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Corriere della Sera- La Stampa- La Repubblica Rassegna Stampa
19.11.2012 Guerra: Le lacrime dei coccodrilli
L'uso inaccettabile dei bambini palestinesi

Testata:Corriere della Sera- La Stampa- La Repubblica
Autore: Davide Frattini-Francesca Paci-Fabio Scuto
Titolo: «La famiglia Samuni, in fuga dalla guerra-Gaza stretta nell'assedio, nove bambini uccisi nei raid-Stavo giocando poi è esploso tutto»

L'uso strumentale dei bambini di Gaza va respinto con fermezza. Troppo facile piangere sulla loro morte quando chi la provoca è la stessa strategia dei terroristi di Hamas, che nessun giornalista ha il coraggio di chiamare con il loro nome, terroristi, e non miliziani. Usare i bambini come scudi umani, insegnargli fin da piccoli che devono diventare 'martiri' e farsi esplodere per uccidere gli ebrei, dovrebbe insegnare che non è lecito piangerne la morte- e accusare Israele di esserne responsabile- quando sono gli stessi palestinesi a proclamare di 'amare la morte' e accusare gli 'infedeli' di 'amare la vita'. Sacrificare i civili, soprattutto i bambini, rende maledattamente bene, basta guardare oggi tutti gli articoli sui giornali per verificarlo. L'Occidente ha la lacrima facile, si commuove, evitando così di ragionare su chi è veramente responsabile di quelle morti.
Prendiamo a dimostrazione tre articoli - fra i tanti usciti oggi 19/11/2012-  quelli di Davide Frattini sul CORRIERE della SERA, Francesca Paci sulla STAMPA, Fabio Scuto sulla REPUBBLICA, non molti diversi da quelli altri giornali. Come se Israele non avesse il diritto di difendersi contro una banda di criminali che governa la Striscia di Gaza, una guerra difficile, combattuta non contro un altro esercito, ma contro armate di terroristi, che - appunto - usano i civili la cui morte ha come risultato la vittoria nella guerra mediatica.
Costano poco le lacrime di questi coccodrilli, ma rendono moltissimo a chi le provoca. E i media occidentali fanno da trasmissione. Un gioco ignobile.



Corriere della Sera-Davide Frattini: "La famiglia Samuni, in fuga dalla guerra "

