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La Stampa Rassegna Stampa
22.11.2012 I pensieri di un grande scrittore di fronte alla guerra
L'anticipazione del libro '1948', di Yoram Kaniuk

Testata: La Stampa
Data: 22 novembre 2012
Pagina: 36
Autore: Yoram Kaniuk
Titolo: «Sono in guerra dall’età di sei anni»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 22/11/2012, a pag. 36, l'articolo di Yoram Kaniuk dal titolo "Sono in guerra dall’età di sei anni".


Yoram Kaniuk, 1948 (ed. Giuntina)

Yoram Kaniuk è uno scrittore israeliano nato a Tel Aviv nel 1930. Ha combattuto a soli 17 anni la guerra d’Indipendenza del 1948, esperienza che ha segnato profondamente la sua produzione letteraria. Il suo ultimo libro (pubblicato in Italia dalla Giuntina) si intitola appunto 1948 . Il suo testo più famoso è Un arabo buono . Nel maggio 2011, ha ottenuto dal tribunale di Tel Aviv, unico caso in Israele, di avere cancellata dalla sua cartà d’identità l’appartenenza religiosa, non perché non si senta ebreo, ma perché Stato e religione devono rimanere separati. I suoi 32 libri sono stati tradotti in tutto il mondo.

Sono in guerra dall’età di sei anni. Se si tolgono gli anni trascorsi in America da sempre sono in guerra. Nel 1936 andavamo a Gedera e ci hanno sparato all’altezza di Nes Ziona, un uomo sull’autobus è rimasto ferito. Ho visto il suo sangue. Il sangue era triste. Da allora sono in questa lunga guerra che già era iniziata nel 1929 un anno prima che io nascessi. Da allora si spara e ci si fa sparare, si uccide e si muore e sempre giustamente e ingiustamente, e sempre su una striscia di terra il cui nome sulle mappe lo devono scrivere sul mare.

Una guerra come nel Medioevo, un po’ ci si riposa e poi si torna a sparare. Mia madre si ricordava persino del 1921 quando aveva steso i lenzuoli sugli assassinati di Jaffa, su Brenner e tutti gli altri. Era stato un macello, non si poteva distinguere tra uno e l’altro, li hanno sepolti tutti in una fossa comune.

Questa è una guerra senza via di fuga, senza una vera tregua, una guerra chiamata sangue, per tutti i giorni della nostra vita. Sulle nostre spade, sui nostri aerei, sui nostri carroarmati, sangue, e poi sangue sopra al sangue. Molti anni prima Ezechiele ha detto: «Passai vicino a te, ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi nel tuo sangue» (Ez. 16, 6)

Adesso ancora guerra. La stessa, nella sua battaglia numero dieci? O cento? Ce ne sono state anche tante piccole. E altre grandi. Sono morti a migliaia da entrambe le parti e ancora questa terra non è una casa sicura per nessuno. Non è altro che una patria virtuale per due popoli che non sono stati qui per centinaia di anni. Uno se la ricorda da duemila anni fa e come in un verso dei Salmi ha giurato «Non te la dimenticherai», ma poi se l’è dimenticata. Sono venuti dei giganti come Rabbi Nachman e Maimonide, ma poi se ne sono andati. E l’altro, il nemico del nemico, che saremmo noi, è venuto circa mille anni fa, forse di più, forse meno; o forse non siamo altro che un popolo che si è frantumato in due, o forse tre, come le religioni che hanno inventato perché con loro non c’era Dio che è morte ma anche vita, pietà e compassione e memoria profonda, e ora questa terra non è di nessuno dei due, è di Dio, o meglio del Dio che non esiste. Si spara e ci si fa sparare.

Sono seduto nella terrazza di un piccolo bar di Via Bilu. Si leggono i giornali. Due che c’erano ieri sono stati chiamati come riservisti e oggi non ci sono più a bere questo piacevole caffè. Io sono vecchio. Non posso più combattere. Ma nella mia testa combatto. C’è in me quella rabbia battente di un uomo di guerra che la odia ma che si eccita in lei, che viene sognato in lei, la combatte in sogno. La sognavo mentre combattevo. Amo quel furore santo, povero e miserevole, elevato e triste. Piango i morti, ma amo quella sensazione repellente che la guerra risveglia in me.

