Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 23/11/2012, a pag. 19, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Gaza, la tregua tiene (per ora) ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " E’ questo l’Egitto garante di pace? ". Dal GIORNALE, a pag. 14, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Se a Gaza gioia e morte sono solo propaganda ".
Pubblichiamo il commento di Piera Prister dal titolo " Dagli USA quattro miliardi e ottocento milioni di dollari a Morsi per il cessate il fuoco tra Hamas e Israele".
a destra, la vignetta di Alessandro Barchiesi
Ecco i pezzi:
INFORMAZIONE CORRETTA - Piera Prister : "Dagli USA quattro miliardi e ottocento milioni di dollari a Morsi per il cessate il fuoco tra Hamas e Israele"
Piera Prister Barack Obama
Quattro miliardi e otto milioni di dollari attraverso IMF -International Monetary Fund- e’ quanto l’amministrazione Obama ha devoluto all’Egitto di Mohammed Morsi, il 20 novembre 2012, anche come gratifica per essere stato l’intermediario del cessate il fuoco fra Hamas e Israele, una tregua purtroppo fragile quando si ha a che fare con dei terroristi: MA FIANCHEGGIARE I TERRORISTI PAGA eccome!
De facto il rieletto presidente Barack Obama ha legittimato Mohamed Morsi, e ha legittimato anche Hamas come interlocutore, stravolgendo 30 anni di politica estera americana che considerava Hamas e i Fratelli Musulmani organizzazioni terroristiche. Hamas che e’ il lungo braccio armato dell’Iran, ha sparato razzi mortiferi contro Israele fino all’ultimo giorno, non da postazioni militari, ma dalle case, dalle scuole e dalle moschee nonche’ dagli ospedali. Hamas mira a cancellare Israele dalla carta geografica obiettivo che non e’ un mistero, e’ scritto nella sua carta costituzionale: Hamas is commited to destroy Israel. Poi non e’ un mistero –poiche’ e’ ampiamente documentato dai lanci di notizie pervenutici quotidianamente da Israele che ci informavano cosa stesse accadendo- che MORSI HA SOSTENUTO INEQUIVOCABILMENTE HAMAS E HA INCORAGGIATO I SUOI ATTACCHI SU ISRAELE dal Sinai precisamente su Eshkol, turning a blind eye, facendo finta di niente , una notizia per lo piu’ snobbata dai media. Ergo Morsi non e’ credibile, non si illudano gli americani! Non sono bastati loro gli attacchi alle missioni americane a Bengasi e al Cairo con quattro americani assassinati, per prendere atto che il terrorismo non e’ finito.
Ma qui in America sono tutti contenti perche’ grazie al rieletto presidente Barack Obama e a Hillary Clinton, ieri 22 nov. -come magra consolazione perche’ non sappiamo cosa ci risevera’ il futuro- si puo’ tirare un sospiro di sollievo e si puo’ festeggiare in pace Thanksgiving ossia la giornata del Ringraziamento, dopo che i missili hanno bombardato senza tregua Israele per una settimana, raggiungendo, nella paura di una nuova Intifada, Tel Aviv e Gerusalemme, hanno ucciso sei innocenti israeliani, e ferito venti israeliani per una bomba in un autobus a Tel Aviv ; si puo’ solo per oggi non pensare agli orrori di Bengasi, al generale Petraeus e alle accuse del senatore John McCain all’ambasciatrice americana all’Onu, Susan Rice per aver mentito sul caso di Bengasi. La donna fino all’ultimo ha ripetuto quella bugia infondata secondo cui gli attacchi alle missioni diplomatiche fossero stati spontanei e scatenati dal video anti-Maometto su YouTube.
Sempre dal lancio di notizie da Israele apprendiamo che Abu Mazen presidente di PLO , il negazionista della Shoah, da Ramallah si e’ congratulato con Ismail Haniyeh, primo ministro di Hamas dopo le elezioni del 2006, per la vittoria raggiunta. Mentre, non ci puo’ essere vittoria per i signori della jihah che vigliacchi, si fanno scudo della propria gente dietro cui nascondersi. Piuttosto be prepared to lose si preparino a perdere piuttosto, Israele vincera’ perche’ la ragione, il diritto e la giustizia sono dalla sua parte.
Sembra che i tre regimi arabi in questione, Hamas, Al Fatah ed Egitto, considerati piu’ o meno moderati costituiscano invece un’associazione a delinquere con finalita’ terroristiche ai danni di Israele e delle democrazie occidentali. Mohammed Morsi poi, che Obama e’ convinto che avviera’ un processo democratico, detiene in Egitto ancora i poteri assoluti, governa senza parlamento e senza costituzione (ma ha ordinato ad alcuni esperti fidati di prepararla) e ama la Shariah Law, infatti ha appena dichiarato che le presentatrici televisive in Egitto possono indossare il hijab.