Missile su Ashdod

Mohammed è cresciuto e gli ulivi sono stati ripiantati. La famiglia Samuni sopravvive torchiando questi campi di terra sabbiosa che stanno tra il confine e il mare, piazzati in mezzo al percorso di guerra che i carri armati israeliani sarebbero obbligati a seguire per invadere la Striscia. E' già successo tre anni fa, l'operazione militare portava un altro nome, al governo c'era Ehud Olmert invece di Benjamin Netanyahu.
La via d'attacco non cambia: le truppe che i comandanti stanno ammassando dall'altra parte devono entrare dal valico di Karni e scendere verso la costa per creare postazioni da dove muoversi con incursioni verso le zone più popolate e il centro della città. Passeranno da qui.
Questa volta i Samuni non sono rimasti ad aspettare. Mercoledì scorso un missile ha centrato l'auto di Ahmed Jabari, il capo militare di Hamas, e per Zahwa è stato il segnale: ha radunato i sette figli, le due nuore assieme ai loro figli, ha lasciato Zeitun e si è trasferita dalla madre. Non importa che adesso in tredici condividano sessanta metri quadri, che la verdura nei terreni stia andando a male, che per arrivare a questo appartamento si debba scansare l'acqua che cola sulle scale dai cessi. «Qui è più sicuro, gli israeliani stanno per arrivare come nel 2009. Lo so, lo sento. Allora abbiamo sbagliato — ricorda con un sorriso rassegnato — non pensavamo sarebbero entrati: ed è successo quello che è successo».
Quando Mohammed aveva nove mesi, il padre Attiyah è stato ucciso dai soldati che avevano bussato alla porta di una casa che non c'è più. Adesso sta in piedi nel buio del salotto e ascolta la storia che gli è già stata raccontata tante volte. Nel 2009 ventinove componenti del clan Samuni sono stati uccisi in un bombardamento, il padre era morto la notte prima, Israele ha chiuso l'inchiesta il maggio scorso senza individuare colpe o colpevoli.
Sei mesi fa i chirurghi hanno estratto le ultime schegge di proiettile d'artiglieria dalla schiena del fratello di 15 anni. Zahwa le conserva nella borsa di pelle nera, spera che in questa nuova guerra che entra dentro Gaza le portino un po' di fortuna. Si lamenta perché Hamas le ha dato solo quattromila euro come risarcimento, miscela la disperazione con un orgoglio bellicoso. «Non hanno riconosciuto i miei diritti, ma io riconosco il loro di usare i Qassam contro gli israeliani».
Nel vicolo buio rimbombano i botti delle esplosioni. L'aviazione ieri ha colpito centocinquanta obiettivi, anche due palazzi usati dai giornalisti: gli uffici del canale in lingua araba di Russia Today sono stati distrutti con quelli di Al Aqsa, televisione controllata da Hamas. «Abbiamo centrato le antenne e le strutture per le comunicazioni usate dai capi fondamentalisti. La strategia degli estremisti è semplice: usare i civili come scudi umani, sparare dalle aree residenziali, usare le moschee come depositi di armi, nascondersi negli ospedali», replicano i portavoce dell'esercito. Nelle stesse ore l'intelligence si è inserita sulla frequenza 106.7 usata dalla radio locale e ha trasmesso messaggi in arabo per sollecitare gli abitanti a stare lontani dai miliziani: «Stanno giocando con il fuoco e così vi mettono in pericolo».
I raid nel nord della Striscia cercano di colpire le basi nascoste per il lancio dei missili: ieri ne sono stati sparati sessanta, quattro hanno colpito Ashkelon, le sirene sono suonate ancora a Tel Aviv. I morti palestinesi di questi cinque giorni sono arrivati a 71, venticinque solo ieri. Undici — tra loro cinque bambini — sono rimasti sotto le macerie di una palazzina su tre piani bersagliata al tramonto, ci viveva un dirigente incaricato di gestire la protezione per i notabili del movimento. I vicini scavano con le mani per recuperare corpi, le Brigate Ezzedin-Al Qassam, l'esercito di Hamas, minacciano: «Il massacro della famiglia Al Dallou non resterà impunito».
L'ospedale Shifa è il più grande di Gaza. Le ambulanze vengono circondate da decine di persone che vorrebbero aiutare e invece iniettano caos nella confusione. I feriti più gravi vengono mandati verso il valico di Rafah per essere curati in Egitto, liberano i letti per gli altri che arrivano. «Il pronto soccorso è pieno, la terapia intensiva pure — spiega il dottor Ayman Sahbani —. Sono soprattutto donne e bambini. Prima dell'attacco avevamo scorte per un mese, adesso stanno già finendo». Israele ha riaperto per poche ore il passaggio di Kerem Shalom e ha permesso a ottanta camion con materiale sanitario e cibo di entrare.
Da Shifa passa veloce anche Ghazi Hamad, il viceministro degli Esteri, uno dei pochi leader a farsi vedere in giro. Era lui che negli ultimi mesi stava mediando una tregua di lungo periodo, faceva da intermediario per Jabari perché il «capo di Stato maggiore» non voleva trattare direttamente con gli israeliani. I contatti sono andati avanti fino a poche ore prima della sua morte, l'omicidio mirato che ha marcato l'inizio del conflitto.
I droni ispezionano le strade e la sabbia della Striscia, i motori emettono il rumore di un tosaerba che non smette mai di triturare. I jet bombardano la base Ansar, sulla costa vicino al porto, gli uomini della sicurezza interna l'hanno già abbandonata. Una volta apparteneva al Fatah, il partito rivale di Hamas, come tutto qua attorno. La nave di Yasser Arafat sta in secca arrugginita: avrebbe dovuto inaugurare la flotta della Marina militare palestinese, il raìs ci era salito una sola volta dodici anni fa per accendere la fiaccola con il primo combustibile portato in superficie dai test del gruppo britannico Bg. «Questo gas sotto il mare è un dono di Allah al nostro popolo. Fornirà le fondamenta per la nascita di uno Stato», aveva proclamato il leader scomparso nel 2004.
Da allora Gaza è finita sotto il dominio di Hamas ed è rimasta separata dalla Cisgiordania. Il presidente Abu Mazen torna a parlare di unità nazionale e questa volta ha deciso di mandare qui Nabil Shaath, uno dei suoi uomini più fidati, per cercare di mediare una tregua, di sfruttare la visita di domani dei ministri degli Esteri della Lega Araba per frenare una possibile invasione israeliana.
I pochi negozi che restano aperti tra i palazzoni nel centro della città non richiamano i clienti, la gente ha cercato di accumulare il cibo per non doversi esporre fuori di casa. Il governo di guerra vuole evitare che i prezzi impazziscano, «consideriamo un complice dell'aggressore chiunque provi a nascondere le scorte», commenta Taysir Al-Batsh, il capo della polizia, all'agenzia Reuters. L'ottanta per cento della popolazione — calcolano le Nazioni Unite — vive sotto la soglia di povertà, dal 2005 le scarse entrate delle famiglie si sono rimpicciolite ancora di più. Le scuole sono chiuse, i ragazzini giocano davanti a casa, puntano i tubi di plastica verso il cielo, verso i droni che volano troppo alto per vederli.

