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La Stampa Rassegna Stampa
02.11.2012 Un giorno da cecchino ad Aleppo
Reportage di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 02 novembre 2012
Pagina: 1
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Un giorno da cecchino ad Aleppo»

Sulla STAMPA di oggi, 12/11/2012, a pag.1/14, con il titolo "Un giorno da cecchino ad Aleppo", continua il reportage di Domenico Quirico in Siria.

Aleppo                                                  Domenico Quirico

La via dei cecchini, a Karmal Jabal, è lunga e dritta, non lascia scampo. Due mesi fa sono passato in questo quartiere immenso e la strada era gonfia di gente, di bancarelle.e case, la sera, si accendevano di luci. Sì, la guerra che infuriava in città sembrava lontana da qui. Solo due mesi… Ora il luogo pare in armonia con il suo destino: sotto un cielo trasparente come quello delle grandi altitudini, dove vanno alla deriva nuvole effimere, un’immensa, grigia distesa di cadaveri di cemento. Gli aerei, gli elicotteri, i cannoni del regime si sono accaniti davvero contro queste misere case senza colpe, le hanno uccise con metodo, una dopo l’altra.

Gli unici esseri viventi di questa città color ossario sono i gatti, centinaia, migliaia di gatti abbandonati, padroni degli androni, delle scale, delle strade, dei vicoli. Molti, imprigionati negli appartamenti, dimenticati dai proprietari in fuga, lanciano strazianti miagolii, che sembrano grida umane, le invocazioni di una lunga agonia. Sono gli unici che non hanno paura di questo vuoto: i gatti; e i cecchini. Ad agosto la battaglia sui sette fronti della città era fatta di avanzate e ritirate, battaglie furiose. Ora Aleppo, i suoi quartieri morti, disintegrati dalla punizione del regime di Bashar, sono diventati teatro di una guerra di pattuglie disperate che si danno caccia accanita tra le macerie di questa terra di nessuno; e della sfida, assassina e solitaria, dei cecchini. Ho passato una giornata con uno di loro, Abu Jumaa. Per capire: un uomo che maneggia la vita e la morte, quella degli altri. E la sua.

Inizia un nuovo giorno e la guerra si prepara a riempirlo fino all’orlo, di fumo, di bombe, di morti. Ci siamo incontrati al cimitero del quartiere, nella zona controllata dai ribelli. Anche qui le bombe hanno afflitto spogliato sconvolto, riportando orrendamente in superficie i cadaveri. Nessuno osa pietosamente riseppellirli perché i cecchini sono in agguato. Il delitto contro questa serenità che già ricopriva la tragedia ci fa sussultare, qualcosa dentro noi protesta come se l’oblio non fosse una legge di natura per lasciar vivere, ma una voluta ingiustizia degli uomini. Le lapidi ancora dritte assumono contro il cielo l’aspetto di una fosca minaccia a pugno teso. Come è difficile, davvero, in Siria, la materia della vita e della morte.

Jumaa mi è spuntato davanti come una apparizione, emergendo da una casa in rovina: nero come un tizzo, il viso attraversato da piccole rughe concentriche attorno agli occhi e alla bocca, i movimenti sono da ragazzo, ha una risata di getto argentina, insolente come una folgore fuor da un nuvolone. Tiene il suo fucile di precisione dritto con una mano, come i contadini portavano la falce. Parla un po’ inglese, le parole le porge accompagnandole fino all’ultima sillaba: «Il fucile ha una portata di 3200 metri, posso uccidere a 3200 metri, trenta soldati di Bashar ho già ammazzato con questo». Ma lo dice senza enfasi, come se citasse le cifre di un lavoro ben fatto, di un compito portato a termine con impegno. Abu Jamaa è un cecchino famoso, mi hanno raccontato, ad Aleppo: dalle due parti.

Ci inoltriamo nel cuore del quartiere, a piccoli passi, sotto le scarpe scricchiola un immenso tappeto di vetri di calcinacci di rovine. Nel silenzio rimbomba come un uragano. Jumaa si ferma, c’è un cucciolo di gatto morto tra l’immondizia; si inginocchia a guardarlo: «Vedi? Anche questo lo hanno ucciso loro».

Ci muoviamo verso la prima linea passando da casa a casa, una strada segreta ricavata ingegnosamente aprendo buchi nelle pareti, ci arrampichiamo su ripide montagne di calcinacci, si attraversa qualche via stretta, correndo da spigolo a spigolo. È come se percorressimo le vene secche della città, scavalcassimo i suoi muscoli spezzati, attraversassimo i nervi distrutti. Avanziamo come dentro una nuvola di paura, di incertezza, calda, avvampante, che soffoca e dà le vertigini. A ogni svolta il destino non cessa di rimescolare le carte con i suoi gesti da cieco. Ci sarà il cecchino nemico? Jumaa punta il suo telemetro, scruta, poi balza. In questa via ho imparato ad amare gli angoli, le curve, le sporgenze, sono quelle che ti difendono, che ti salvano la vita.

