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Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
21.11.2012 Legittima difesa: i commenti
di Daniele Raineri, Carlo Panella, Maurizio Molinari, Carlo Pelanda, Redazione del Foglio

Testata:Il Foglio - La Stampa
Autore: Daniele Raineri - Redazione del Foglio - Carlo Panella - Maurizio Molinari - Carlo Pelanda
Titolo: «La logica di Beslan a Gaza - Il domino del Qatar - E se Hamas stesse solo provando la resistenza di Israele?»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 21/11/2012, a pag. 1-4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Perché Hamas sostiene di essere uscito vincitore dai negoziati del Cairo" , l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Il domino del Qatar ", a pag. 3, l'editoriale dal titolo "  La logica di Beslan a Gaza", l'articolo di Carlo Pelanda dal titolo " E se Hamas stesse solo provando la resistenza di Israele? ". Dalla STAMPA, a pag. 29, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " A Gaza Hillary prova a fare la differenza ".
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Perché Hamas sostiene di essere uscito vincitore dai negoziati del Cairo "


Daniele Raineri            Hamas

Roma. Ieri sera tutti gli elementi per il cessate il fuoco tra Israele e i gruppi di Gaza erano ormai al loro posto, ma il cessate il fuoco non era arrivato: annunciato prima per le nove di sera, poi per mezzanotte, poi forse spostato alle prime ore del mattino di oggi. I notiziari via radio parlavano di un accordo ormai “già fatto” per Hamas e invece “ancora da firmare” per Israele. Tutta la mediazione tra le due parti – che non hanno relazioni dirette, fatta eccezione per le schermaglie minacciose scambiate via Twitter – è passata nelle mani di un terzo, Mohamed Raafat Shehata, un veterano diventato capo dell’intelligence egiziana di recente perché è stato nominato l’8 agosto. I generali israeliani hanno offerto di interrompere i bombardamenti se lo fanno anche i gruppi palestinesi– è previsto un periodo di prova di 24 ore – e il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha mandato al Cairo il suo capo negoziatore, Yitzhak Molcho, per i dettagli. Hamas vuole un accordo più formale, che contenga anche la garanzia che Israele fermerà le uccisioni mirate – come quella che mercoledì scorso ha scatenato i sette giorni di guerra aperta – e che normalizzi la possibilità di rapporti commerciali della Striscia (e quindi tolga il blocco in vigore oggi via mare e via terra, che però negli anni si è mostrato così efficace contro gli attacchi suicidi). Nel pomeriggio è sembrato che l’offensiva di terra fosse imminente, perché gli aerei israeliani hanno lanciato volantini che chiedevano alla popolazione di evacuare la Striscia, ma lungo la linea di confine i riservisti hanno invece ricevuto l’ordine di arretrare, in preparazione del ritorno a casa – molti si sono dichiarati delusi con gli intervistatori, erano pronti a entrare a Gaza. Il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, ha detto che “la decisione sull’eventuale invasione di terra dovrebbe essere presa dal governo israeliano che verrà dopo le elezioni” di gennaio. Secondo il quotidiano del Cairo al Masri al Youm, i gruppi armati di salafiti egiziani stanno invece passando dal Sinai alla Striscia, ancora attratti dall’idea di poter combattere contro le truppe israeliane nel caso il cessate il fuoco negoziato nella capitale fallisse. Per Hamas sembra non contare che abbia sperimentato sulla sua pelle più di 1.500 strike aerei e anche i bombardamenti dalle navi poco lontane dalla costa, e che le sue infrastrutture siano state danneggiate, e che il bilancio finale sia superiore ai 130 morti. Ancora prima che il cessate il fuoco fosse certo e ufficiale, il gruppo ha cominciato a sostenere di essere uscito vincitore dallo scontro, non dal punto di vista militare – ieri sono morti un soldato diciottenne e un civile, quarta e quinta vittima israeliana del conflitto – ma da quello della legittimità. Il gruppo ha incassato un vasto riconoscimento da parte della diplomazia della regione, il premier egiziano Hisham Qandil è venuto in visita, come pure – ieri – i ministri di dieci paesi della Lega araba e anche il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Nella Cisgiordania governata dall’Autorità palestinese sono cresciute le scaramucce di strada tra i palestinesi insoddisfatti e solidali con Gaza e i soldati israeliani. Una delle poche foto che si hanno del mediatore egiziano Shehata risale alla liberazione del caporale israeliano Gilad Shalit, rapito da Hamas: il prigioniero è in mezzo, da una parte c’è Ahmad al Jaabari, il capo dell’ala militare di Hamas eliminato mercoledì scorso da uno strike mirato e dall’altra l’egiziano. Il capo dell’intelligence del Cairo gioca il ruolo di cerniera tra Hamas e il resto del mondo e il 26 agosto è andato nella Striscia accompagnato dal capo di stato maggiore, Sidki Sobhi, per negoziare un accordo su sicurezza e tunnel tra il gruppo palestinese e il governo dei Fratelli musulmani.