La Stampa-Francesca Paci:" Gaza stretta nell'assedio, nove bambini uccisi nei raid"

Ecco i razzi che colpiscono Israele

Come ci sentiamo dopo cinque giorni di bombe? Praticamente non esco più di casa, ho fatto scorta di tonno, fagioli, cibo in scatola e tavolette di cioccolato, più ovviamente tante candele perché l’elettricità va e viene». Khaled Harara, 24 anni, ex studente di Economia ma soprattutto anima e voce del gruppo hip hop palestinese Black Unit, abita ad Al-Zahara, sud-ovest di Gaza City, vicino all’ex insediamento ebraico di Netzarim. Dalle finestre vede le colonne di fumo che si levano dagli edifici governativi, il quartier generale di Hamas, le sedi delle tv, i crateri dei 120 obiettivi che l’esercito israeliano afferma di aver centrato. «Spero nella tregua me se dovessi scommettere punterei sull’attacco, ho già vissuto Piombo Fuso 4 anni fa, i cadaveri in attesa di sepoltura, le macerie, so cosa significa» continua. In sottofondo si sente una sirena. Internet funziona e lui, anche per esorcizzare la paura, continua a lavorare alla canzone «War and Peace», un progetto messo in piedi con una band libanese e due francesi: «Difficile astrarsi quando le notizie dei bimbi che muoiono incalzano, ma la mia resistenza è la musica».

Da martedì Gaza va a letto e si sveglia con i tamburi di guerra. Nonostante l’attivismo egiziano, apprezzatissimo da chi scandisce i minuti con i raid, la convinzione diffusa è che lo scontro sia inevitabile. «Ormai chiunque si fermi per primo verrà percepito come il perdente e se Israele vuole vincere figurarsi Hamas, la cui ala più belligerante ha giurato vendetta per l’omicidio di Jafaari» nota l’insegnante Youssef Ayyad mentre fa la fila al distributore. Le poche auto che si vedono in giro puntano all’ospedale o sono a caccia del pieno: diversamente dal dicembre 2008 il valico di Rafah al confine con l’Egitto è aperto e le medicine arrivano quotidianamente anche grazie al Qatar che ha versato al Cairo 10 miliardi di dollari per i feriti palestinesi, ma non si sa mai.

«È terribile, io personalmente ho vissuto le mie ore peggiori» racconta il giornalista Sami Ajrami, collaboratore di testate internazionali come il collega della Bbc Jihad Misharawi che giovedì ha seppellito il figlio di 11 mesi. Una delle due gemelle di Sami, Bissan, 9 anni, è stata colpita dalle schegge di un’esplosione e ha perso tre dita: «Stava giocando con la sorella Ruba nel giardino dei nonni a nord di Gaza City, erano due giorni che le tenevamo chiuse in casa, non ne potevano più. Mi hanno telefonato mentre lavoravo e sono corso all’ospedale Shifa, era un inferno, Bissan rischiava anche le altre due dita... così ho contattato il Peres Center for Peace e sono riuscito a farla partire, verrà operata tra poco al centro Tel Hashomer di Tel Aviv, insciallah».

L’ospedale Shifa è l’avanguardia dell’emergenza. «Siamo preoccupati soprattutto per l’elettricità, per ora abbiamo i generatori, ma le ambulanze arrivano a getto continuo» urla al telefono l’infermiera Rana. Il bilancio della giornata è di 23 vittime palestinesi, di cui 9 bambini. Quattro dei corpicini avvolti nelle lenzuola bianche appartengono alla stessa famiglia al Dalou, sepolta sotto le macerie dell’edificio in cui viveva nel quartiere Nasser.

