Haaretz non piaceva neanche ai laburisti, come ricorda - citando Golda Meir- Giulio Meotti nella lucida radiografia del quotidiano israeliano, a pag.II dell'inserto del FOGLIO di oggi, 03/11/2012, con il titolo "L'intellò d'Israele". Una radiografia spietata perchè veritiera, in poche colonne l'analisi dello stato dell'informazione quotidiana di Israele.
Giulio Meotti
Golda Meir amava ripetere che l’ultimo governo sostenuto apertamente da Haaretz è stato quello del Mandato britannico, estintosi nel 1948. Dopo il 1993, in seguito agli accordi di Oslo fra Israele e l’Olp di Arafat, Haaretz ha fatto una eccezione alla regola sostenendo apertamente Yitzhak Rabin. Ma è lo stesso giornale che nel 1977 aveva provveduto a innescare le dimissioni di Rabin dalla carica di premier rivelando che la moglie Leah aveva un conto corrente in dollari negli Stati Uniti, in contrasto con le norme valutarie in vigore in Israele. Il giornale della borghesia intellettuale di Tel Aviv da sempre ama staffilare i primi ministri, e con ancora maggiore zelo qualora siano esponenti della destra, soprattutto se si chiamano Benjamin Netanyahu. Il premier in carica ha ricambiato il favore, non soltanto annullando l’abbonamento al giornale, ma dicendo che “Israele ha due nemici: il New York Times e Haaretz”. “Promuovono una campagna antisraeliana nel mondo, i giornalisti al mattino basano le loro storie su quel che leggono sul New York Times e Haaretz”, ha aggiunto. In un Israele già entrato in campagna elettorale (si vota a fine gennaio), Haaretz, che ha vinto (per ora) la guerra sullo strike all’Iran, sarà l’unica opposizione a Netanyahu. E così le sue pagine dei commenti sono già diventate un’infinita lista di verdetti, in cui si accusa “Bibi” di aver gettato nel panico il paese sull’Iran, di aver distrutto il processo di pace, di aver fama di bugiardo, di avere la smania del potere, di essere odiato anche dai propri uomini, e persino da quella moglie di cui i domestici raccontano storie da basso impero. Il team di Netanyahu replica che Haaretz, noto anche come la Vecchia signora del giornalismo israeliano, nasconde la propria crisi dietro alla “difesa della democrazia israeliana” dall’assalto della destra al potere. La scorsa settimana, per la prima volta in tre decenni, il più noto, controverso e per molti autorevole quotidiano d’Israele non è uscito nelle edicole. Il quotidiano simbolo dei caffè di via Shenkin, rifugio della bohème pacifista israeliana, riconosciuto per la sua indipendenza e per il suo prestigio, è in grave crisi economica, e come molti altri giornali israeliani rischia la chiusura. La destra religiosa legge Makor Rishon, gli ultraortodossi acquistano Hamodiya, la middle class israeliana si divide fra Yedioth Ahronoth e Israel Hayom, il giornale gratuito del magnate americano Sheldon Adelson, finanziatore di Mitt Romney e del premier Netanyahu. Che ruolo avrà Haaretz in un paese che sta diventando sempre più religioso e dove gli ultraortodossi entro due decenni diventeranno un terzo della popolazione? Un solco sempre più profondo separa “i ragazzi di Shenkin”, la sinistra laica di Tel Aviv, e la pancia popolana, scura e maggioritaria che si snoda fra i quartieri haredi, le periferie povere e pie, le colonie e i grandi quartieri della Gerusalemme sorta dopo il 1967. Fondato nel 1948, come lo stato di Israele, anche il quotidiano Maariv è sul lastrico e millecinquecento dipendenti rischiano di ricevere presto lettere di licenziamento, mentre gli altri 300-400 continueranno a lavorare in forma ridotta e sotto un nuovo editore, Shlomo Ben Zvi, nazionalista e proprietario di un altro quotidiano, Makor Rishon, vicino al movimento dei coloni. “Mai prima nella storia di Israele la destra aveva avuto a disposizione tanti e tali mezzi di comunicazione”, ha scandito una commentatrice della televisione di stato. Con la crisi, Haaretz riduce il numero della pagine, mentre Yedioth progetta di lasciare la sede storica di Tel Aviv per spostarsi in periferia. “Se Haaretz deve chiudere, meglio ora che dopo”, ha detto alcuni giorni fa Amos Schocken, il patrono della dinastia che da un secolo edita il giornale. Spocchioso quanto basta da presentarsi ufficialmente come il “Giornale per le persone che pensano”, Haaretz è il giornale specchio e banco di prova