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Il Giornale - Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
08.11.2012 Elezioni Usa, commenti sul risultato
di Paolo Guzzanti, Fiamma Nirenstein, Mattia Ferraresi, Gianni Riotta

Testata:Il Giornale - Il Foglio - La Stampa
Autore: Paolo Guzzanti - Fiamma Nirenstein - Mattia Ferraresi -Gianni Riotta
Titolo: «Quelle bugie italiane sull'orco - È vero amore o estasi da trionfo? - Analisi te-l’avevo-detto di una sconfitta - Barack vince grazie al mago del baseball»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 08/11/2012, a pag. 1-7, l'articolo di Paolo Guzzanti dal titolo " Quelle bugie italiane sull'«orco» ",preceduto dal nostro commento, a pag. 4, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " È vero amore o estasi da trionfo? ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " Analisi te-l’avevo-detto di una sconfitta ". Dalla STAMPA, a pag. 1- 11, l'articolo di Gianni Riotta dal titolo " Barack vince grazie al mago del baseball  ".
Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Paolo Guzzanti : " Quelle bugie italiane sull'«orco» "


Paolo Guzzanti                


Mitt Romney

Mitt Romney è stato dipinto anche come candidato di un partito fascista (Harold Bloom sulla Stampa). Ricordiamo agli smemorati demagoghi che lo Stato della Massachusetts - Romney governatore- è stato il primo ad approvare una legge che legalizza i matrimoni gay. Una delle più grosse menzogne omissive dei nostri media nella campagna elettorale Usa.
Ecco l'articolo:

Eva bene, nulla da di­re: Obama ha vinto fra gli applausi gene­rali anzi mondiali. In Europa la media di coloro che tifavano per lui era all’incir­ca del novantasei per cento e dunque, a elezioni concluse, tutti vissero felici e conten­ti ( speriamo) a comin­ciare dagli america­ni. I quali america­ni, però, pur con­segnando a Oba­ma la vittoria e la Casa Bianca si so­no spaccati a metà: il presidente vince, sì, ma sul filo di lana quanto al voto complessivo. Non sto mettendo in discussione la so­lidità della vittoria ma richia­mando l’attenzione su un pun­to: se è vero che Obama ha vin­to, è anche vero che poco me­no di un americano su due vole­va invece il suo antagonista Romney. Hanno votato per Romney a quanto pare quasi tutti gli elettori maschi e bian­chi, mentre parte delle donne, i latinos , gli asiatici, gli afroa­mericani e persino i russi han­no votato per Obama il quale aveva al suo soldo uno stuolo di scrittori e gente di te­atro che l’hanno aiutato a isolare e ingigantire le famose gaffes del­l’a­vversario Romney come quan­do questi disse che si era fatto spe­dire interi schedari di donne, in­tendendo i curricula.
Mitt Romney, che è ottimo am­ministratore del suo Stato, che è un bravo uomo d’affari, un bravo padre di famiglia di una famiglia stucchevolmente tradizionale, non ha nel suo portafoglio bravi sceneggiatori e con lui non si schierava il mondo intellettuale di New York, di San Francisco o di Los Angeles, ma i rudi americani fieri di essere americani. Il punto cui voglio arrivare è: se, con tutti questi handicap e difetti, Mitt Romney ha conquistato il cuore di metà degli elettori, come mai ce lo hanno descritto come un roz­zo perdente da quattro soldi, un campagnolo che non incanta nes­suno?
Mi riferisco a tutti, o quasi, i giornalisti europei, italiani com­presi, che conoscono l’America, scrivono dell’America,e ti spiega­no gli anfratti oscuri della politica americana. Non faccio nomi per­ché molti di loro sono miei amici e colleghi di sicuro successo, ma costoro hanno dato finché hanno potuto un’immagine cretina e volgare del candidato repubblica­no­che poi si è visto che non corri­sponde all’uomo in carne ed os­sa. Lo si è visto specialmente al primo dibattito quando Mitt Romney si è mangiato Obama battendolo clamorosamente. Certo, poi Obama ha recuperato in parte e, addestrato come un pu­gile suonato, ha saputo tener te­sta nei successivi due incontri e segnare delle vittorie ai punti. Ma l’effetto del primo dibattito ha d­i­mostrato che Romney era ed è un uomo preparato, garbato, civile, colto, con le idee chiare e capace di farle valere. Non è uno di quei matti del «Tea Party», un movi­mento ormai in disarmo, perché è un centrista moderato con la te­sta sulle spalle. Non è un «cow boy», non è un texano arrogante, è un borghese fiero del suo Paese e della sua classe sociale, che è la
classe di chi crea ricchezza e non di chi la consuma: da qui la sua in­feli­ce battuta sugli americani nul­lafacenti che vogliono vivere mantenuti dallo Stato e dalla bu­rocrazia, come accade in Europa e specialmente in Italia. E infatti, «Non vogliamo finire come l’Ita­lia » è stato uno dei suoi più sfer­zanti e vincenti motti. Ma, ancora una volta, non voglio dire che Romney sarebbe stato migliore di Obama anche se lo penso. Vo­glio invece sottolineare quanto sia stato goffo, violento e subdolo il modo con cui tutti i nostri croni­sti «liberal», europei e italiani, hanno tentato fino all’ultimo di ri­filarci il cliché dell’americano rozzo, insopportabile, volgare, gaffeur, villano. Suvvia, che con­fessino: è stata un’operazione spocchiosa e mediatica. Ieri not­te ero su una rete pubblica e assi­stevo divertito ma anche irritato al candore con cui le inviate par­teggiavano apertamente per il candidato vincente. Era diverten­te, ma anche patetico e non pro­fessionale. Era supponente, in­fantile, inappropriato. La stessa cosa accadde molti anni fa quan­do l’ex attore cinematografico Ro­nald Reagan si presentò come candidato repubblicano. Fu de­scritto non solo in Italia come un campione della stupidità ameri­cana e della violenza, un vero fa­scista, un cow boy manesco e cre­tino. E fu uno dei più grandi presi­denti della storia americana e un protagonista del ventesimo seco­lo.
Il fatto è che il giornalismo «li­beral » dà per scontato che essere di sinistra significhi essere buo­no ed essere di destra, o repubbli­cano, in America significhi esse­re sia malvagio che imbecille, ma­teriale buono per la derisione. Poi magari si scopre che le cose non stanno proprio così, che il di­vo democratico John Kennedy fu quello che aprì l’infernale capito­lo della guerra nel Vietnam, e che fu il bieco pagliaccio di destra Ri­chard Nixon a chiudere quella guerra e aprire alla Cina. Vecchie storie, vecchia storia, lo so. Ma i pregiudizi restano sempre quelli e con i pregiudizi non si scrivono pagine sempre limpide né di sto­ria, né di giornalismo.