Ci domandiamo poi come abbia fatto Morsi all’improvviso dopo giorni di offensiva di Hamas e di contro-offensiva israeliana, all of sudden, ad avere un canale preferenziale di comunicazione con i terroristi e a diventare garante delle cessate ostilita’ tra Hamas ed Israele, ruolo a cui anche il Qatar aspirava. L’uomo in verita’ non era nemmeno riuscito a rendere sicuro quel fronte nevralgico egiziano del Sinai -dove sono stanziati gli osservatori dell’ONU come garanti degli accordi di Camp David- da cui sono stati sparati missili a ripetizione per una settimana su Eshkol dove un riservista israeliano di 27 anni, investito da un missile e’ morto proprio nella giornata del cessate il fuoco del 21 c.m.
Inoltre sappiamo adesso, alle ore 23 di Dallas di giovedi’ 22 novembre che Mohamed Morsi, l’uomo che e’ stato fatto oggetto di elogi sperticati da parte del presidente Obama e dal segretario di stato Hillary Clinton, ha assunto in Egitto poteri dittatoriali assommando nella sua persona il potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Ha decretato l’immunita’ dei membri della commissione che sta preparando la nuova costituzione, dopo che alcuni giudici avevano cercato di contrastarla perche’ gravemente limitativa delle liberta’ individuali e perche’ marginalizza le donne, i cristiani e le minoranze. Inoltre ha ordinato la riapertura del processo contro Mubarak.
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Gaza, la tregua tiene (per ora)"
Francesco Battistini, Bibi Netanyahu
GERUSALEMME — Super Morsi. Tutto in pochi giorni: ferma il massacro dei bambini di Gaza e i razzi su Israele, strappando una tregua impensabile (e già che c'è, trova il tempo di cacciare un suo ministro per la strage dei bimbi egiziani travolti dal treno); incassa la stima di Obama e della Clinton (e già che c'è, i miliardi del Fondo monetario); nomina un nuovo procuratore generale al Cairo, facendo fuori quello dei tempi di Mubarak (e già che c'è, rende inappellabili tutte le decisioni prese finora). Che settimana, Fratelli. Un nuovo leader s'aggira per il Medio Oriente. Esaltando la diplomazia obamiana e impensierendo gl'israeliani, preoccupando i satrapi arabi e dispiacendo a molti della sua Fratellanza musulmana che gli chiedono di continuare il «jihad contro il sionismo», Super Morsi si gode l'ingresso nel club della politica che conta e nel nuovo palazzo del potere che si sta costruendo: il regno d'un «nuovo faraone», non esita a definirlo Mohamed El Baradei, suo avversario politico.
La tregua tiene, e questo è il successo di Morsi che più interessa al mondo. Ieri, a Gaza è stato un giorno di festa nazionale, bandiere verdi (Hamas) e gialle (Fatah) insieme, i jihadisti filoiraniani a rosicare e il leader della Striscia, Ismail Haniyeh, a capitalizzare il nuovo ruolo d'interlocutore filosunnita, «gli americani hanno cambiato linguaggio», garantendo che «non saremo mai più invasi». L'accordo è solo un mezzo foglio stampato, appeso a contenuti ancora tutti da definire: aprire o no i valichi? E quali? E quanto? E prima o dopo le elezioni israeliane di gennaio? E che fare del blocco navale? Bibi Netanyahu cerca di far digerire alla destra l'intesa con Hamas, i terroristi coi quali «non si può trattare»: arresta l'autore della bomba all'autobus di Tel Aviv, un arabo israeliano legato a Hamas, riapre le scuole scampate ai razzi, dà l'ok alle primarie dei partiti. Ma ciò non basta a quei riservisti richiamati alle armi che ora su Facebook definiscono il premier «perdente», né all'alleato Avigdor Lieberman che dietro le quinte l'accusa di non aver inferto il ko decisivo. Le truppe piano piano si ritirano, anche se il ministro Ehud Barak avverte che alla minima violazione della tregua «sapremo cosa fare» e cerca di spiegare il perché del dietrofront: «Se fossimo entrati a Gaza, avremmo dovuto rovesciare Hamas e occuparla per anni».
