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Il Foglio Rassegna Stampa
03.11.2012 Mitt Romney in 3 commenti e analisi
di Giulio meotti, Mattia Ferraresi + Editoriale

Testata: Il Foglio
Data: 03 novembre 2012
Pagina: 3
Autore: Giulio Meotti, Mattia Ferraresi, Editoriale
Titolo: «Lo swing state, quanto kosher serve a Romney per vincere le elezioni-Meglio manager che messia-Sull'Italia ha ragione Romney»

Sul FOGLIO di oggi, 03/11/2012, alle pagine 2/V/3, commenti  e analisi su Mitt Romney. Giulio Meotti, Mattia Ferraresi e un editoriale sulle dichiarazioni del candidato repubblicano sull'Italia.
Ecco i 3 articoli:

Giulio Meotti: " Lo swing state, quanto kosher serve a Romney per vincere le elezioni"

 

 Roma. Il presidente Barack Obama è avanti agilmente nel voto ebraico in Florida 69 per cento contro il 25 dello sfidante repubblicano, Mitt Romney. Ma nel 2008 l’allora candidato democratico ottenne il 76 per cento di consensi. E su questa forbice di sei-sette punti si gioca la battaglia negli swing state. I repubblicani ci credono, anche a giudicare dalla quantità di denaro che Sheldon Adelson, il magnate ebreo dei casinò di Las Vegas, continua a pompare in Florida, Pennsylvania e Ohio. “Obama… Oy vey! Non ne avete abbastanza?”, recita una pubblicità. Un’altra: “Gli amici non consentono che gli amici siano bombardati”, in riferimento all’atomica iraniana e Israele. Se nel 2008 la Republican Jewish Coalition spese appena un milione di dollari contro Obama, stavolta ne ha investiti dieci. Eli Lake di Newsweek ha scritto che il voto ebraico è “lo stato swing di Romney”. “Nel 2008, Obama ha ottenuto fra il 74 e il 78 per cento del voto ebraico. Ma il 2012 potrebbe essere diverso”. Matt Brooks, a capo della Republican Jewish Coalition, pronostica un venti per cento di elettori indecisi, mentre un sondaggio Gallup vede Obama con il 68 per cento dei consensi contro il 25 di Romney. Sarebbe, al momento, il maggior numero di voti ebraici mai raccolti da un candidato repubblicano dal 1988. Intanto sono già arrivati i risultati dei voti degli 80mila americani che vivono in Israele: 85 per cento a favore di Romney, 14 per cento a Obama. Mai così basso l’indice di gradimento di un democratico, per giunta in carica. I repubblicani non si sognano certo di conquistare il voto ebraico americano, tradizionalmente liberal, legati alle battaglie dei diritti civili e contrari ai social values dei conservatori. Ma per dirla con Tevi Troy, advisor di Romney, “il voto ebraico si muove”. Si passa infatti dai repubblicani che ottennero un misero dieci per cento durante i mandati di Roosevelt e Truman a Ronald Reagan che ottenne addirittura il 38 per cento. La peggior crisi si ebbe nel 1992, quando un esponente dell’Amministrazione Bush esclamò: “F. the Jews, they didn’t vote for us anyway”. La probabile disaffezione degli ebrei verso Obama è stata ben espressa nella pagina delle opinioni del Wall Street Journal da Dan Senor: “Why Obama Is Losing the Jewish Vote”. Nel 2008 c’erano soltanto dei “rabbini per Obama”, oggi ci sono anche dei “rabbini per Romney”, anche se storici nomi della comunità ebraica americana, come l’ex capo del World Jewish Congress Edgar M. Bronfman e l’avvocato Alan Dershowitz, continuano a sostenere Obama. Un sondaggio della McLaughlin & Associates rivela che ben il 46 per cento degli ebrei americani starebbe pensando di votare un altro candidato, specie dopo la brutta figura dei Democratici sull’inserimento di Gerusalemme capitale d’Israele nella piattaforma programmatica. Romney punta a conquistare il trenta per cento dei loro voto, sufficiente a garantirgli una vittoria negli swing state. Nei giorni scorsi Ari Fleischer, l’ex portavoce di Bush, ha spiegato al quotidiano israeliano Haaretz: “Se Romney prende il 25-30 per cento del voto ebraico non ci sarà partita. John McCain ha preso il 22 per cento, Bush il 25, se Romney prende il 25 avrà la Florida e se arriva al 30 prende anche l’Ohio”. E chi prende l’Ohio vince. Resta da vedere quanto peserà la questione della sicurezza d’Israele, più che l’aborto o le tasse, nella mente degli elettori ebrei d’America. O per dirla con l’articolo appena apparso sul Wall Street Journal a firma di Ruth Wisse, la celebre studiosa di yiddish, “gli elettori non hanno necessariamente Israele in mente, ma per chi ce l’ha la scelta non è mai stata tanto chiara".