dell’élite fondatrice d’Israele e di tutti i suoi figli, ma è anche il foglio di carta notoriamente più odiato oggi dalla maggioranza dei cittadini. E pensare che il celebre logo del quotidiano, quattro lettere ebraiche nere e stilizzate, è stato realizzato da un grafico d’eccezione: il teorico del sionismo nazionalista Zeev Jabotinsky. Anche nella grafica Haaretz è più snob di ogni altro giornale ebraico. Le pagine sono grandi, scomodissime da sfogliare in pubblico, i commenti sono sempre lunghi, introflessi e verbosi. In un programma satirico, un agente dei servizi segreti tortura l’assassino di Rabin, Yigal Amir, leggendogli sadicamente l’intero supplemento letterario di Haaretz. A gettare nel discredito la reputazione del quotidiano è stato da ultimo il caso Anat Kamm e Uri Blau. Quest’ultimo è il reporter investigativo di Haaretz condannato per possesso di documenti riservati militari. “Spionaggio”, dunque. La vicenda ha avuto inizio tre anni fa, quando Blau pubblicò su Haaretz una serie di articoli in cui accusava i vertici militari di ignorare sistematicamente i limiti imposti loro dalla Corte suprema nella cattura di palestinesi legati all’Intifada terroristica. Le inchieste scritte da Haaretz rivelarono in particolare un ordine del generale Yair Naveh che nel 2007 aveva dato il via libera all’uccisione di tre terroristi palestinesi. Quell’estate Ziad Malaisha del Jihad islamico veniva assassinato a Jenin, quando poco prima la Corte suprema aveva limitato gli omicidi mirati in Cisgiordania a casi eccezionali e ufficialmente l’esercito li aveva interrotti. Poi si apprese che la fonte della documentazione di Haaretz era la soldatessa Anat Kam, condannata a quattro anni e mezzo di carcere. Il giornale ha trasformato Blau in un simbolo dell’onestà giornalistica (“siamo tutti spie” ha scritto su Haaretz Reuven Pedatzur, un analista militare). Ma per gli altri giornali, i maggiori commentatori e la classe dirigente israeliana, in un paese in cui l’esercito è la madre e lo scudo della nazione, Haaretz stavolta ha esagerato persino per i propri standard. Maariv ha pubblicato una caricatura tititolata “Aumento delle tirature”, che mostra i nemici esistenziali di Israele – Hassan Nasrallah, Mahmoud Ahmadinejad, Bashar el Assad e Ismail Haniyeh – compiaciuti nella lettura di Haaretz. In un commento un analista di Maariv sostiene che “ormai Haaretz è sempre pronto a combattere contro quanto abbia sapore di sionismo o di ebraismo”. Gli appassionati al quotidiano replicano che Israele senza Haaretz non avrebbe senso. “Sarebbe come Israele senza la Corte suprema”, ha scritto con enfasi Uzi Benziman. Per dirla con il settimanale tedesco Der Spiegel, Haaretz è diventato (o lo è sempre stato) “un giornale senza un paese”. E’ il paradosso della gloria del giornalismo israeliano ormai letto soltanto all’estero e non più in patria: il sito internet di Haaretz conta un milione di visite al giorno, ma appena 50 mila copie vendute in Israele (contro il milione di Yedioth Ahronoth). Anche la proprietà del giornale è cambiata molto in questi anni, con il 20 per cento delle quote acquisite dal magnate russo Leonid Nevzlin, ex Yukos e socio di quel Mikhail Khodorkovsky che langue in un carcere siberiano. La severa sede di Haaretz si trova a sud di Tel Aviv, in una strada proletaria che porta il nome del fondatore del giornale: Schocken. “Il patriarca”. L’erede della dinastia, Amos Schocken, è anche uno dei più importanti collezionisti d’arte del paese. Gli Schocken fanno da sempre sfoggio di quella superbia tipica dell’ebraismo ashkenazita dell’Europa centrale. Rispondendo ai lettori che si lamentano di alcuni editoriali estremisti di Haaretz, Schocken scrive: “Haaretz non fa per lei”. Il magnate ha assunto negli anni le posizioni più controverse, come quella in cui ha chiesto l’abolizione dell’inno nazionale Hatikva: “Come fa un arabo a identificarsi?”, ha chiesto Schocken. Generoso, ma per l’israeliano della strada non è altro che disfattismo. Un ex hippy della California che tiene una rubrica su Haaretz, Bradley Burston, ha persino scritto: “Invidio le persone che odiano Israele”. E così, di volta in volta, Schocken è accusato di essere “un traditore”, “un postsionista” e un “aristocratico della vecchia Israele” che detesta ortodossi, coloni, chi