La fotografa italiana Rosa Schiano li ha visti all’obitorio, le ferite, gli ematomi, il fantasma dell’unico parente sopravvissuto precariamente in piedi accanto alle salme: «Il più piccolo aveva 11 mesi, gli altri avevano tra i 3 e i 6 anni, una dopo l’altra sono arrivate anche la mamma e le zie, una era interamente bruciata».

Nonostante le notizie di una possibile tregua clima e umore sono da trincea. «Non c’erano uffici di Hamas nel palazzo degli al Dalou e neppure nelle altre case colpite tra Khan Yunis e Rafah, segno che gli israeliani hanno alzato il tiro e puntano ai civili per costringere Hamas alla resa» azzarda il tassista Hafez Monzer. Netanyahu ripete che l’obiettivo è Hamas e Hafez ammette che le infrastrutture sono state risparmiate: «Nel 2008 distrussero la centrale elettrica pagata 10 milioni di dollari dagli americani, stavolta ancora no».

Eppure Asma Aghoul, la blogger che nel 2011 tentò di stimolare la primavera palestinese i ragazzi di Gaza, è pessimista: «Attaccheranno, abbiamo messo le coperte davanti alle finestre perché i vetri rotti non entrino in casa e viviamo in dieci nello stesso appartamento ma il mio bimbo di 8 anni capisce che non è una festa e quello di 3 mesi non dorme più».

La Repubblica-Fabio Scuto: " Stavo giocando poi è esploso tutto"