Mattia Ferraresi: " Meglio manager che messia "

 

Nel giro di quattro anni l’America ha ricalibrato i suoi desideri: prima voleva disperatamente un messia, ora chiede un amministratore delegato. Voleva un sacerdote che assolvesse da tutti i peccati dell’era Bush, ora cerca un tecnico che faccia la due diligence al paese e metta nero su bianco una strategia per uscire dalla depressione. Si è passati dalla palingenesi al management senza soluzione di continuità. Il verbo che riassume il desiderio dell’America che martedì va al voto è “deliver”, che sta per consegnare, mantenere le promesse, fare, ma anche partorire, e nell’ambito politico significa presentarsi con qualche risultato tangibile fra le mani. Non basta il “se non ci fossi stato io alla Casa Bianca staremmo anche peggio di così”. Non c’è tempo e non c’è denaro per scrutare l’orizzonte alla ricerca della giusta formula retorica, non ci si può permettere il lusso dell’elucubrazione ideale: tutti gli indizi dicono che il leader deve soltanto “deliver”, possibilmente in fretta. Se esistesse l’elettore americano medio, prenderebbe in mano il telefono e chiamerebbe il 911, il numero delle emergenze. In fondo, il voto di martedì non è che una chiamata d’emergenza. E quando la casa è in fiamme la cosa ragionevole da fare è chiamare chi è in grado di soccorrere, non chi racconta una storiella edificante per dare un po’ di sollievo nei minuti che separano dalla morte. Non c’è tempo, in queste elezioni, nemmeno per dare la colpa a qualcuno in particolare (o a tutti in generale). Soltanto per una minoranza degli americani è importante distinguere se l’anemia economica sia da attribuire all’insipienza di Barack Obama, al lassismo di George W. Bush, al “greed” di Wall Street, alle vacche grasse dell’era Clinton, a Keynes, a Von Hayek o al peccato originale. Il punto è uscirne “now!”, con il punto esclamativo che piace tanto a Paul Krugman. Un sondaggio Gallup spiega la gerarchia delle priorità degli elettori americani: al primo posto c’è l’occupazione, al secondo la fine della corruzione del governo federale, poi vengono la riduzione del debito, la lotta la terrorismo, la salvaguardia del welfare, il miglioramento del sistema educativo; il sondaggista informa però che pochissimi elettori citano spontaneamente la corruzione, ma tanti la segnalano come importante quando viene proposta come opzione. Per arrivare a una richiesta di andamento ideale bisogna scendere al settimo posto della classifica: “Ridefinire gli standard morali della nazione”, dopodiché si riprende con il sistema sanitario che dev’essere efficiente e accessibile, lo sblocco di un Congresso impantanato in zuffe di quartiere sulla pelle degli elettori, la riduzione delle rette universitarie. Soltanto il 21 per cento degli elettori considera “estremamente importante” aumentare le tasse per i ricchi. Gli americani chiedono che qualcuno risolva il problema, un esecutore che porti a casa un risultato, il come è un aspetto che si vedrà poi. Non c’è dubbio che il presidente ideale sia allo stesso tempo uomo di idee e di fatti, uno che sappia contemporaneamente discettare di virtù e abbassare la disoccupazione, ma i Roosevelt e i Reagan sono merce rara, e benché il ricordo dei grandi presidenti tenda all’oleografia anche loro hanno navigato nelle turbolenze delle rispettive basi elettorali. Prima che nell’offerta dei candidati, il cambiamento va cercato nella domanda degli elettori. Forse la scuola di Francoforte aveva ragione quando diceva che è l’offerta che determina la domanda, non il contrario, quindi se nel 2008 tutta l’America aveva negli occhi un non so che quando un senatore dell’Illinois relativamente sconosciuto saliva sul palco e squadernava sermoni ad altissimo tasso ideale, era facile lasciarsi avvincere proprio perché nella corsa alla Casa Bianca qualcuno prospettava con piglio sacerdotale una nuova età dell’oro. Il desiderio elettorale è un metallo duttile che un abile orafo può modellare a piacere, ma il vecchio adagio dice: attento a ciò che desideri. Così, in quattro anni di crisi globale, incertezza diffusa a tutti i livelli, debito ipertrofico, modelli sociali in via d’estinzione, politica economica incerta e politica estera “from behind” l’America ha scoperto che i desideri che aveva espresso al massimo grado con l’elezione di Obama sono un toccasana per lo spirito ma non creano posti di lavoro. Sono nobili e sterili. Il 20 gennaio del 2009, nel discorso per l’insediamento alla Casa Bianca, Obama ha detto che la crisi era stata causata dalla “nostra incapacità di prendere decisioni difficili e preparare la nazione a una nuova era”, e la nuova era consisteva nel superamento di quelle distinzioni che per troppo tempo avevano ingabbiato lo spirito originario dell’America. Nella nuova America non c’erano più democratici e repubblicani, neri e bianchi, ricchi e poveri, perché tutto era ricompreso nel caldo abbraccio del presidente