Il FOGLIO - "  La logica di Beslan a Gaza"

Ogni guerra condotta da Israele a Gaza si dibatte fra la compassione per il dolore della popolazione investita dal turbine di fuoco e la concreta questione della sicurezza della sola democrazia al mondo sotto attacco giornaliero da parte delle organizzazioni terroristiche, che vive sotto minaccia pre nucleare e che da anni cerca di tutelare i suoi villaggi dai razzi lanciati da organizzazioni sostenute dall’Iran. E’ sullo sfondo di questo tragico equilibrio che cerca di muoversi l’esercito israeliano, che ha diffuso le trascrizioni dei piloti che all’ultimo momento hanno abortito una missione militare per l’alta presenza di civili (“civilians spotted”). Hamas fa degli scudi umani un’arma cinica e micidiale per mettersi al riparo dalla reazione israeliana. Da questi giorni di guerra sono emerse già molte fotografie delle piste di lancio missilistiche di Hamas collocate ai fianchi dei campi di calcio e al limitare delle moschee, luoghi santi dell’islam che ci si guarda bene dal colpire. Una immagine in particolare, che proviene dal distretto Zeitoun di Gaza, mostra i razzi iraniani Fajr piazzati vicino a un campo giochi per bambini. Uno spot tv di Hamas diffuso in questi giorni dice che “le bombe sono più preziose dei bambini”. Tradotto: comportatevi da potenziali shahid, martiri, non abbandonate le vostre case nonostante gli avvertimenti israeliani, proteggete coi vostri corpi quelli più importanti dei mujaheddin. Come ha fatto il capo del programma missilistico di Hamas, Yahiya Abiya, che si nascondeva fra le case zeppe di civili e che due giorni fa è stato colpito da un missile (non si sa se sia morto nello strike). Il New York Times riferisce di dodicimila messaggi di testo inviati dall’esercito israeliano ai cellulari dei palestinesi che vivono vicino agli edifici usati da Hamas e dal Jihad islamica. Sono mezzi spesso inutili per evitare le stragi di civili, ma che ci dicono molto dell’unico esercito che porti nel suo statuto una clausola che impone al soldato di disubbidire se riceve un ordine giudicato disumano. Il disprezzo islamista- palestinese della vita dei propri piccoli, questa oscena strumentalizzazione delle loro vite, nasce dalla logica di Beslan, dei terroristi ceceni che hanno fatto dei bambini osseti i loro scudi umani. Oltre alle vittime d’Israele si deve avere il coraggio di saper guardare in faccia e giudicare anche la tanatocrazia del terrorismo.

Il FOGLIO - Carlo Panella : " Il domino del Qatar "