Bambino a Gaza mentre .. gioca

Hassan, l'addetto della morgue all'ospedale AlShifa di Gaza City, ha il volto di pietra mentre depone nella cella frigorifera il corpicino di Eyad Abu Khosa, 18 mesi, morto senza nemmeno accorgersene ieri mattina sotto un bombardamento nel campo profughi di Al Bureij. Eyad è già avvolto nel sudano bianco che lo accompagnerà sottoterra, ma il telo è macchiato di sangue perché la ferita che l'ha ucciso versa ancora. I morti non vengono più ricomposti - come la pietà umana vorrebbe - perché in ospedale il filo da sutura sta finendo eviene usato solo per i feriti. Con Eyad ieri, sotto il diluvio di "bombe intelligenti" che arrivavano da cielo e mare, sono morti altri 9 bambini, tutti sotto i 10 anni. Un missile ha centrato una palazzina di tre piani nel rione Nasser, e si portato via un'intera famiglia, gli Ad-Dalo: 5 donne, la nonna e 6 ragazzini; il più piccolo aveva una settimana, il più grande 5 anni. Nel suo quinto giorno la "seconda guerra di Gaza" ha conosciuto il suo bilancio più sanguinoso: 24 i morti ieri, 22 i civili palestinesi -10 bambini - e due noti dirigenti di Ha-mas. In un atmosfera da incubo - la città deserta, i raid aerei che si susseguono, l'attesa carica di ansia e paura per l'attacco terrestre - la gente di Gaza piange questa "strage degli innocenti". «Se gli israeliani fermeranno i bombardamenti forse domani riusciremo a fare il funerale», dice Fadhi, lo zio di Eyad, unico parente che assiste al tragico rito nella camera mortuaria e firma le carte nello sgangherato ufficio a fianco, affollato dai parenti delle altre vittime che in silenzio aspettano il loro turno. Sono tutti uomini, almeno alle donne è risparmiata questa tragica incombenza, quest'ultimo dolore. La madre di Eyad, Safiah, è dall'altra parte dell'ospedale. Nel reparto ria -nimazione al piano terra i medici della terapia d'urgenza si stanno affannando a tenere in vita gli altri due fratel lini di Eyad, di 4 e 5 anni, gravemente feriti nella stessa maledetta esplosione che ha ridotto la loro casa nel campo profughi a un pugno di sabbia. Ambulanze e macchine civili arrivano di continuo nel cortile dell'Ospedale Al-Shifa - il nosocomio più importante della città, più importante della Striscia - ma le sirene sono spente e i clacson muti perché non ce n'è bisogno: le strade di Gaza City sono deserte. La benzina scarseggia, al mercato nero ha toccato i 100 dollari per venti litri, ma soprattutto l'auto potrebbe diventare un bersaglio per i droni e per i missili degli F-16 a caccia delle rampe dei missili che comunque - dopo cinque giorni di bombardamenti senza interruzioni - continuano a piovere sul sud d'Israele. Per evitare di essere colpiti i miliziani palestinesi hanno creato a Gaza postazioni di razzi ben mimetizzate, gli ordigni sono interrati, protetti da piastre mobili che aderiscono perfettamente al terreno e che vengono alzate con un radiocomando. Oppure quelle mobili vengono nascoste e spostate nelle aree più densamente abitate, impianti sportivi o vicino alle scuole per farsi scudo dei civili e cercare di sfuggire alla rappresaglia che invece puntualmente arriva dopo ogni lancio. Con il conseguente alto numero di vittime non combattenti. Gaza, con i suoi quasi due milioni di abitanti, è una delle aree più densamente abitate del mondo e quasi metà della palestinesi che ci vive ha meno di 15 anni, bambini e adolescenti hanno sempre pagato un prezzo alto ad ogni operazione militare. L'atrio del pronto soccorso dell'AZ-Shifa è unabolgiadigentechearriva,chepiange, che si dispera, che maledice il mondo, che fuma in silenzio con lo sguardo basso guardandosi le scarpe. Il "triage" è invaso di feriti e i medici del pronto soccorso lavorano senza sosta, dibattendosi in mille difficoltà, che sono soprattutto legate alla penuria della farmacia dell'ospedale e alla mancanza di energia.I tavoli operatori di primo intervento nella sala a lato sono separati da una semplice tenda, Il dottor Medhat Abbas, che dirige l'ospedale, durante una pausa tra un'operazione e l'altra ci dice: «In 5 giorni abbiamo consumato quel che consumiamo in 3 mesi, abbiamo curato finora oltre 500 feriti, i 700 posti letto dell'ospedale sono tutti occupati e anche i 20 che abbiamo nella terapia intensiva; lavoriamo senza elettricità per 12 ore al giorno, non si può operare al buio, non funzionano le macchine per l'intervento. E poi stiamo finendo gli anticoagulanti, gli analgesici, gli anestetici, i materiali per le lastre, le sacche per le trasfusioni... ma anche le cose più semplici comeiguantioil filo perle suture». Salendo le scale sbrecciate fino al terzo piano si arriva al reparto Pediatria, nel disimpegno che porta alle stanze un gran poster di "Winnie the Pooh" e i disegni lasciati dai piccoli pazienti sono fissati al muro con le puntine. Anche Pediatria non ha un solo posto libero, perché il più alto numero di feriti si registra tra i bambini. Le case sono piccole a Gaza e il pezzo di strada davanti all'uscio diventa una propaggine dell'abitazione, tutti i ragazzini giocano per la strada. Difficile tenerli fermi, dentro casa, sotto controllo, lontano anche dalle finestre. Non awertono il pericolo, non hanno la malizia dell'adulto nel riconoscere il rumore fisso che fanno i droni che incessantemente sorvolano la Striscia, il sibilo del missile che annuncia la morte in arrivo quando ormaiètroppotardi. LescuolenellaStriscia sono chiuse da quasi una settimana, i nego -zi pure, le strade - vuote del caos di traffico abituale - diventano immaginari campi di calcio per partite senza fine. Mahmoud Karton, 6 anni appena fatti, stava proprio giocando una di quelle partite sulla strada di casa nel popolare quartiere di Rimai, quando un missile ha colpito un palazzo di fronte e una scheggia nella schiena gli ha strappato via un rene. La madre Nila, in hijab nero e foulard, è seduta ai piedi del letto. Mahmoud ha il cannello nel naso e l'ago della flebo nella mano destra, ma lo sguardo è rimasto vivace. Che ti ricordi? «Giocavamo e vincevamo pure... poi un fischio, una luce, un gran male R», dice indicando i grandi occhi neri il lato destro delle coperte consunte ma pulite che lo coprono. «Noi di Gaza siamo ormai abituati a tutto», dice Ni-la ringraziando perla visita com'è costume fra gli arabi, «l'importante che siavivo, abbiamo già perso Majid durante la guerra del 2008... aveva la stessa età. Non voglio dire contro nessuno, ma gli uomini facciano la loro guerra e lascino stare i nostri bambini».

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