Bibi pareggia, scrive la stampa israeliana che lo detesta: chiude rapido la sua prima guerra, riapre un insperato canale con la Casa Bianca, si gioca la rielezione in vista dello scontro (vero) con l'Iran, spera che Morsi rimandi veloce a Tel Aviv l'ambasciatore egiziano, richiamato dopo l'attacco su Gaza. Non è detto che il «nuovo faraone» lo faccia subito, perché ora ha da fronteggiare problemi interni non facili: piazza Tahrir torna a rumoreggiare, dopo il «colpo di Stato» (parole dell'opposizione) che ieri gli ha attribuito poteri straordinari, come l'inappellabilità davanti ai giudici d'ogni decreto presidenziale e di qualunque dichiarazione costituzionale. Con la calda retorica della sua fede e il freddo pragmatismo della sua formazione californiana, Morsi blinda l'assemblea costituente che sta ridisegnando l'Egitto e, insieme, la Camera alta. A ottobre non era riuscito a silurare Abdel Mahmoud, il procuratore del Cairo, cavalcando la protesta popolare per le assoluzioni degli sgherri di Mubarak nel processo alla «battaglia dei cammelli», una delle repressioni più dure della rivoluzione egiziana. Stavolta, il colpo gli è riuscito. Promette che «la vera vendetta del sangue dei martiri» comincia ora: e il Cairo non è Gaza.
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " E’ questo l’Egitto garante di pace? "
Daniele Raineri
Roma. Ieri era il giorno dell’Egitto, al centro del successo dei negoziati indiretti tra Israele e Hamas. Ora il governo dei Fratelli musulmani brilla sotto la luce della nuova credibilità internazionale ottenuta grazie al cessate il fuoco che regge nella Striscia di Gaza. In questa storia, però, più che il guardiano della pace il Cairo dovrebbe essere un sorvegliato speciale. Ieri sera il presidente eletto dalle file dei Fratelli musulmani, Mohammed Morsi, si è autoconferito poteri temporanei da dittatore con una dichiarazione costituzionale a sorpresa, che all’articolo 6 dice: “Il presidente è autorizzato a prendere qualsiasi misura reputi idonea a preservare e difendere la rivoluzione, l’unità nazionale o la sicurezza nazionale”. La manovra ha come obiettivo salvare la stesura della nuova Costituzione, allungando di due mesi il termine che stava per scadere e mettendo l’Assemblea costituente al riparo da qualsiasi sentenza giuridica – non potrà più essere sciolta per una sentenza dei giudici. E nemmeno le decisioni di Morsi potranno essere in alcun modo – articolo 2 – giudicate o cancellate, almeno fino a quando non ci sarà una nuova Costituzione e non sarà eletto un nuovo Parlamento. La parola di Morsi è ora ufficialmente legge, senza più bisogno che ci sia il consenso del Parlamento. E’ una concentrazione di poteri senza precedenti, accompagnata da un livello di protezione insormontabile dagli altri poteri dello stato. Lo hanno notato subito anche le centinaia di persone che già da quattro giorni protestano in strada contro lo strapotere dei Fratelli musulmani e si scontrano con le forze di sicurezza vicino a piazza Tahrir (ma questa volta le moschee non aprono le porte ai feriti, come accadeva durante la rivoluzione). “Morsi è come Mubarak”, c’è scritto sui loro cartelli alzati. I commenti al Cairo sono più o meno dello stesso tenore: “Il presidente passa subito all’incasso sul fronte interno, dopo avere dimostrato di essere indispensabile come mediatore tra israeliani e palestinesi. Stati Uniti e comunità internazionale staranno zitti e non protesteranno”. Questo ruolo da broker della pace non è così trasparente e il Cairo è anzi parte del problema, perché dall’Egitto passano i missili a lunga gittata iraniani che hanno reso realtà l’antico sogno dei gruppi palestinesi – l’attacco diretto contro Tel Aviv e Gerusalemme. Teheran nega di avere fatto viaggiare missili lungo la rotta Iran-Sudan- Egitto-tunnel-Striscia di Gaza. Due giorni fa il capo delle Guardie della rivoluzione iraniane, il generale Mohamed Ali Jafari, ha detto all’agenzia Isna che Teheran non ha fisicamente trasferito razzi a lunga gittata Fajr-5 a Hamas, ma soltanto la tecnologia necessaria a produrre i missili in loco e velocemente, e suona come una spiegazione pietosa per evitare ritorsioni. Non soltanto perché quel livello di tecnologia bellica a Gaza non c’è. Ieri il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha ringraziato in conferenza stampa il governo iraniano per avere contribuito a “fare urlare Israele di dolore”. L’altro leader di Hamas, Khaled Meshaal, ha ringraziato Teheran specificamente per avere fornito i Fajr-5. Lo stesso ha fatto il secondo gruppo di Gaza, il Jihad islamico. Le brigate al Qassam su Twitter hanno annunciato con orgoglio il lancio dei Fajr-5 – e pezzi di Fajr-5 sono stati recuperati e fotografati a Rison LeZion, vicino a Tel Aviv. Nel novembre 2009 un dispaccio finito su Wikileaks del vice dello stato maggiore israeliano, Dan Harel, sosteneva che l’Iran stava costruendo, a partire dal Fajr-3, un modello di missile pensato per Hamas, con una gittata maggiore per raggiungere Tel Aviv. Nello stesso dispaccio, Harel lamentava come il generale Mohamed Tantawi – salito al potere al posto di Hosni Mubarak – fosse “meno che cooperativo” nell’intercettare il traffico di armi di Hamas attraverso il confine con il Sudan. Secondo Michael Ross, che è lo pseudonimo di un agente del Mossad che ha scritto un libro appena pubblicato su questo tema, i missili arrivano in Sudan in componenti separati, sono assemblati e spediti verso il Sinai, dove sono di nuovo disassemblati per passare attraverso i tunnel. Il loro passaggio attraverso l’Egitto “non è un fallimento di intelligence, è un fallimento nella volontà d’intercettarli”, dice Ross. Armin Rosen, sul sito del mensile americano Atlantic Monthly, ricorda lo strike “possibile, non confermato” contro un complesso militare in Sudan, a ottobre. Le bombe presero di mira specificamente quaranta container all’aperto dove si sospetta fosse un carico di missili in attesa di ripartire per la Striscia.
Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Se a Gaza gioia e morte sono solo propaganda"
Gian Micalessin
La terra delle tombe è ancora fresca. Negli ospedali le ferite non hanno smesso di sanguinare. E in 160 case il lutto è appena iniziato. Eppure il dolore, quello da raccontare ai giornalisti, esibire davanti alle telecamere, sintetizzare in un cinguettio di twitter è già svanito. Al suo posto sono arrivati lo strombazzare dei clacson, il riecheggiare dei kalashnikov scaricati in aria, le urla e gli slogan gettati al vento dai cortei di auto e pedoni incolonnati tra l’asfalto e il cemento dell’Omar Mukhtar, arteria e cuore pulsante di Gaza. C’è poco da sorprendersi. Dietro un tale repentino sconvolgimento umorale c’è poco di umano.A Gaza icuori hanno smesso di battere da tempo. E chi si permette il lusso di far funzionare la mente lo fa solo nel silenzio della propria casa. Tutto il resto è teatro, rappresentazione, apparenza. Un teatro mosso ad arte dalla macchina della propaganda di Hamas. In questo meccanismo i 160 morti, il carico di feriti e mutilati, il dolore dei sopravvissuti non hanno più valore reale. Sono semplicemente il combustibile da usare per alimentare la rappresentazione ed adattarla alle esigenze.
Fino ad un attimo prima della tregua servivano corpi straziati, feriti insanguinati e fiumi di lacrime. Quella tragedia era una rappresentazione univoca e uniforme. Nella sua sceneggiatura non c’era spazio per nessuno capace di alzare la mano e ipotizzare che forse anche i missili lanciati su Israele avevano contribuito ad innescare quei fiumi di sofferenza.
Dal minuto successivo alla firma della tregua la macchina della propaganda continua a funzionare al massimo regime, ma in senso inverso. Stop alle lacrime e alla disperazione. Al loro posto felicità da stadio, entusiasmo e tifo degni di una vittoria in finale di Coppa del mondo. Certo la mano allungata ai capi di Hamas dal presidente egiziano Morsi - «fratello musulmano» come loro - ha sicuramente regalato al movimento fondamentalista un riconoscimento politico internazionale senza precedenti. Ma in una società libera una semi-vittoria politica non basta a rassettare le pieghe del lutto. Tanto meno a cancellarle in 24 ore. Tre anni fa non era così neppure a Gaza. Nel 2009 dopo l’operazione israeliana «Piombo fuso» Hamas non riuscì a mantenere il consenso, non riuscì a vendere ai propri sudditi l’ebbrezza della vittoria. Oggi invece la macchina della propaganda appare perfettamente rodata, capace di funzionare a pieno regime. E non è solo questione di numeri. I «solo» 160 morti contro gli oltre mille del 2009 non spiegano da soli la capacità di smuovere gli umori e i sentimenti di una popolazione. Dietro c’è piuttosto la spregiudicatezza di un movimento capace di combattere usando i missili forniti da Teheran e di trattare usando la diplomazia egiziana. La freddezza di gruppo capace di sfruttare al meglio l’aiuto di una nazione sciita e di una sunnita pronte in altri casi, come la Siria insegna, a farsi la guerra.
Dietro le lacrime e le gioie di Gaza pulsa insomma il rodato cinismo di una dirigenza che ha trasformato i propri territori in un teatro a cielo aperto. Sul suo palcoscenico guerra e pace, vita e morte non hanno più alcun significato. In quella tragica arena i palestinesi di Gaza sono solo comparse da muovere ed esibire secondo le esigenze e gli obbiettivi del momento.
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