cool. Era un altro Obama rispetto a quello che si ripresenta oggi davanti al tribunale degli elettori, ed era un’altra America quella che pendeva dalle sue labbra. Queste elezioni post messianiche segnano uno scarto qualitativo nella domanda elettorale. Troppo facile suggerire che in questi tempi di richieste in prosa Mitt Romney è il manager analitico che merita di guidare gli Stati Uniti: che l’America abbia bisogno di un buon esecutore, e non di un eroe eponimo, è scritto anche nella storia del primo mandato di Obama e sarà scritta in quella della prossima Amministrazione, qualunque cosa succeda martedì notte. Non è quando ha spinto sull’acceleratore della retorica che Obama ha rafforzato la sua leadership.All’inizio del mandato il presidente era solito usare una strategia collaudata per aggirare gli ostacoli: fare un discorso. Se c’era una faccenda che minava la sua credibilità o metteva in pericolo il consenso così faticosamente costruito, lui con un ipnotico discorso dei suoi faceva vibrare di nuovo le corde degli elettori. L’imponenza degli ostacoli ha eroso in fretta l’efficacia della strategia e il presidente ha preso a muoversi su percorsi alternativi. Quando, in fin dei conti, è riuscito a ispessire la sua leadership? Quando ha mostrato capacità di esecuzione. Il raid dei Navy Seal nel covo di Osama bin Laden è il simbolo di un presidente che non deflette, sa rischiare, prende con cura la mira e non teme di sparare. Di questi tempi l’esecuzione è tutto. Non basta dire che qualunque altro presidente, se avesse avuto l’occasione, avrebbe fatto la stessa cosa: Jimmy Carter ha mandato la Delta Force a salvare gli ostaggi all’ambasciata di Teheran ma l’esecuzione è stata un disastro e gli americani hanno mandato a casa il presidente, altro che secondo mandato. Si è cercata a lungo una “dottrina Obama” in politica estera, ché dopo tanto parlare di ideali era lecito aspettarsi una visione articolata, chiara, coerente almeno in linea di principio. La cosa più simile che è stata rinvenuta è un rachitico “leading from behind” che non spiega perché detronizzare Gheddafi con la forza è un dovere morale mentre per Assad ce la si cava con una predica multilaterale, oppure perché la rivoluzione nelle strade di Teheran va raffreddata e quella di piazza Tahrir rinfocolata. Se dalle nebbie della politica estera si restringe però l’inquadratura sulla sicurezza nazionale, Obama diventa un efficace produttore di risultati: ha militarizzato la Cia, esteso a dismisura i bombardamenti con i droni, ha decimato la leadership del terrore dal Pakistan alla Somalia, ha creato un database dei cattivi da fare invidia a Bush, ha agito in nome dell’interesse nazionale senza curarsi troppo dei cavilli legali o delle conseguenze diplomatiche con gli alleati più opachi. Ha eliminato nemici dell’America, compito precipuo del commander in chief. La riforma sanitaria è un altro punto nella colonna delle cose fatte. Non è esattamente come il presidente l’aveva immaginata, ma è una tappa intermedia di proporzioni storiche tanto per chi la approva quanto per chi la giudica un obbligo illegittimamente imposto dal governo federale. Come se un decreto obbligasse i cittadini a comprare broccoli. Lo stesso vale per la politica dello stimolo e il bailout dell’industria automobilistica, provvedimenti più che perfettibili che hanno dato tuttavia qualche risultato. I conservatori criticano duramente queste politiche nel merito, i democratici moderati, quelli che già in tempi non sospetti speravano in un buon esecutore, non in un messia, riconoscono i meriti di Obama. La presidenziale noncuranza con cui ha approcciato i diritti civili, dall’uccisione del cittadino americano Anwar al Awlaki e del figlio sedicenne fino alla lotta domestica contro chi spiffera informazioni riservate, ha creato dispiaceri a non finire fra i liberal. Il dispiacere è proporzionale all’altezza delle domande elettorali. Chi era certo che Obama avrebbe chiuso la prigione di Guantanamo e con quella tutte le brutture della guerra al terrore (guai a pronunciare quella formula!) potrà votarlo di nuovo tutt'al più turandosi il naso, pratica a cui gli americani ricorrono con frequenza minore rispetto agli europei. Chi invece era cosciente fin dall’inizio che le promesse da campagna elettorale sono fatte per non essere mantenute, giudica con più clemenza il primo mandato. Qualcuno è addirittura entusiasta. Jonathan Chait, columnist del settimanale New York, è nella sezione realista degli obamiani: “A differenza di tanti sostenitori, non ho mai sperimentato un sussulto emotivo per la sua candidatura. Non ho mai pensato che la sua elezione avrebbe cambiato la politica americana o lo stato, che ci avrebbe condotti fuori dalle tenebre. Nulla di quello che Obama ha detto o fatto mi ha mai fatto versare una lacrima”. Chait giudica Obama un “grande presidente”, uno che ha ottenuto risultati che “per i liberal sono mezze misure, per i