Percorriamo, con il fiato grosso, violatori senza colpa di pezzi di vita abbandonati come ostaggi nelle stanze vuote: cucine ancora con i piatti in bell’ordine, masserizie umili, di poveri, i mobili li hanno ammonticchiati per creare scale improvvisate. Ecco il fronte, la tana di Jumaa: un laboratorio tessile abbandonato, con i filatoi «made in Urss» ormai scuri di polvere, le matasse di filo a formare un immenso pavimento colorato. Il cecchino si acquatta dietro un foro praticato nel muro in cui punta il fucile. Dal varco irrompe una luce violenta, che taglia il buio caravaggesco del locale. Solo qualche granata ogni tanto raschia il silenzio delle macerie.

Jamaa nell’agguato si trasforma: gli occhi fissi, la mascella stretta, immobile; pare che non respiri. Sembra un cadavere in cui la vita si sia tutta rifugiata negli occhi e negli orecchi. È lì teso a ghermire i più piccoli suoni, i rumori impercettibili al mio orecchio profano. In questa foresta di cemento la sua forza è tutta nel ritorno all’istinto, in quel suo abbandono alla forza oscura di questa inesplorata selva. Quello che per me è silenzio, per il cecchino è un minutissimo intreccio di voci, un coro immenso di muti fruscii, lui intercetta come un’antenna le onde sonore di questa foresta di calcinacci. Ai suoi piedi decine di bossoli, il lavoro dei giorni scorsi.

Sa che il suo profilo oscilla nel collimatore di altri fucili, di fronte, a meno di cinquanta metri ci sono venti mirini come il suo. Il cecchino non è più solo un uomo, è una bestia selvatica, tutti i suoi istinti sono concentrati, per ore, nella pupilla, nella punta dei nervi. Non batte ciglio, non muove la testa, un tremito nervoso gli palpita nelle narici. La luce tra le rovine degli edifici e le carcasse di auto si addensa e par che sollevi un lieve fumo.

Il cecchino volge la testa, è uno sguardo lucido e gelido. E allora sento anch’io i mille muti suoni di quell’immenso silenzio, è come un respiro sommesso, un bisbigliare, un lieve fruscio. E sento lo sguardo dei nemici, invisibili laggiù, a cento passi davanti a noi. Sento che ci guardano, sono anch’io nella tacca di mira. A destra si alza di colpo un grido lungo, doloroso, convulso come una risata dura, cattiva. Jamaa spara. Subito il colpo è tagliato da un scarica di mitragliatrice, i proiettili ci passano sibilando sulla testa. Qualcuno corre laggiù, si sentono vetri scricchiolare sotto i passi; poi è di nuovo il silenzio.

Scende il buio, dobbiamo tornare indietro. Abu fa una deviazione nel suo labirinto, mi porta a vedere le rovine della casa dove viveva fino alla primavera con i genitori. Restano due stanze ancora intatte, le tazze del servizio buono ben allineate in una credenza, vestiti in un armadio, le foto del padre e dei nonni alle pareti, volti contadini, occhi che vogliono intimidire l’obiettivo. «Quando la giornata è fatta soltanto della melma della guerra non la vedi, la tua vita, non la capisci. Ogni tanto la testa mi scoppia, vorrei soltanto tornare al mio mestiere, tecnico informatico, vorrei tornare presto, subito a prima… Mi dico: faccio questo per difendere la mia gente aggredita. Ma qualche volta non basta». È l’ora, Abu prende da un mobile un tappetino si inginocchia e prega: «Dio è grande e m i s e r i c o r d i o so…».

Il proiettile di grosso calibro scoppia su un edificio davanti a noi: l’aria si sbriciola in mille frantumi di vetro, le onde dell’esplosione passano attraverso le cose, che oscillano come uno scenario di tela mosso dal vento. Sono le sei di sera. «Ricominciano», dice sorridendo mestamente Abu Jarub che comanda la «katiba», il gruppo di combattenti dell’Armata libera nel quartiere. Il cannone batte come un ariete laggiù, verso l’aeroporto; nuvole di scintille rosse si alzano di quando in quando nei quartieri di Banized, di Bab al Nasser, di al Azaza, simili a immensi sciami di lucciole, e altissimi alberi di fumo sorgono improvvisi, che ricadono su se stessi come enormi geyser. Lo conosco da luglio, Abu Jarub, un’anima semplice senza storia, solerte, quotidiana, occupata in povere faccende. Una suprema umiltà colora anche i suoi gesti di guerriero per necessità. Ha un viso strano oggi, pallido e spento, gli occhi opachi, dolcissimi, assorti come gli occhi di un bambino che pensa a una sua pena segreta. Parliamo senza guardarci come se i ricordi, le speranze di due mesi fa, quando l’offensiva di Bashar al Assad per riprendersi tutta Aleppo fu respinta, li evocassimo per noi stessi, per tenerli ancora caldi col nostro fiato: «Sì, ora sono stanco, vorrei finire».

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