Carlo Panella                Emiro del Qatar

Roma. Anche l’Italia di Mario Monti è entrata nel “giro del Qatar”, quel piano diplomatico- economico-militare guidato dal l’emiro Hamad bin Khalifa Al Thani che coinvolge medio oriente, nord Africa ed Europa (per ora). La “Iq Made in Italy Venture” è una joint venture paritaria con la Qatar Holding che avrà disponibilità finanziarie per 2 miliardi di euro da investire nei settori dell’alimentare, moda, arredamento e turismo. Ma il “giro del Qatar” è già conosciuto in Italia: l’emiro ha acquisito Valentino, l’hotel Gallia, quote della Costa Smeralda e punta al piatto grosso, che è l’ingresso in Finmeccanica. Lo shopping qatariota in Europa tocca le principali capitali e la Francia, nella sua crisi economica che continua a camuffare ma senza più riuscire a coprire l’inquietante ticchettio, è tra i paesi più esposti con Doha. Tanto che qualcuno inizia a preoccuparsi. L’emiro Al Thani non è un “investitore puro” e i fondi di investimento del Qatar non hanno soltanto lo scopo di fare profitti. Al Thani non è un nuovo al Waleed, o un nuovo Sawiris e nemmeno un nuovo Gheddafi. E’ un eccellente uomo d’affari, spregiudicato (ha preso il potere in Qatar nel 1995 con un golpe contro il padre), ma è anche un leader dalle intelligenti ambizioni politiche che persegue una strategia geopolitica raffinata ed espansiva nel Mediterraneo e nell’islam europeo. I suoi investimenti in Europa e nel Mediterraneo puntano a consolidare una leadership politica, a indirizzare e condizionare – usando la leva religiosa di matrice wahabita – le comunità musulmane emigrate nei paesi europei. Le prove sono molte: la crisi libica è stata manovrata fin dall’inizio dal Qatar e personalmente da Al Thani, prima con i servizi faziosi di al Jazeera (punta di diamante della penetrazione politica del Qatar nel mondo arabo, di proprietà ovviamente di Al Thani), poi con l’intervento di centinaia di suoi commando, che hanno svolto un ruolo decisivo durante la guerra, tanto che il suo fiduciario Abdelhakim Belhaj – ex militante di al Qaida – si è imposto come comandante militare di Tripoli alla caduta del rais. Passati pochi mesi, gli stessi commando qatarioti si sono infiltrati in Siria e oggi sono tra i protagonisti della rivolta armata: così Al Thani è diventato uno dei protagonisti della crisi siriana, tanto che ha imposto suoi fiduciari nella nuova struttura di guida politica della rivolta contro il rais Assad. Ma le sue mire vanno al di là dell’interventismo unilaterale nelle crisi arabe (alcune formazioni islamiste egiziane hanno trionfato nelle urne grazie ai suoi finanziamenti) e si estendono al Vecchio continente. Mesi fa il Qatar – la cui religione è il wahabismo fondamentalista – ha proposto al governo di Parigi un investimento di 2 miliardi di euro per fare fronte al problema delle comunità islamiche nelle banlieue. E’ un passo avanti rispetto alla politica saudita che dal 1973 in poi ha investito miliardi di petrodollari per finanziare cinquemila moschee wahabite. E’ un passo finalizzato a radicare la penetrazione wahabita nel tessuto sociale francese. Al Thani investe in Europa per fare profitti ma anche per esercitare, in raccordo con l’alleato saudita, un forte condizionamento sull’islam europeo. L’Europa in crisi preferisce cullarsi nell’illusione qatariota, prigioniera come è di una politica che la porta a elargire enormi aiuti ai paesi arabi (solo all’Egitto arrivano 5 miliardi dall’Ue) senza condizionarli al rispetto dei diritti umani nei confronti delle donne e delle minoranze religiose minacciate dalle nuove Costituzioni shariatiche.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " A Gaza Hillary prova a fare la differenza"


Maurizio Molinari                   Hillary Clinton

La missione a sorpresa di Hillary Clinton in Medio Oriente nasce dalla volontà di Barack Obama di siglare in fretta la tregua a Gaza per poter gettare le basi di una nuova iniziativa di pace fra Israele e palestinesi. Da 72 ore Israele e Hamas sembrano vicini ad una cessazione delle ostilità che continua a slittare: la mediazione egiziana, sostenuta da Turchia e Qatar, ha dietro l’amministrazione Obama e la scelta di far volare Hillary da Phnom Penh a Gerusalemme svela l’impazienza del Presidente per centrare questo obiettivo. Barack Obama cerca un risultato in tempi stretti per un duplice motivo. Il primo è che i reciproci segnali di disponibilità a cessare i combattimenti, raccolti dagli egiziani, creano una finestra di opportunità che deve essere sfruttata prima che una qualsiasi mossa dei contendenti possa innescare una nuova escalation. Obama ha chiesto al premier israeliano Benjamin Netanyahu di evitare l’invasione di terra e l’egiziano Mahmud Morsi preme su Hamas per interrompere i lanci di razzi in un forcing diplomatico parallelo che perde di efficacia con il passare del tempo. Con le soste prima a Gerusalemme e poi al Cairo Hillary Clinton si propone di smussare i problemi che rimangono su entrambi i fronti: spiegando a Israele che il sostegno incondizionato degli Stati Uniti all’operazione militare non è a tempo indeterminato e facendo presente all’Egitto che un fallimento delle sue pressioni sui fondamentalisti di Hamas a Gaza pregiudicherebbe la credibilità di Morsi come leader regionale. Tanto Gerusalemme che il Cairo rischiano frizioni con la Casa Bianca. Ma non è tutto, perché Hillary ha bisogno della tregua anche per evitare che il conflitto fra Hamas e Israele si sovrapponga alla crisi fra Autorità nazionale palestinese e Israele che incombe alle Nazioni Unite. Il 29 novembre il presidente palestinese Mahmud Abbas darà infatti luce verde alla presentazione all’Assemblea Generale dell’Onu di una bozza di risoluzione per il riconoscimento della Palestina come Stato nonmembro - al pari della Santa Sede - e visto che dispone dei voti per farla approvare ciò significa per Israele una violazione delle intese di pace del 1993 e 1994, capace di far franare l’intero edificio costruito sugli accordi di Oslo. La sovrapposizione fra guerra a Gaza e crisi all’Onu minaccia di travolgere ciò che ancora rimane del progetto di veder convivere due Stati fianco a fianco in Medio Oriente in pace e sicurezza. E’ lo scenario peggiore per un’amministrazione americana intenzionata a rilanciare in tempi stretti il negoziato sullo status definitivo dei confini fra Israele e nascituro Stato di Palestina. Sventarlo è l’ultima missione che Hillary si trova a gestire prima di lasciare il Dipartimento di Stato. E si annuncia da subito come quella più difficile del suo mandato. Ironia della sorte vuole che proprio da questa missione inattesa, maturata mentre si stava occupando al summit dell’Asean in Cambogia delle diatribe territoriali nel Mar della Cina del Sud, dipende il buon inizio del secondo mandato di Obama sul fronte della politica estera. Un successo capace di scongiurare il peggio e rilanciare il negoziato fra Israele e Anp metterebbe Obama nella condizione per andare subito all’offensiva sul fronte della pace così come un fallimento vedrebbe il Medio Oriente scivolare verso un conflitto su più fronti dagli esiti difficili da prevedere. Tocca a Hillary riuscire a fare la differenza.

