Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 18/11/2012, a pag. 10, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " L’agonia di Aleppo tra il silenzio del mondo e il grido dei muezzin".
Domenico Quirico
I morti giacciono nelle pieghe di un fosso, forse un canale disseccato, a pochi metri, tra calcinacci e immondizie, come un’apparizione arbitraria. Così estranei a questo cielo immenso appoggiato lievemente sul ciglio delle case distrutte. I morti come naufraghi gettati a riva dalla tempesta, gettati a riva dall’onda delle rovine. «Sono lì da due giorni, presi d’infilata nella terra di nessuno, più avanti ci sono altre donne e due bambini. Loro non lasciano che li portiamo via, sparano» mi dice il capitano, piccolo tarchiato, la faccia invasa da una barba rossa lucida e ricciuta. La luce sporca del mattino gli batte nel viso unto di insonnia e di fatica.
Li vedo bene, questi morti, potrei quasi toccarli. Una donna è seduta con la schiena appoggiata al corpo rannicchiato di una compagna, ha la testa reclinata sul petto e guarda di sotto in su con gli occhi spalancati, altri stanno distesi a due o tre dietro sfatti cespugli, ancora con le borse strette nel pugno o rovesciati sul dorso, le braccia aperte, sorpresi dalla morte nel supremo gesto di abbandono dell’uomo colpito al petto. Sembrano seguire con gli occhi ogni nostro passo, ogni gesto. Ci fissano con uno sguardo pieno di stupore e di rimprovero, come se venissimo a carpire un loro segreto, a profanare l’orrendo e vietato disordine della guerra e della morte.
Il crepitio delle mitragliatrici si propaga come il brivido di una chiusura lampo, lungo il fianco della colonna di ribelli con cui avanziamo nel quartiere di Sheq Qudur. A un tratto, la voce enorme di un altoparlante grida «dio è grande» e subito la cantilena del muezzin erompe, gonfia di sibili metallici, dalla gola di un grande imbuto fissato sul minareto della vicina moschea. Dio e la guerra, sempre mescolati, qui ad Aleppo. Alcuni soldati del regime spuntano sulla nostra destra, laggiù. Camminano curvi sparando, avanzano in catena, facendo fuoco con i fucili mitragliatori. Un mig ronza nel cielo cercando la sua preda. Qui il fronte è quasi un cifrario, una grafia misteriosa di trincee camminamenti nidi di mitraglieri che gli artiglieri e i piloti di Bashar stanno pazientemente decifrando per preparare l’assalto. Il cannone tuona senza posa, è un rombo cupo, eguale, che di quando in quando si fa rauco e grave, diviene un suono profondo sotterraneo, quasi la voce della terra, più avanti nel quartiere di Sahur .
Oggi l’inferno di Aleppo è qui. A 50 metri da noi cinque uomini vestiti di nero, neri i turbanti che gli avvolgono il volto, in fila scendono lentamente verso le posizioni dei soldati: senza chinarsi, senza coprirsi, entrano nella battaglia con modi tranquilli. «Li vedi quelli? – mi dice il capitano -. Sono di al Qaeda, cercano il martirio» mi dice il Capitano, e la sua voce ha il timbro dell’ammirazione. Impossibile avanzare: anche oggi quei morti resteranno insepolti.
Per la prima volta ad Aleppo ho respirato l’infinita stanchezza, l’estremo del suo immenso sforzo; la stanchezza, tante volte superata e respinta in questi mesi di rivolta e di battaglia, si esprime adesso dalla sua sostanza come una effusione del suo stesso sangue. Il nemico ben agguerrito li avviluppa di questa stanchezza come di un sudario, non vedono dietro e attorno a sé che un paesaggio di rovine e di morte. Il nemico li incalza, li persegue, li spinge senza dar tregua. Vorrebbero ingerirla d’un sorso, quella stanchezza, affrettarne la fine. È la stanchezza di un popolo coraggioso, e solo.