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " È vero amore o estasi da trionfo? "


Fiamma Nirenstein              Michelle e Barack Obama

Gentile Michelle, le fa davve­ro ­piacere essere il prolun­gamento, il rigonfiamento della vittoria di suo marito? Le piace che le dichiari il suo amour foux proprio quando proclama la sua soddisfazione per essere di nuo­vo il presidente Usa? Che confu­sione, chi è l’oggetto del deside­rio, il potere o la moglie? Glielo chieda.A me pare che l’amore di­venti qui oggetto di utilità, e lo provaquando, coninconsapevo­le cinismo, gioisce perché l’Ame­rica, dice, si è innamorata come lui di Michelle proprio in campa­gna elettorale, e così la moglie, piccolo particolare, gli ha porta­to un sacco di voti. Gentile Mi­chelle, è così bello che un uomo ti dica «non ti ho mai amato così tanto» proprio mentre è al massi­mo della soddisfazione anche perchè gli sei stata utile? Le piace che l’acme della sua politica di­venti quello del vostro rapporto? Bella forza. Mi piace che marito e moglie si amino, ma mi piace che lo sentano nei momenti in cui la vita tace, è troppo facile quando l’affetto personale diventa l’og­getto collaterale del trionfo. E poi, Michelle, come ha sopporta­to lo spot in cui una ragazzina di­ce: «La mia “prima volta”deve es­sere qualcosa di speciale, con una persona unica, che sappia ca­pirmi e rispondere ai miei deside­ri... »? Questa del primo voto fem­minile inteso come accoppia­mento col presidente è un tradi­mento concettuale per lei e un uso della sessualità femminile degno di Eros e priapo di Gadda, quando parlava del fascino eroti­co del capo come strumento di potere. Ma parlava di Mussolini.
www.fiammanirenstein.com

Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : " Analisi te-l’avevo-detto di una sconfitta "


