Dopo le dimissioni di David Petraeus e Hillary Clinton, chi ? L' analisi di Mattia Ferraresi sul FOGLIO di oggi, 10/11/2012, a pag.1/4, in un pezzo dal titolo "Dopo Hillary, Obama perde anche Petraeus (per corna). Primi guai"
David Petraeus, Hillary Clinton,due dimissioni imbarazzanti
New York. Il direttore della Cia, David Petraeus, ha dato ieri le sue dimissioni, per via di un affare extraconiugale che ha complicato la sua posizione. Non si poteva immaginare una tegola più devastante per Obama, impegnato nel rimpasto del gabinetto per il secondo mandato. Perché se la parte visibile delle conversazioni di Washington nel post rielezione riguarda l’accordo sul budget per evitare il “fiscal cliff”, la parte sommersa ha invece a che fare con la politica estera. Obama deve rinnovare il suo “A-Team”, trovare una nuova miscela per adeguare il gabinetto alle defezioni a lungo annunciate. E’ una grande ridefinizione della squadra di governo che coinvolge difesa, intelligence e soprattutto il dipartimento di stato. Le speculazioni su chi sostituirà Hillary Clinton vanno avanti da mesi e la conventional wisdom si restringe attorno a due nomi: John Kerry e Susan Rice. Anonimi ufficiali aggiungono spin all’incertezza della transizione e alimentano l’idea che questo sia soltanto l’ultimo duello di una guerra di palazzo cominciata quattro anni fa. Hillary allora era il candidato inevitabile, ma, oltre la logica della contropartita politica, era anche figura universale che non aveva bisogno di accreditarsi presso alcuna cancelleria. Il profilo personale eccedeva l’etichetta. Di John Kerry e Susan Rice non si può dire lo stesso. Figurarsi di Tom Donilon. Una fonte diplomatica sentita dal Foglio sintetizza la generale sensazione di instabilità: “La verità è che nessuno sa un bel niente”, dove “un bel niente” è una traduzione edulcorata dell’espressione originale. Tenere alta la tensione prospettando scelte non convenzionali è parte dello stile di Obama, e in questo “reshuffle” il primo istinto del presidente è imporre il suo tocco personale sulle logiche paludate di Washington. Senonché il ventaglio di possibilità per Foggy Bottom appare limitato e non entusiasmante in termini di caratura dei candidati. “John Kerry è Hillary con i pantaloni”, scrive James Traub su Foreign Policy, e Susan Rice, ambasciatrice all’Onu, è volto della gestione fallimentare dell’attacco al consolato americano di Bengasi. La sua credibilità è ridotta all’osso, e il processo di conferma al Senato foriero di problemi.Dopo Bengasi è tornata in auge una frase che Rice ha pronunciato durante un incontro privato nel 1994, durante il genocidio in Ruanda: “Se usiamo la parola ‘genocidio’ e non facciamo nulla, quali saranno gli effetti sulle elezioni di novembre?”. Il ragionamento elettorale a dir poco indelicato non è stato originariamente raccontato dai “pundit” conservatori, ma dalla giornalistaattivista Samantha Power, quella che nella capacità di consigliere dell’Amministrazione ha fatto fronte comune con Rice per convincere il mondo che bombardare la Libia era il massimo della democrazia. Kerry ha dalla sua l’esperienza nella commissione Esteri del Senato e un certo peso nei circoli democratici, ma quando si tratta di metterci la faccia l’effetto non è dirompente. E il leader del Senato, Harry Reid, non prenderebbe la defezione in un seggio contendibile. Tom Donilon è un insider arrivato ai fasti del Consiglio per la sicurezza nazionale per via di buone entrature bideniane, ma appena fuori da Washington il suo nome è sconosciuto. William Burns, il diplomatico più alto in grado è, appunto, il diplomatico più alto in grado, gran conoscitore di cose russe e tecnico di Foggy Bottom, non una replica dell’immagine che Obama vuole dare a un’Amministrazione che dovrà portare le truppe fuori dall’Afghanistan, contenere (e possibilmente affrontare) la minaccia nucleare iraniana, dovrà tenere il filo della diplomazia economica con l’Europa e, assieme al Pentagono (altro dipartimento che s’appresta a una rivoluzione), gestire la transizione delle attenzioni diplomatiche al quadrante asiatico, così come previsto dai dettami dell’Obama di primo mandato. In questo senso qualcuno fa il nome di Jon Huntsman, repubblicano ultramoderato già cenerentola delle primarie e ambasciatore americano a Pechino, uno che è stato facilmente superato in fama dalle tre figlie, le Huntsman Girls. Trovare l’uomo giusto per dare volto, sostanze e reputazione alla politica estera del secondo mandato non è facile e alla strutturale assenza di candidati di caratura clitoniana si aggiunge una sconfitta democratica al Congresso: Howard Berman, deputato che guida la commissione esteri alla Camera e nell’ombra ha gestito dossier importanti, dalle sanzioni all’Iran alla transizione in Egitto, non è stato rieletto e la defezione apre un ulteriore vuoto di potere democratico sugli affari esteri. C’è chi sostiene che toccherà a lui il posto di ambasciatore al Palazzo di vetro se Rice salirà al vertice di Fogy Bottom.
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