Nel 1941 Rommel risaliva da sud. In una grotta sul mare nascondemmo pietre e bastoni. Avevamo undici anni. Un anno prima il pericolo veniva dalla Siria, i soldati di Vichy. Poi i bombardamenti su Tel Aviv e Haifa. Alla stazione centrale di Tel Aviv sono morte più di duecento persone, giravamo con le maschere a gas come sessanta anni dopo, o cinquanta durante la Guerra del Golfo quando per la prima volta ho avuto paura perché all’improvviso le parole «gas tedesco» hanno iniziato a pulsare dentro di me.

Dopo la Guerra è venuto il dolore per i sopravvissuti per i quali non un solo paese al mondo era pronto ad aver pietà dopo quello che avevano passato ad Auschwitz e in silenzio arrivavano in massa. L’America ha chiuso le sue porte, non ha avuto compassione. Nessun paese ha voluto aiutare. Gli americani, con le parole di chi era allora vice ministro del tesoro, «hanno fatto tutto quello che potevano per non salvare gli ebrei», e lui non era ebreo come quello che stava sopra di lui. Ma sulla nave Pan York che portava i sopravvissuti in Israele sulla quale ho lavorato per nove mesi, ho conosciuto chi si era salvato, e dentro di me si è intessuto un odio misto a indifferenza. E da allora, quando in televisione vedo una guerra mi arrabbio contro il «gas tedesco», oppure contro il Mufti di Gerusalemme che ha dichiarato di volerci sterminare quando avevo sei anni.

In un altro luogo in me c’è una rabbia non piccola. La rabbia tocca sempre un’altra rabbia nuova. Non c’è molto da fare con le nostre ingiustizie davanti alle loro ingiustizie. Questo mi fa rabbia. Nella Gerusalemme assediata dove ho combattuto, i giordani sparavano centinaia di colpi di mortaio. La gente moriva in fila per un po’ d’acqua mentre noi camminavamo per le strade imbracciando i fucili e cantando «quanto è bello morire sulla strada per Bab el wad», e non intendevamo nella canzone.

Non c’è molto da fare e rimango seduto nella terrazza. Suona la sirena, la gente corre a ripararsi e io mi sento sessant’anni più giovane ed è tremendo emozionarsi durante una guerra quando la gente cade morta e il sangue si fa più rosso, e nasce in me una voglia maledetta e orribile di essere là, dentro al pericolo, perché il pericolo è un filo rosso che lega tutta la mia vita.

Di sicuro si troverà una soluzione alla battaglia di oggi. Cara minacciosa battaglia. I giovani vanno a combattere come ho fatto io perché non credono che gli possa succedere qualcosa, perché solo i giovani possono combattere. E c’è sempre una Nagba per qualcun’altro o un Deir Yassin e a Gaza sei il cattivo, il criminale di guerra. Il pilota ha sbagliato, il soldato ha sparato. I bambini sono morti. Noi abbiamo fin’ora un bambino morto. Sempre in televisione cinque bambini morti avranno più ragione di un bambino morto.

Qui si combatte il passato contro il passato perché nessuna parte ha un futuro, al massimo un presente eterno pieno di scricchiolii e dolore e orgoglio e applausi perché qualcuno dall’altra parte è stato colpito. E da cento anni questa misera umanità ci accompagna, e intanto ci accompagnano gli sguardi di un’altra umanità brutta e vecchia che ci guarda e ci giudica, ma non è capace di giudicare altro, la Siria per esempio che nessuno al mondo è capace di guardare da vicino.

L’uomo vive da uomo da appena qualche decina di migliaia di anni. Per milioni di anni siamo stati cacciatori.È rimasto nel sangue. È rimasto nella mente. Una parte combatte l’altra e c’è chi vuole aver ragione e ci accusa di genocidio per un bambino o due.

L’eternità è la guerra. Si fa l’amore con la guerra perché non c’è cosa più splendida, terribile, enorme, bella e brutta di una guerra che si pensa giusta. E chiamarla «assassinio» è la solita storia per fare in modo che i buoni abbiano profanato la moralità.

Ognuno grida per i propri morti. Non è facile stare nei rifugi giorno dopo giorno. Ma è una cosa umana, come quello stesso uomo malato di sangue, di assenza di sentimento, di desiderio di assassinio, malattia dell’anima che nasce con la nascita dell’umanità. Siamo Bnei dam, figli del sangue (In ebraico esseri umani si dice Bnei Adam - lett. figli di adamo - e sangue dam).

Vada a farsi fottere, questa sensazione che ho io e i miei amici che hanno sempre combattuto e ora guardiamo la televisione e vogliamo partecipare di questa morte perché è questo che conosciamo dalla nascita. La morte è la cosa più sicura che c’è.

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