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La Repubblica Rassegna Stampa
05.11.2012 Un articolo sul Libano. Israele c'entra qualcosa ?
Secondo Tahar Ben Jelloun sì

Testata: La Repubblica
Data: 05 novembre 2012
Pagina: 43
Autore: Tahar Ben Jelloun
Titolo: «Beirut. Leggere romanzi nella capitale dell'eterna violenza»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 05/11/2012, a pag. 43, l'articolo di Tahar Ben Jelloun dal titolo "Beirut. Leggere romanzi nella capitale dell'eterna violenza".


Tahar Ben Jelloun

Un articolo sul Libano, su Beirut, per la precisione. Ci si aspetta di leggere notizie su Hezbollah, sul fatto che rifornisca di armi  Bashar al Assad, in Siria, per conto dell'Iran. Oppure, visto che nel titolo si parla di 'romanzi', di cultura.
In parte è così, ma che articolo sarebbe senza un riferimento negativo ad Israele? Ormai lo Stato ebraico è come il prezzemolo quando si tratta di Medio Oriente. Non c'entra nulla con il Libano, non ci sono stati scontri al confine, eppure Tahar Ben Jelloun sente il dovere di citarlo : "
Un intellettuale di Beirut ha così riassunto la situazione: «Il Libano non conoscerà la pace se prima non si saranno risolti due grandi conflitti: il più urgente è quello della Siria; il secondo, quello della Palestina.» (...) Zyad Meddouk, creatore di una radio francofona a Gaza, è riuscito ad arrivare a Beirut dopo un viaggio di ben 48 ore! E ha parlato dell’impegno dei giovani palestinesi a Gaza, della loro volontà di resistere, di opporre la cultura all’occupazione e all’ingiustizia. ". Ovviamente Israele entra nel discorso solo per mostrare la sua presunta natura negativa: occupazione, viaggio disagevole per l'intellettuale in viaggio da Gaza, repressione dei giovani a Gaza.
Facile descrivere le difficoltà di chi parte da Gaza per andare in Libano, sarebbe altrettanto facile specificare il motivo. Come mai il confine Gaza/Israele è sigillato ?
Tahar Ben Jelloun saprebbe descrivere quali effetti hanno sulla popolazione israeliana i razzi qassam che quotidianamente vengono lanciati dalla Striscia di Gaza? Non è Israele l'oppressore della popolazione di Gaza, ma Hamas.
Ecco il pezzo:

