Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/11/2012, a pag. 17, l'intervista di Alessandra Farkas a Paul Kennedy dal titolo " Il nuovo mandato sarà neo-isolazionista come il primo Roosevelt ".


Alessandra Farkas Paul Kennedy
Paul Kennedy immagina i prossimi quattro anni di Obama come quelli di Roosevelt tra il 1936 e il 1941. Quelli, insomma, dell'isolazionismo. Se l'America avesse continuato su quella strada, l'Europa sarebbe finita dritta nelle mani di comunisti e nazisti. Un disastro. Ringraziamo l'imperatore Hirohito che, col suo gesto inconsulto, bombardò Pearl Harbor scatenando la reazione degli Usa.
Quattro anni alla Roosevelt, oggi, che cosa significherebbero? Il trionfo totale dell'islamismo con la fine delle democrazie occidentali.
Ecco l'intervista:
NEW YORK — «La politica estera dell"'Obama 2" sarà ancora più indecisa e latitante. Considerati i grandi punti di forza dell'America e la debolezza intrinseca di Cina, Russia, Iran e dei mullah musulmani, ciò non è necessariamente un male. Gli americani non devono essere sempre in prima linea: meglio restare in panchina muti e tranquilli a curarsi le ferite e riparare il Paese». Parla Paul Kennedy, «Dilworth Professor» di Storia alla prestigiosa Yale University e autore di classici quali «Ascesa e declino delle grandi potenze» e dl parlamento dell'uomo», uno degli storici più rispettati e celebri del mondo. «Penso che l'Obama dei prossimi quattro anni sarà come il Roosevelt tra il 1936 e il 1941», spiega Kennedy, «si concentrerà solo sui problemi interni: economia, disoccupazione, sanità, scuole e infrastrutture, avvitando il Paese su se stesso. Più che isolazionismo la chiamerei medicina necessaria e comunque l'Europa sta facendo lo stesso». Che cosa intende dire? «L'Europa appare disintegrata, agitata, introversa e senza alcuna voglia di immischiarsi nei problemi altrui. Ma anche se il vecchio continente l'ha lasciata sola, l'America è in una botte di ferro grazie alle sue considerevoli risorse agricole, umane e tecnologiche e all'eccezionale e propizia posizione geopolitica. Mentre la Cina condivide molti confini con altri Stati, gli unici vicini di casa degli Stati Uniti sono l'amico Canada e il debole Messico: 6.000 miglia la separano dalle zone calde dell' Asia Orientale e 4.000 dal sempre più instabile Medio Oriente. Considerando tutti questi aspetti, perché mai gli Stati Uniti dovrebbero precipitarsi in giro per il mondo? Perché non starsene tranquilli per un po' come fece Roosevelt?» Secondo molti la minaccia nucleare iraniana ha bisogno di risposte immediate. «Dai rapporti dei servizi segreti americani e israeliani Obama ha dedotto che Teheran non è ancora vicina all'atomica. Se ci fosse un attacco contro Israele, Obama potrebbe invocare il War Powers Act come fece Nixon. Ma secondo la Costituzione Usa solo il Senato può legittimare la guerra. E comunque Obama non è un amico particolarmente affiatato di Israele e non vuole combattere per lo Stato ebraico che considera un enorme e increscioso peso per l'America. Desidera disimpegnarsi dal Medio Oriente per due motivi: la fine della dipendenza Usa dal petrolio arabo e l'indifferenza degli ispanici, ormai primo gruppo demografico, per la sorte di Israele». Questo disimpegno renderà Israele ancora più vulnerabile nella regione? «E il timore di molti israeliani. Ma i più avveduti di loro, tra cui il presidente Shimon Peres, temono soprattutto il boom demografico degli arabi, il doppio rispetto a quello dello Stato ebraico: una minaccia assai maggiore del nucleare iraniano che li spinge a battersi per la soluzione dei due Stati e il ritiro immediato degli insediamenti più recenti. Anche qui Obama lascerà che sia Israele a trovare la soluzione del problema». Il Congresso non esiterebbe un attimo a difendere Israele. «Con quale sistema offensivo? Missili cruise inviati dai sottomarini nel Golfo Persico? Può darsi. Ma l'elite militare Usa che incontro al Centro per la Sicurezza Internazionale da me diretto a Yale è cauta. Non vede l'ora di porre fine al disastro in Medio Oriente e dubita dell'efficienza dell'esercito americano attuale». Le forze armate americane non restano le prime al mondo? «La marina è quasi interamente dispiegata in Cina, l'aviazione è nel caos, l'esercito e i Marine vogliono solo evitare un'altra guerra in Asia e si stanno indirizzando verso tecnologie prive di esseri umani come i droni. Potrà Obama continuare a ignorare chi, in patria e all'estero, gli chiede un intervento in Siria? «La sua politica del disimpegno e della neutralità nei confronti del regime è destinata a continuare. Obama affibbierà il dossier Siria alla Tur *** chia o all'Onu dove non avrà alcuna chance di successo visto che Putin, eterna spina nel fianco dell'America, e Pechino gli impediranno qualsiasi misura ragionevole al Consiglio di Sicurezza Onu, che Washington ormai considera una scatola vuota». Il presidente Obama ha parlato più volte di uno spostamento degli interessi Usa nel Pacifico e nell' Estremo Oriente. «Ma è il primo a sapere che sulle ceneri del bipolarismo della guerra fredda è sorto un mondo multipolare di 5 o 6 grandi potenze, proprio come ai tempi di Bismarck, che non prende più ordini dall'America. Cina, India e Brasile non gradiscono la leadership dell'America e gli americani sono i primi a non volere più tale responsabilità, anche se durante la campagna elettorale Obama è stato costretto a ripetere all'infinito quel mantra». Che cosa serve all'America per tornare a svolgere un ruolo chiave? «Perché non ammettere che la prima potenza al mondo è costituzionalmente inadeguata e imperfetta quando si tratta di politica estera? Ciò cui stiamo assistendo oggi, è la paralisi dell'America nel prendere difficili decisioni: una conseguenza dell'avere, nel 21 secolo, una forma di governo stile fine 800. L'amministrazione è immobilizzata in tutte le direzioni da lobbisti, gruppi d'interesse e sottogruppi etnico-religiosi. Quello che nel 178o poteva essere un valido contratto tra 13 nazioni diffidenti, non è più un modello vantaggioso in un mondo di politiche internazionali mutevoli come quello di oggi. Non a caso la maggior parte delle democrazie mondiali hanno adottato una forma di governo parlamentare invece che presidenziale».
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