conservatori socialismo”, per i centristi sono onesti tentativi di governo. L’intellettuale democratico Mark Lilla si muove sullo stesso spartito: “Non mi sono mai bevuto la retorica dell’‘hope and change’, per questo non sono devastato dal fatto che la realtà si sia messa in mezzo”. Non pensavano fosse il messia, quindi non si sono scandalizzati quando si è scoperto che, in effetti, non lo era. L’estate scorsa alcuni cronisti hanno incontrato un importante consigliere obamiano all’ambasciata americana a Roma, per una chiacchierata off the record. A un certo punto il consigliere ha chiesto ai suoi interlocutori com’era visto il presidente dall’altra parte dell’oceano, se l’entusiasmo di un tempo era svanito oppure almeno nella vecchia Europa resistevano gli obamiani di rito tradizionale. Qualcuno ha detto: “Con le aspettative che ha creato è difficile che l’entusiasmo non si spenga”. E’ stato l’unico punto della conversazione in cui l’uomo del presidente si è rabbuiato, e per un attimo s’è fatto meditabondo. In quel momento il risultato delle primarie repubblicane era ancora incerto e non era difficile capire che a Chicago si tifava Rick Perry, un conservatore duro con tendenze libertarie che avrebbe offerto uno scontro di andamento ideologico e retorico, quello che Obama preferisce. Romney si muove nell’ambito dei risultati misurabili, quello che Obama frequenta soltanto se costretto. Lo ha aiutato a entrare nel mood della politica fatta con gli algoritmi anche una schiera di giornalisti democratici che si è impossessata dell’esclusiva sul piano cartesiano. Ezra Klein del Washington Post, Nate Silver del New York Times, così come Matthew Yglesias di Slate e molti altri giovani virgulti del giornalismo americano hanno raccontato gli anni di Obama in modo “wonk”, da secchioni, sfoggiando istogrammi, torte e sinusoidi per spiegare qualsiasi fenomeno politico. Guardano dichiaratamente il mondo da sinistra, questi venti-trentenni in carriera, ma argomentano con la forza apparentemente inoppugnabile dei numeri, facendo sembrare, per contrasto, gli opinionisti conservatori come sciamannati che sostengono tesi ingiustificate. Hanno diviso il mondo in due: da una parte i numeri snocciolati con calma, dall’altra le urla ideologiche; una divisione perfetta per il presidente che doveva spostarsi dall’ambone al pallottoliere. Se Romney e Obama sono seduti sui banchi opposti dell’emiciclo ideologico, le richieste degli elettori americani in questa tornata tendono all’omogeneità. Chiedono contenuti alternativi per riempire uno schema generale condiviso e al quale nessuno dei candidati può sottrarsi. Non basta puntare il dito all’orizzonte per distrarre gli americani e passarla liscia, la disoccupazione, il debito da 16 mila miliardi e la crescita ampiamente sotto al due per cento (i dati dell’ultimo trimestre sono drogati dall’acquisto straordinario di armi per il Pentagono, ironia della finanza pubblica) sono più forti di qualsiasi promessa che non sia strettamente ancorata alla realtà. Romney è un esecutore naturale, puro istinto pragmatico che ha virato a destra per superare l’ostacolo delle primarie repubblicane, poi è tornato nell’alveo che gli compete, fatto di numeri, tabelle, riforme fiscali, tasse che scendono, posti di lavoro che salgono. Nel primo dibattito presidenziale, quello stravinto a Denver, ha concluso promettendo la creazione di 12 milioni di posti di lavoro nei primi quattro anni, una previsione in linea con le stime indipendenti di Moody’s. E’ l’obiettivo di un manager, non una promessa di vita eterna. Ha scelto come candidato vicepresidente un custode dell’ortodossia conservatrice con lo scopo di aggiungere nella miscela elettorale l’elemento complementare. Nell’apologia di Romney fatta da Rich Lowry sul Time (E. J. Dionne ha firmato quella speculare di Obama) si legge: “Un presidente Romney sarebbe affrancato da ogni aspettativa messianica. Se verrà eletto, il popolo americano lo avrà assunto per svolgere una mansione precisa, non per salvare il pianeta o redimere la politica. Per fortuna”. Se gli americani manderanno Romney alla Casa Bianca sarà perché riconoscono in lui le qualità che servono per rispondere alle esigenze elettorali di questo momento, per fronteggiare quello che il presidente ha maneggiato in modo maldestro. Obama è un esecutore suo malgrado, un eroe tornato fra i mortali al quale tocca il giudizio sferzante di chi aveva creduto nella sua immortalità e quello più clemente di chi si limita a tirare una riga in fondo alla lavagna dei risultati politici e calcola se il bilancio è in attivo. Anche nel caso ottenga un secondo mandato, Obama non potrà evitare un’ulteriore svolta pragmatica per sintonizzarsi con l’ineludibile concretezza delle richieste del popolo. E dovrà affrontare la dolorosa trasformazione – già iniziata negli ultimi quattro anni – da messia del nuovo mondo ad amministratore delegato del mondo che passa il convento.