Mattia Ferraresi         
Ross Douthat

New York. I repubblicani si sono svegliati ieri mattina con un cerchio alla testa e una sconfitta da elaborare. La mole di dati che arrivano dalle urne precipita in due interpretazioni possibili: la prima dice che Mitt Romney è stato spazzato via da un Obama gravemente mutilato per via di una sfortunata serie di circostanze sfavorevoli, dalla percezione esagerata di un’economia in ripresa alla campagna denigratoria contro lo sfidante-banchiere fino ad arrivare a Sandy e al voto delle minoranze saldamente in mano al presidente. Tutta colpa di una congiuntura disgraziata, insomma. La seconda parla invece di un’afasia strutturale del Partito repubblicano, un’incapacità di trasformare le idee in un progetto. “Quando succede una volta è soltanto una vittoria, quando succede due volte è una ridefinizione”, scrive il conservatore Ross Douthat sul New York Times, che vede il Partito democratico nella fase del raccolto di una semina ideologica iniziata decenni fa da gente come George McGovern, sfidante democratico sontuosamente sconfitto da Richard Nixon nel 1972. La dinamica politica assomiglia a quella che, a parti rovesciate, ha portato i repubblicani dalla sconfitta di Barry Goldwater nel 1964 all’affermazione di Ronald Reagan e all’età dell’oro repubblicana: ora che i conservatori hanno perso con un presidente democratico indebolito, “l’età di Reagan è ufficialmente finita. E la maggioranza di Obama è l’unica maggioranza che abbiamo”. Era stato quasi tutto pronosticato da osservatori come Sam Tanenhaus nel suo “The death of conservatism”, profilo ideale dell’agonia del Gop che trova il suo elemento complementare nelle ricognizioni demografiche, che registrano da tempo l’allargamento naturale della base democratica. Letto oggi, “The emerging democratic majority” di Ruy Teixeira è un racconto ante litteram della riconferma obamiana, con le minoranze in ascesa, l’erosione dell’America anglosassone e tutto il resto. Sulla disconnessione del Partito repubblicano dall’elettorato americano David Frum, ex speechwriter di George W. Bush, ha costruito il suo dissenso con l’establishment del partito, e domani pubblica un e-book in cui spiega il motivo della sconfitta di Romney: non è un instant book, ma un testo meditato nel tempo e sfornato per l’occasione. Geoffrey Kabaservice, autore di “Rule and Ruin”, una delle radiografie più approfondite del movimento conservatore e delle sue fratture, dice al Foglio che “la vittoria schiacciante di Obama è la cosa migliore che poteva succedere al Partito repubblicano, premesso che vincere era difficilissimo. Se Romney avesse perso di poco, i repubblicani potrebbero accampare scuse. Romney non è un leader carismatico, ma ha fatto la miglior campagna possibile con gli strumenti che aveva a disposizione, ha superato ampiamente la soglia della credibilità politica, ha raccolto un sacco di soldi e alla fine il dramma repubblicano consiste proprio nel non poter dire che non abbia fatto ciò che era in suo potere”. Il movimento conservatore, dice Kabaservice, è diventato un “monolite ideologico” che negli anni “ha marginalizzato qualunque corrente moderata che potesse favorire una dialettica interna al partito. Invece di chiedersi come poteva costruire il consenso, l’establishment si è chiesto come poteva essere più ortodosso, esclusivo, e anche l’atteggiamento nei confronti di Obama non ha pagato. Quando il senatore Mitch McConnell all’inizio del primo mandato diceva che Obama sarebbe stato un ‘one term president’ non ha fatto soltanto una previsione sbagliata, ma ha sintetizzato l’agenda di un partito che non è disposto a cambiare, a fare accordi. Obama è stato abile nel rappresentare il Gop come il partito del ‘no’ ma è il partito stesso che gli ha offerto gli elementi sui quali costruire questa rappresentazione”. Per Kabaservice molto della vittoria di Obama va ricercato nell’assenza di una proposta alternativa credibile: “La disoccupazione è alta, la ripresa economica lenta, la politica estera di Obama è insoddisfacente per i liberal, il paese è più povero di quattro anni fa, l’affluenza alle urne è diminuita: in teoria c’erano tutte le condizioni per una grande vittoria repubblicana. Se il partito avrà il coraggio di non cercare i motivi della sconfitta soltanto nel recinto di questa circostanza elettorale, ma accetterà di andare alla radice dell’incapacità di creare consenso, ne potrà venire fuori una riflessione utile. Altrimenti alla sconfitta dovrà farci l’abitudine”.

