informazioni, ma a una deformazione mentale che offende l’intelligenza, dove le immagini negative che un tempo erano rivolte contro gli ebrei si sono violentemente rovesciate contro lo “Stato degli ebrei”. Nel nuovo antisemitismo lo Stato degli ebrei è diventato “l’ebreo degli stati” contro il quale si può dire tutto in uno stato di “innocenza”, percependosi come “buoni” e “antirazzisti”. È una deriva che ha una lunga storia di sedimentazioni, fatta di alleanze perverse fra ex stati coloniali bisognosi di riscattarsi senza doverne pagare interamente i costi e regimi oppressivi e sanguinari che si sono appropriati della memoria della lotta di liberazione dei loro popoli. In questo perverso gioco di rispecchiamenti, Israele è lo stato ideale contro il quale dirigere i problemi irrisolti nel rapporto fra le ex metropoli coloniali europee -alle prese con un grave declino economico e una crisi identitaria e valoriale per i profondi cambiamenti culturali indotti dai processi migratori degli ultimi decenni-, e una psicosi antisemita che dilaga oggi nel mondo arabo e islamico. È una realtà nuova che richiede strumenti culturali più adeguati per essere affrontata. Se non fosse per la realtà tragica del Vicino Oriente, verrebbe da ridere amaramente di fronte alle innumerevoli varianti di un tema che sulla falsariga dell’insegnamento preconciliare del disprezzo contro gli ebrei, ha assunto il carattere di una dottrina della colpa “deicida” e della conseguente colpa ontologica. Come nell’insegnamento preconciliare dell’odio contro gli ebrei, Israele è colpevole ontologicamente. Se risponde agli attacchi, è colpevole perché fa un uso sproporzionato della sua forza. Se protegge i suoi civili con i droni, non merita simpatia perché il numero dei suoi morti è “basso”, se paragonato ai palestinesi. L’antisemitismo arabo e islamico non può essere nominato come tale. È solo un “riflesso” del conflitto, peggio una conseguenza del comportamento israeliano. Eppure i legami profondi che il moderno antisemitismo arabo e di matrice islamica ha intrattenuto con il regime nazista sono un dato storico documentato (il Baath aveva un programma politico d’ispirazione fascista; il Muftì di Gerusalemme fu ospite di Hitler e collaborò al piano di sterminio degli ebrei). Poco importa che gli attacchi israeliani siano mirati principalmente a distruggere le rampe da cui partono i missili. Poco importa se i civili palestinesi, volenti o nolenti, sono utilizzati da Hamas come scudo umano per impedire la distruzione delle rampe missilistiche. A nessuno viene in mente di denunciare pubblicamente all’Aja vittime dell’azione politica di Hamas. Non importa se per demonizzare Israele s’inventano dei fatti inesistenti. È sufficiente che siano corrispondenti allo stereotipo, che siano “verosimili” e corrispondano all’icona. La fotografia e le riprese che dovrebbero documentare la realtà, diventato un suo sostituto. In questo clima perverso, a nessuno viene in mente che i dirigenti di Hamas e di Hezbollah andrebbero denunciati alla Corte dell’Aja per crimini contro l’umanità. Come accadeva con Gheddafi prima che cadesse in disgrazia, per la vasta zona grigia della vigliaccheria e della collusione con il potere, il ricorso alla Corte internazionale può “attendere”. A nessuno viene in mente di bloccare i fondi alla televisione di Gaza per l’incitamento al martirio nei programmi per i bambini, dove le madri esprimono gioia se il figlio si fa saltare in aria uccidendo un grande numero di ebrei e i bambini sono psicologicamente irretiti e manipolati. Nessuno chiede perché l’Europa continui a finanziare attività che dovrebbero servire alla costruzione di un clima di collaborazione e di pace e invece sono spesi per attività che stravolgono ogni idea di pace e minano la sicurezza di un paese amico e affine sul piano culturale e del sistema politico. Non è qui in gioco il diritto a discutere le scelte israeliane. La critica è il sale della democrazia. È un diritto dovere per ogni democrazia che funzioni realmente di cui i media israeliani fanno ampiamente uso. È qui in discussione la forma che assume la critica, i pregiudizi di cui si alimenta, i doppi standard che si utilizzano per giudicare le scelte e i comportamenti, la delegittimazione che fa da sfondo. Per non parlare della demonizzazione e della falsificazione aperta dei fatti. La popolazione israeliana ha come sua grande forza un grande senso dell’appartenenza e di fiducia nelle istituzioni. Per questo può conservare il suo sangue freddo. La sua classe politica ha evitato pericolose avventure militari che peggiorassero il già difficile rapporto con il mondo arabo Ha indicato alla popolazione di Gaza dove spostarsi per evitare di essere colpita, dicendo a chiare lettere che la guerra non era contro di essa. A conferma di tutto ciò gli ospedali israeliani hanno curato i malati e i feriti di Gaza, come hanno sempre fatto. È un atto di civiltà che dovrebbe far riflettere. Un elemento del rapporto con i palestinesi che dovrebbe essere amplificato e soprattutto comunicato. Un futuro possibile comincia da queste azioni intenzionali, che devono essere reciprocamente condivise per dare un senso nuovo al rapporto e che devono riconosciute come tali da entrambi le parti. Israele ha chiesto e ottenuto che gli americani si facessero garanti di una situazione difficile e insidiosa, sperando che la paura “sunnita” di fronte alla minaccia “sciita” potesse controbilanciare l’odio paranoide che il mondo arabo nutre contro Israele. Il riarmo nucleare iraniano è una fonte di paura non solo per Israele. È anche la strada dell’Iran verso la Mecca. In questa logica Gerusalemme è solo una tappa intermedia da brandire ideologicamente per indebolire il fronte sunnita e presentarne i dirigenti come traditori della causa islamica. Una guerra totale di Israele contro Hamas avrebbe rischiato di fare il gioco dell’Iran. Precipitare la situazione nei rapporti arabi israeliani, è per l’Iran il modo migliore per condurre indisturbati i propri piani. Mentre il mondo condannerebbe Israele, nessuno più si occuperebbe del pericolo nucleare. La tregua fragile raggiunta, col Cairo nel ruolo d’intermediario e gli americani di garanti futuri, trova qui una sua ragione d’essere. La preoccupazione non è solo ed esclusivamente di Israele, che rischia in primis. La paura lambisce la parte più consapevole del mondo arabo e le diplomazie dei principali stati europei, che non possono più fingere che il tempo lavori per loro.