Editoriale- " Sull'Italia ha ragione Romney "

Una parte rilevante della nostra stampa ha considerato offensiva per l’Italia una frase che ci riguarda nel discorso del candidato repubblicano alla presidenza, Mitt Romney. In Virginia ha detto: “Se siete un imprenditore e state pensando di avviare un’attività dovete chiedervi: è l’America sulla strada della Grecia? Siamo sulla strada di una crisi economica come quelle che stiamo vedendo in Europa, in Italia e Spagna? Se continuiamo a spendere mille miliardi di dollari in più di quanto entra, l’America di fatto si troverà su questa strada”. Non c’è niente di offensivo per noi. Romney s’è limitato a constatare che le politiche di elevata spesa pubblica in deficit conducono a un rapporto eccessivo fra debito e pil che genera di conseguenza una situazione critica e costringe, poi, a cure dolorose come quella a cui l’Italia ora deve sottostare (per comprendere le difficoltà della terapia, basta vedere quel che è successo ieri alla Camera, dove il governo è andato sotto tre volte sul decreto per i tagli ai costi della politica). Romney si è rivolto a quel variegato e numeroso popolo di americani che quotidianamente progetta libere iniziative, perché il “deficit spending” viene propagandato come vantaggioso non solo ai lavoratori per sostenere l’occupazione, ma anche alle imprese, in quanto aumentando la domanda globale si amplia il mercato e perciò può generare profitti. Romney mette in guardia sugli effetti negativi che queste politiche generano nel breve, medio e lungo periodo. E la nostra esperienza al riguardo è esemplare. Qualcuno ha osservato che, però, la crisi è arrivata a noi partendo dagli Stati Uniti. Ma ciò rafforza il “warning”, l’avvertimento, di Romney. I debiti eccessivi sono dannosi non solo quando sono fatti dagli stati ma anche dalle banche e dalle famiglie, come è accaduto durante gli anni del boom americano. E se gli stati con alto debito sono più esposti alle tempeste finanziarie internazionali, questa è una ulteriore ragione per evitare di percorrere questa strada o di persistervi. L’Italia è entrata nel dibattito fra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti anche con uno spot di Obama, che mostra Sergio Marchionne che smentisce l’ affermazione di Romney secondo il quale Fiat vuole spostare in Cina la fabbrica di Chrysler dell’Ohio. Il richiamo all’Italia di Romney ci ricorda che la terapia per la nostra crisi non è ancora finita, e lo spot di Obama che una impresa sta volentieri dove fa utili.

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