Beirut è una città sorprendente. Da 38 anni, dall’inizio della guerra civile, non ha mai smesso di dimostrare fino a che punto qui la vita è più forte della morte. Una città sempre in movimento, dove tutto è trasformazione e speranza. Venerdì 19 ottobre Wissam el-Hassan, capo dei servizi d’informazione delle forze di sicurezza interne, è stato vittima di un attentato: un omicidio mirato, in pieno centro della città. Otto morti e 80 feriti. La situazione rischiava di degenerare in una serie di rappresaglie, in una nuova guerra civile. Ma ancora una volta la vita ha avuto il sopravvento. Arrivando in questa città ci si chiede: «Dove mai si nasconde la morte?». All’uscita dell’aeroporto, efficientissimo e immenso – una centrale del lusso dov’è esposta, mi spiega l’autista, una superba Ferrari – si imbocca la “ banlieue sud”: la via più rapida per arrivare alla nostra destinazione, passando per i quartieri di Hezbollah. Se non l’avessi saputo, nulla mi avrebbe fatto notare l’appartenenza religiosa di questo quartiere povero, di gente apparentemente modesta. In passato la strada era costellata da grandi poster con ritratti di Moussa Sadr (il leader sciita scomparso mentre si recava in Libia) di Khomeini e di altri capi sciiti. Sapevamo di trovarci in una zona in mano a Hezbollah, il partito sostenuto dall’Iran e dalla Siria: un vero esercito strutturato e organizzato, con almeno 3000 soldati. Oggi quei ritratti sono scomparsi. Mi dicono che li hanno tolti per non spaventare i turisti. Comunque sia, da quando è iniziata la guerra in Siria quel partito vive una situazione tutt’altro che confortevole, preoccupato anche per il suo futuro – vista tra l’altro la sua partecipazione al governo diretto dal sunnita Mikati, che una parte della classe politica ritiene responsabile dell’assassi- nio di Wissam el-Hassan, per non aver garantito la sua sicurezza. Quest’Oriente è assai complicato, come disse a suo tempo il generale De Gaulle: «Non lo si può affrontare con idee semplici » . L’equilibrio del Libano è precario. In qualsiasi momento tutto può cambiare, col rischio che riesploda la guerra tra clan. Le misure di sicurezza sono ben visibili in città. Mezzi blindati, soldati armati pronti a reagire a qualunque attacco. Come al solito, direi. Il Paese vive in una tensione permanente, e fintanto che la sorte della Siria non sarà risolta continuerà a temere gli effetti collaterali di questa guerra che ancora non si osa definire «civile ». La Siria ha cercato varie volte, soprattutto passando per Tripoli, di coinvolgere il Libano nella sua guerra. Bashar al Assad non aveva forse detto che qualora fosse stato attaccato avrebbe incendiato l’intera regione? L’editoriale di Nagib Aoun sul quotidiano francofono L’Orient Le Jourdel 29 ottobre si conclude con la seguente affermazione: «Sapete a che giocavano i bambini nei quartieri miserabili di Tripoli, durante la festa di Al Adha? Giocavano a fare i caïd, armati fino ai denti, gli uni per ammazzare sciiti e alawiti, gli altri per massacrare sunniti. Se non stiamo bene attenti, il servizio televisivo che ha mostrato quelle immagini terrificanti potrebbe rivelarsi premonitore». In Libano convivono 18 comunità religiose, di cui quasi il 60% musulmane (sciiti, sunniti, drusi, ismailiti, alawiti) e il 39% cristiane (cattolici e ortodossi). Bisogna pur trovare un consenso perché tutto questo possa funzionare. E’ vero che il Libano è retto da una «democrazia consensuale», con un presidente della Repubblica cristiano, un primo ministro sunnita e un capo del parlamento sciita. Ma nonostante questa spartizione, in qualsiasi momento il Paese rischia di esplodere. E’ una realtà evidente, che tutti riconoscono. L’attentato del 19 ottobre ha rischiato di generare nuovi scontri, anche perché si è generalmente convinti che l’ordine sia venuto da Damasco. Tutti sanno che qui la Siria ha i suoi “servitori”, pronti ad agire. Il successo dell’attentato contro l’uomo più protetto del Libano, che aveva appena dimostrato il coinvolgimento diretto della Siria nell’assassinio di Rafik Hariri, è un’ulteriore prova della presenza per procura di Damasco in questo Paese. Gli Hezbollah libanesi si trovano in una posizione critica, anche se si sentono più vicini all’Iran, considerato il “cuore dello sciismo”. Il Movimento del 14 marzo, nato dalla rabbia esplosa dopo l’assassinio di Rafik Hariri, nel febbraio 2005, formato sia da sunniti che da cristiani, ha chiesto le dimissioni del governo in cui siedono ministri appartenenti a quel partito religioso. A 7 giorni dalla morte di Wissam el-Hassan, nel centro della città gruppi di giovani del Movimento del 14 marzo hanno formato una catena umana da Place des Martyrs fino a Place Riad el-Sohl, innalzando bandiere libanesi e gridando slogan per chiedere la caduta del governo. Ma quella stessa sera il padre della vittima ha dichiarato alla televisione: «Non penso che il governo sia responsabile della morte di mio figlio». Un intellettuale di Beirut ha così riassunto la situazione: «Il Libano non conoscerà la pace se prima non si saranno risolti due grandi conflitti: il più urgente è quello della Siria; il secondo, quello della Palestina.» La guerra civile, durata ben 15 anni (dal 1975 al 1990) è ancora nella memoria di tutti. Le ferite sono tuttora aperte. Il Paese si ricostruisce con l’energia della speranza viva. Il centro di Beirut è nuovamente occupato da boutique di gran lusso, a fianco di palazzi sventrati, di case in rovina, di edifici mai ultimati: tutte le marche sono rappresentate, nei luoghi stessi in cui migliaia di libanesi sono caduti sotto le pallottole dei cecchini. Tra le case mai ricostruite ce n’è una chiamata la Maison Jaune (la Casa gialla) che rappresenta il luogo da cui partiva la morte, una morte cieca, che non ce l’aveva in particolare con nessuno, ma colpiva semplicemente chi aveva la sfortuna di trovarsi a tiro dei cecchini. La Maison Jaune, oggi chiusa, è all’incrocio tra le strade della città e quelle del destino. E’ in questo clima, nonostante la tensione politica e il rischio di esplosioni violente, che il Salone del libro francofono ha aperto le sue porte. Per i libanesi è stata una sfida da raccogliere, a pochi giorni dall’inumazione di Wissam el-Hassan, nel momento in cui in alcuni quartieri si sentivano risuonare colpi d’arma da fuoco. Molti studenti sono arrivati dall’Egitto, dall’Iraq, dalla Siria e da ogni parte del Libano, per proclamare il vincitore del Premio Goncourt d’Oriente. Gli studenti palestinesi non hanno potuto lasciare Gaza; solo un loro docente, Zyad Meddouk, creatore di una radio francofona a Gaza, è riuscito ad arrivare a Beirut dopo un viaggio di ben 48 ore! E ha parlato dell’impegno dei giovani palestinesi a Gaza, della loro volontà di resistere, di opporre la cultura all’occupazione e all’ingiustizia. Quest’anno gli studenti hanno premiato il romanzo di Mathias Enard Rue des Voleurs (Via dei ladri) , sui temi dell’esilio, del fanatismo, della primavera araba e dell’illusoria ideologia religiosa. La stampa ne ha dato conto, attribuendo a quest’evento un significato simbolico. L’Accademia Goncourt si è trasferita a Beirut per proclamare l’elenco dei finalisti del Prix Goncourt, che sarà consegnato a Parigi il 7 novembre. Tutto si è svolto in un clima sereno, percepito dai libanesi come un segno di solidarietà, in questi tempi di tensione e di guerra ai loro confini. E’ raro che una città sappia adottare a tal punto la morte e la violenza in un tessuto di vita, di pace precaria, dove la resistenza fa uso di ogni mezzo, il più manifesto dei quali è la cultura. Al momento di lasciare questa città ho visto una locandina: « Il 28 novembre Sting canta a Beirut».

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