vive nelle province di Beersheba, Ashkelon e Ashdod e non legge certo Haaretz. Un columnist del giornale concorrente, il Jerusalem Post, ha scritto: “Schocken vive in una utopia in cui migliaia di studenti arabi studiano nelle università israeliane e migliaia di israeliani studiano nelle università arabe”. Accanto a grandi giornalisti come Ze’ev Schiff, la quintessenza del corrispondente militare israeliano, le cui analisi venivano lette e prese in grande considerazione dai più alti livelli dell’esercito israeliano, Haaretz ha legato il proprio nome a gente come Gideon Levy, “l’uomo più odiato d’Israele”, secondo la definizione del giornale inglese Independent. Levy è la bestia nera dell’“occupazione”, uno che cerca di far incriminare l’esercito per l’operazione Piombo fuso a Gaza e accusa i suoi concittadini di “compiacenza” nell’ingiustizia impartita ai palestinesi. Levy vive a Tel Aviv, come gran parte dei giornalisti di Haaretz, perché per lui “anche Gerusalemme puzza di occupazione”. Poi c’è Amira Hass, figlia di comunisti scampati all’Olocausto, che a Ramallah, capitale dell’Autonomia palestinese, ha preso persino casa. Sguardo severo dell’intellettuale centroeuropeo, Hass è diventata nell’opinione pubblica israeliana la maggiore avvocatessa della causa palestinese: i suoi articoli raccontano soltanto di ingiustizie, donne e bambini ai checkpoint, lavoro perduto, violenza, morti. Ha vissuto anche a Gaza, che in una intervista al New Yorker ha definito “una forma di diaspora, uno shtetl”. Per lei anche lo scrittore pacifista David Grossman “è uno che ci arriva troppo tardi”. A differenza dei suoi giornalisti, Schocken non ha mai messo piede oltre la “linea verde”, il confine armistiziale del 1949 fra Israele e la Giordania. “Ne leggo su Haaretz”, risponde a chi lo accusa di non sapere di cosa parli e di essere soltanto un elitario. Il capostipite, Salman Schocken, era così austero e imperioso che Hannah Arendt ebbe a definirlo “Bismarck in persona”. Nato nel 1877, Salman è figlio di un droghiere analfabeta, ma non se ne dà per vinto. Assieme al fratello apre a Zwickau, in Sassonia, una catena di negozi. Accumula ricchezza e di pari passo compra libri rari. Dopo un viaggio nel 1921 nell’allora Palestina mandatoria, sotto controllo dell’impero britannico, Schocken finanzia il porto di Haifa e l’Università Ebraica di Gerusalemme. Poi fonda una casa editrice, la Schocken Verlag, che acquisisce addirittura i diritti di Franz Kafka. Schocken diventa così “il Medici d’Israele”. A Tel Aviv porta con sé una collezione di trentamila volumi di immenso valore, fra cui un documento sulla teoria della relatività scritto a mano dallo stesso Albert Einstein. Nel 1935 acquista Haaretz per farne una sorta di Frankfurter Zeitung in ebraico: sobrio, analitico, con tanta enfasi sull’alta cultura. Politicamente Schocken si schiera con chi vorrebbe fare di quella terra uno stato binazionale per ebrei e arabi che avrebbero dovuto vivere affratellati come in una grande utopia. A lui, ai figli e ai nipoti lo stato ebraico non è mai andato davvero giù. A disagio in Israele, Schocken vaga di hotel in hotel in tutta Europa. E in un albergo svizzero muore, solo, nel 1959. Gli inservienti dell’albergo lo trovano con due libri: le storie chassidiche di Nachman e il “Faust” di Goethe. Nel 1967 Haaretz subisce la svolta radical mentre il resto del paese e dell’establishment di giornalisti è in giubilo per la “liberazione” della Giudea e Samaria, la Cisgiordania, e per la vittoria miracolosa nella Guerra dei sei giorni. Un giovane cronista di Haaretz, Amos Elon, prende un’auto e va a Aqbat Jaber, un campo profughi vicino a Gerico. La pubblicazione del suo resoconto inquieta il paese (Elon avrebbe poi abbandonato Israele per andare a morire sulle colline della Toscana). Haaretz diventa la “coscienza d’Israele”, ma per molti si consuma anche la frattura insanabile con un giornale accusato da sempre di ignorare le sofferenze della popolazione israeliana sotto decennale minaccia terroristica e militare. Nel 1982, quando Menachem Begin e Ariel Sharon invadono il Libano per disarmare le milizie palestinesi che cannoneggiavano la Galilea ebraica, Haaretz si schiera contro. Migliaia di lettori cancellano l’abbonamento. Il giornale tiene una rubrica quotidiana che