Ad Azaz, la prima città del territorio libero dove sono passato dopo aver superato la frontiera turca, le milizie curde del Pkk e i combattenti dell’armata libera si affrontavano sparando. In Siria si è sempre la minoranza di un altro. Ho dormito sulla via di Aleppo in un fienile, protetto da un gruppo di soldati-bambini che si scambiavano l’unico kalashnikov. La benzina si vende a bottiglie, da cinque giorni la città è senza acqua. Ho visto le quotidiane code per il pane, ogni giorno più lunghe: le donne in fila, una lunga macchia nera, e dietro seduti senza garbo né grazia, inutili... gli uomini. Mancano le armi («guarda, ho due caricatori, il mio mitra e il coraggio di morire, niente altro…»). L’inverno e il freddo avanzano.
Assad non utilizza tutta la sua forza, non vuole spaventare il mondo o provocare l’ammutinamento dei suoi soldati con un massacro rapido e totale. Allora strappa Aleppo maglia dopo maglia lentamente, nel silenzio vile del mondo. Alla fine avrà in pugno la matassa di questa guerra. Quartieri interi della città sono già materia morta. Il bombardamento di una città è qualcosa che noi in occidente, da generazioni, per fortuna più non conosciamo. Per quanto le case siano fatte di materia morta, inerte, il bombardamento pare che le animi di una vita violenta, par che infonda loro una vitalità formidabile. Il rombo delle esplosioni fra i muri delle case e dei palazzi, tra le quinte degli edifici, nelle piazze, risuona come un urlo rauco, incessante, spaventoso. Par che le case stesse urlino di terrore, sussultando, torcendosi tra le fiamme, crollando nel gorgo delle esplosioni.
Guardiamoli bene, questi morti. Tutte le loro virtù ci sono difficili, anzi impossibili. L’ispida virtù del patimento, della miseria, dell’oscurità spaurisce e respinge le nostre anime placide e rotonde.
L’agonia di Aleppo che non vogliamo vedere è un’agonia taciturna, testarda. Una lenta morte, una grigia morte. La lentezza di questa fine, il segreto della sua incredibile resistenza nel silenzio del mondo, opposta a un nemico più forte e senza pietà, più che nelle armi, più che nel coraggio dei suoi combattenti, consiste nell’incredibile capacità di soffrire. La loro sopportazione dovrebbe stancare perfino il carnefice. Dietro le sue trincee di rovine, tra le montagne di macerie, di tizzoni spenti, Aleppo agonizza nell’urlo cadenzato dei muezzin che dall’alto dei minareti gettano parole di fuoco, parole di ferro, su quei due milioni di moribondi taciturni e testardi. Gli orrori, la paura, le paure di ognuno, la disperata inutilità delle paure di ognuno fanno assomigliare questa guerra alle tragedie di Shakespeare; questa guerra rende tutta la nullità di ogni cosa tanto reale, c’è confusione e paura, quello che c’è in Shakespeare. L’odio e la guerra e niente altro.
Sono stato qui ad agosto, e questo è già un viaggio tra i morti. Il Vecchio Comandante, che aveva conquistato Azaz, «è caduto in combattimento». Me lo annunciano i suo soldati, poveri e cocciuti contadini, fedeli alla fatica quotidiana, un passo dopo l’altro nel gran campo deserto, ogni giorno una nuova battaglia come un tratto di terra da vangare affondandovi dentro le scarpe.
Non vedrò più i suoi occhi grigi, vivi, sornioni sempre in breccia, dove palpitava una fiammella di luce.
Non vedrò più Ahmed Khalil che comandava «i leoni di dio» nella vecchia Aleppo. Sono andato nel suk per cercarlo, a Swayaqat Hatim, alla porta della vittoria. Hanno scritto che questo patrimonio dell’umanità è stato bruciato dai governativi, per fortuna è ferito, sbrecciato ma ancora in piedi. Era pasticciere, diceva che qui le porte delle botteghe profumano di spezie. Gli odori di Aleppo, dolci e tremendi. Era molto pio, il peso della divina volontà nella sua povera anima lo accasciava di una sovrumana fatica. «Ho solo due possibilità - diceva – la vittoria o il martirio».
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