La STAMPA - Gianni Riotta : " Barack vince grazie al mago del baseball "


Gianni Riotta                        Nate Silver

Alle sei del mattino, dal buio seminterrato che ospita la redazione del canale tv Fox News, azzimato in un cappotto nuovo, esce sul marciapiede di fronte al leggendario teatro Radio City Music Hall Dick Morris, consigliere repubblicano, guru di Clinton, ora commentatore della rete conservatrice. E’ pensieroso, Morris, ha ripetuto tutta notte ai microfoni «Gli elettori han capito bene, il presidente Obama non ha messaggio, né idee e neppure una spiegazione di quel che ha fatto per quattro anni. Romney vincerà le elezioni con 325 voti elettorali, Obama 213». Sui teleschermi della buia newsroom, rossi e blu come bandiere, lampeggiano i veri risultati: 303 Obama, 206 Romney, i 29 punti della Florida, inutili, in attesa.

A chi gli chiede ragione della sconfitta imprevista, Morris risponde con il sorriso di chi le ha viste tutte, «things change», le cose cambiano, e non sa forse che è il titolo di una deliziosa commedia di David Mamet sul corto circuito Potere&Caso. Come Morris, era certa del trionfo di Mitt Romney tutta la vecchia e intelligente guardia repubblicana. In diretta su Fox Karl Rove, l’uomo che portò per due volte alla vittoria G.W. Bush, ha imprecato sull’Ohio ad Obama, come tifoso al rigore negato. Alla Cnn, Peggy Noonan, soave scrittrice dei discorsi migliori di Reagan, «it’s morning in America», si fa giorno America, se la prende un po’ con Romney un po’ col destino. George Will, analista raziocinante dei conservatori, dava il successo a Romney 321 a 217.

Che cosa è successo? E perché sul blog del New York Times, giornale liberal accusato di non avere il polso del paese, il blogger Nate Silver azzecca la previsione in 50 Stati su 50, dopo il già ottimo 49 a 50 del 2008? Per capire perché, dobbiamo tornare a primavera, quando - come conferma una ricostruzione del Wall Street Journal - il consigliere di Barack Obama, Jim Messina, si presenta al presidente e, facendo scattare dal computer una visualizzazione dati (attenti al linguaggio!, non una banale videografica, una visualizzazione dati, realtà che si fa immagini da guardare, Big Data), gli propone una strategia rivoluzionaria. Anziché attendere, come da tradizione, le Convenzioni per poi attaccare il rivale repubblicano, Messina persuade Obama a investire subito ogni risorsa in spot tv che accusino Romney di avere distrutto, alla testa della finanziaria Bain, posti di lavoro. L’idea di indicare Romney come un moderato travestito da estremista per ottenere i voti di destra è invece scartata, grazie all’ex presidente Clinton: «magari la gente crede sia davvero moderato no?».

Mentre Romney non ha soldi per replicare agli attacchi democratici (la legge gli vieta di usare durante le primarie i fondi accantonati per il voto generale) Obama, a rischio di restare con le casse vuote a settembre, ne definisce la figura davanti agli elettori. Benché Romney vinca poi il primo dibattito tv, faccia una buona campagna e sia votato dalla stragrande maggioranza degli elettori bianchi, il blitz di Messina riesce. Tanti elettori vedranno Romney come disegnato da Obama e «il fiuto» degli esperti repubblicani si asciugherà, come il naso di un cane da caccia incimurrito.

Perché Obama e Messina scommettono la Casa Bianca su un azzardo? Per capirlo dobbiamo lasciare Washington e volare a Chicago, dove, in un edificio anonimo, sorge il centro Big Data del presidente. Qui ragazzini computeristi «nerd» e server giganti che ronzano operosi vagliano i dati di milioni di americani, gusti privati, opinioni politiche, idee, opinioni, pregiudizi ed elaborano il messaggio politico a partire dalla loro realtà. Contea per contea, Stato per Stato, i sondaggisti costruiscono poi modelli per vincere, sommando le varie comunità e valutando le scelte di voto. Perfino i 700.000 volontari del 2008 sono intervistati e schedati, uno a uno, per capire cosa funziona e cosa no: Big Data.