smentisce la conta ufficiale dei morti dell’esercito, Tsahal. Durante i suoi oltre novant’anni di vita, Haaretz ha sempre cercato di portare alla luce le ferite del paese, le contraddizioni, ma sempre di più in modo considerato sovversivo e sleale dalla maggioranza dell’opinione pubblica. Durante i negoziati di Oslo, quando la pace sembra a portata di mano, il giornale che un tempo era noto soltanto ai propri lettori di ebraico, viene ribattezzato “il New York Times israeliano”. Poi scoppia la seconda Intifada, i kamikaze che insanguinano decine di bar, ristoranti e centri commerciali d’Israele. E Haaretz inizia a perdere copie. Tante. E’ un declino inarrestabile. Amnon Dankner, un tempo firma di punta del giornale, poi passato a Maariv, attacca gli ex colleghi: “E’ sbagliato chiedere ai reporter di Haaretz un po’ di compassione per il proprio popolo?”. Ben-Dror Yemini, fra i più noti columnist israeliani, chiama Gideon Levy e gli altri di Haaretz “simpatizzanti di Hamas”. E un celebre scrittore, Irit Linur, scrive una lettera aperta al quotidiano di Schocken: “Il vostro antisionismo è diventato stupido e malefico”. Per anni Haaretz ha avuto due anime liberal: una pragmatico centrista e l’altra di estrema sinistra. La rottura si consuma nel 2004, con l’uscita di scena del direttore Hanoch Marmari. Il giornalista aveva con Schocken un rapporto di simbiosi, trascorrevano assieme non solo le ore in redazione, ma anche le vacanze. L’Intifada però spezza l’amicizia. E Haaretz. La ragione del divorzio è legata a quei riservisti israeliani che si rifiutano di servire nei Territori o (nel caso dei piloti dell’aviazione) di partecipare a esecuzioni mirate di quadri dell’intifada. “Nelle sedute di redazione, che si tengono tutte le domeniche, Amos Schocken assume spesso posizioni di estrema sinistra”, scrivono i giornali. “Ho un fanatico suicida come editore”, dice un anonimo redattore ai quotidiani concorrenti. Era successo che in un articolo di fondo la direzione aveva denunciato il fenomeno dei piloti della riserva che si rifiutavano di partecipare nei Territori a operazioni in cui fosse messa a repentaglio la vita di civili palestinesi. Tre giorni dopo esce a sorpresa un editoriale dell’editore in persona, cosa di per sé rara. “Viene detto – scrive Schocken – che quei piloti si scontrano con le procedure democratiche. Ma mi chiedo: cosa avremmo detto di un pilota bianco che si fosse comportato in maniera analoga alla loro in Sudafrica, durante l’apartheid?”. Per Marmari è troppo: il direttore se ne va. Haaretz non si riprende più. Durante la seconda Intifada anche il capo degli editoriali di Haaretz, Yoel Esteron, scrive in difesa dell’esercito israeliano che stava smantellando le cellule di terroristi palestinesi fra Jenin e Nablus. Schocken non approva. E anche fra i due si rompe il rapporto di lavoro. In molti ritengono che Haaretz non abbia futuro in un paese uscito dall’euforia di Oslo e che ne ha abbastanza degli eccessi ideologici di Schocken. Il re del giornalismo israeliano, Nahum Barnea, ha scritto che tre giornalisti israeliani non hanno passato il “test del linciaggio”: Gideon Levy, Amira Hass e Akiva Eldar. Barnea si riferisce al linciaggio di due riservisti israeliani rapiti, torturati e infine smembrati nell’ottobre del 2000 dai palestinesi a Ramallah. La ong Israel Media Watch ha dichiarato che nel periodo che va dall’ottobre 2000 al dicembre 2001 Haaretz ha dedicato soltanto cinque articoli alle vittime del terrorismo in Israele. Cosmopolita, sofisticato, modernista, edonista, bohémien, urbano e letterario, Haaretz rappresenta uno dei grandi vanti della democrazia e del pluralismo intellettuale d’Israele, pegno della grande eccezione libertaria israeliana in un medio oriente autocratico e fondamentalista. Ma Haaretz è anche il simbolo di una certa pericolosa malinconia dell’intellighenzia israeliana. Un anno e mezzo fa, Haaretz ignorò del tutto la notizia della strage di una famiglia di ebrei a Itamar per mano di terroristi palestinesi. Padre, madre e tre bambini piccoli sgozzati nei propri letti. A giustificazione della propria scelta editoriale, Amos Schocken di recente ha detto: “Lo tsunami in Giappone era una notizia più importante”. Magnifico odioso Haaretz.
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