Il FOGLIO - Carlo Pelanda : " E se Hamas stesse solo provando la resistenza di Israele? "


Carlo Pelanda

La rubrica ritiene che gli attori nel teatro mediorientale siano alla ricerca di un equilibrio. E che questo non possa essere altro che “del terrore”, cioè basato sulla paura reciproca. Quindi ipotizza che gli eventi in corso a Gaza siano parte di un test multiplo finalizzato a calibrare le reciproche capacità di dissuasione. Questo non vuol dire che saranno evitati conflitti, ma che questi verranno limitati per lo scopo della calibratura. La rubrica, emotivamente legata a Israele, avverte che tale “chiave di scenario” è viziata dalla convinzione che l’equilibrio del terrore – la miglior formula di stabilizzazione in assenza di un attore imperiale – sia forse l’unica opzione che permetta in prospettiva la sopravvivenza di Israele stesso. Per l’interesse dei lettori italiani, inoltre, tale formula darebbe certamente a Roma un ruolo primario di mediatore e la collocherebbe al centro geopolitico del Mediterraneo, con grande beneficio geoeconomico. Ma quali test? Hamas sta cercando di capire se riuscirà a mantenere i missili iraniani Fajr-5, piuttosto evoluti, senza essere massacrata da Israele. Il senso del test è di non essere invasi (infatti i Fajr-5 li ha lanciati in mare) e di non mollare via trattativa questa capacità missilistica che, da un lato, giustifica i finanziamenti iraniani e, dall’altro, è un motivo di rilevanza, quindi di dissuasione indiretta, nei confronti del nuovo regime islamista-sunnita egiziano. Hezbollah segnala di essere pronto ad avviare operazioni a nord per dissuadere Israele a invadere Gaza attraverso la minaccia di dover combattere su due fronti. Ma Hezbollah ha la priorità di connettersi territorialmente con l’enclave alawita siriana in vista della libanizzazione della Siria e sirizzazione del Libano e non vuole, ora, esporsi in un conflitto. Ciò dà un vantaggio a Israele che ha mobilitato risorse per operare su due fronti e che non lascerà mai a Hamas la capacità detta. Ma tale vantaggio è ridotto dall’Amministrazione Obama che, pur perseguendo l’equilibrio del terrore, tende a cedere troppo alle richieste iraniane. Israele, a bilanciamento, può contare sull’interesse dell’Egitto, pur ostile a parole, a favorirlo in questa materia, ingaggiando anche l’interesse dei sauditi spaventati dalla complicità tra iraniani e americani. Questo è un test più sistemico per valutare se Arabia, Egitto e Israele potranno trovare intese contro l’Iran. Teheran, anche spinta da Pechino e Washington che non vogliono guai attorno al petrolio, sta segnalando di non volere destabilizzazioni eccessive, ma solo la tutela dei suoi bracci armati Hezbollah e Hamas e relative capacità di influenza in Libano, Siria e Palestina nonché di dissuasione contro la minaccia israeliana di un attacco ai suoi siti nucleari. La Turchia sta uscendo da un gioco complesso che si era illusa, ingenuamente, di poter influenzare e sta chiedendo l’ombrello Nato per evitare, alla fine di una partita fuori controllo, di trovarsi una neo nazione curda che le tolga un quarto del territorio. La Russia, invece, sta entrando nel gioco potendo contare sulla possibilità di parlare sia con Gerusalemme sia con Teheran nel contesto di un ritiro disordinato dell’America. Ma vuole solo riprendere una posizione e vendere armi, non di più. Anche per questo una prima calibratura e un congelamento del teatro verranno raggiunti. Se così, Israele diventerà il tutore nucleare dei sunniti e della Mecca contro gli sciiti iraniani che vorrebbero prendersela, motivo per cui preparano l’atomica, e si salverà. L’Italia sarà accettata da tutti come mediatrice, un’opportunità. Un po’ scenario, un po’ augurio e un po’ strategia.

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