Lo stesso lavoro che Jim Messina fa a Washington e i ragazzi dello scantinato a Chicago, occupa a New York le giornate dell’eccentrico matematico Nate Silver, 34 anni, figlio di un politologo e una militante comunista, statistico che s’è fatto le ossa al blog sportivo Baseball Prospectus e ora interpreta sondaggi e Big Data per il New York Times, sul blog www.fivethirtyeight. Irriso dagli analisti tradizionali, «dopo le elezioni sarai disoccupato!», Silver assicura che guardare al voto nazionale è ormai inutile, tanto il Paese è diviso, serve piuttosto fare somme locali dei campioni di comunità. E calcola secchione: la «new coalition» di Obama è composta da giovani, minoranze, laureati, soprattutto donne, dottori di ricerca, città; Romney prevarrà tra gli operai bianchi (tranne che in Ohio grazie al piano auto), tra chi guadagna oltre 50 o 100 mila dollari l’anno, nella comunità finanziaria, tra i laureati maschi, nelle campagne e nei sobborghi. Silver stima, e Messina e i Big Data di Chicago si mobilitano di conseguenza. Dove la «new coalition» non è abbastanza numerosa, Obama parla ai sindacati, dall’Iowa al Wisconsin.

Nell’anticipare la vittoria di Obama, Silver identifica la vera ragione dell’azzardo vincente di Messina. Il presidente è debole, la Camera resta ai repubblicani, i 600 miliardi di tagli di spesa dell’«abisso fiscale» scattano come ghigliottina a Capodanno, mettendo a rischio la ripresa economica. I democratici guadagnano però nella nuova America, votati da 9 afroamericani, 7 ispanici e 6,6 asiatici su 10. Messina conosce, via Chicago, i dati di Silver e scommette che più immigrati andranno al voto, esattamente il 28%. Così è martedì, troppi nuovi cittadini alle urne contro i repubblicani. Negli Stati dove la coalizione multietnica non basta, Virginia, Colorado, Nevada, Florida, Obama fa leva sulla paura di perdere il lavoro, e somma all’80% delle minoranze il 40% dei bianchi: pochimabastano,Big Data non mente.

Il National Journal calcola i dati della fragilità del fronte Obama, primo presidente da Andrew Jackson, 1829-1837, a rivincere con una minor percentuale di voto popolare. Nel 2008 i bianchi diedero al repubblicano McCain +12% su Obama, martedì +20% a Romney. Meno bianchi in media han votato il vittorioso Obama dello sconfitto 2004 Kerry. I Big Data di Messina riportano Obama alla Casa Bianca, ma governare nella sfiducia del ceto medio sarà difficile. La riforma sanitaria, ad esempio, piace a 3/5 degli ispanici, 3/4 degli afroamericani ma 3/5 dei bianchi vogliono cancellarla subito.

Romney avrebbe dovuto ascoltare meno gli arguti intellettuali conservatori e - come faceva ai tempi di Bain masticar numeri. Non basta ai repubblicani vincere un record, 3/5 del voto bianco, per avere la Casa Bianca. Nessun candidato Gop dal 1988 supera il 50,8% del voto popolare, una vasca di consensi che si vuota. Nel 2004, quando i Big Data debuttavano, per tutto il martedì elettorale i sondaggi indicavano Kerry vincente. Vinse Bush, perché l’alacre Rove mobilitò a sorpresa la base cristiano-fondamentalista, che era fuori dal campione. In otto anni il campione e l’informatica si sono raffinati, i Silver son cresciuti, il colpo gobbo di Rove è ormai impossibile. O i repubblicani imparano a riconoscere dai numeri la nuova l’America, parlando alle minoranze etniche senza durezze, alle donne senza confondere aborto e contraccezione, o finiranno nell’angolo come i democratici dal 1968 al 1992.

Nell’alba grigia della sconfitta Morris non perde il sorriso ma medita: ai repubblicani servono nuovi numeri, nuove idee, nuovi leader. Come ad Obama serve nuova capacità di dialogare col Congresso diviso, se non vuol finire presidente vincente e dimezzato. Tutti guardano con reverenza alla nuova macchina della verità, i Big Data, capaci di svelare il Dna politico del Paese a chiunque abbia l’umiltà e l’intelligenza di studiarli. In America oggi, in Italia domani.

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