Sul FOGLIO di oggi, 01/11/2012, a pag. I dell'inserto, con il titolo " Romney, l'eroe accettabile", Stefano Pistolini traccia un ritratto di Mitt Romney.
Stefano Pistolini
Alla fine, questa elezione americana un po’ piatta, preoccupata e depressa ha acquistato un’effettiva contesa e si è vista regalare perfino un’autentica drammaturgia. Ora, nel rush finale verso il voto del 6 novembre, lo spettacolo davvero comincia. Dal punto di vista della competizione, il dato reale col quale fare i conti è la tenuta di Mitt Romney. A dispetto dell’amore relativo che l’ha sempre circondato, del mandato fiduciario senza entusiasmo da parte dell’America conservatrice, della risposta indolente alla sua scelta di apparire “energetico”, quel personaggio fatto di segmenti brevi – riflessione-azione-bilancio – ha esercitato una presa maggiore del prevedibile sull’America fiaccata dall’eterno invito all’elucubrazione. In sostanza Romney, verso la conclusione della corsa elettorale, è riuscito ad affermare la propria personalità e la sua credibilità “in opposizione” ai caratteri dominanti di Barack Obama, ovvero la di lui tendenza speculativa, i tempi flemmatici, il suo rispetto delle competenze. Restiamo dell’idea che una discesa in campo del governatore del New Jersey Chris Christie avrebbe avuto effetti ben più devastanti per la parte avversaria, ma Romney, commettendo soltanto errori veniali e attaccando ostinatamente Obama su questioni di metodo e su scelte di gestione (quindi non demonizzandolo, ma provando a dimostrare di essere più smart) è riuscito a incarnare quell’antidoto alla “purga obamiana” invocata da tanta America indifferente al fattore-novità importato dal presidente. Ciò ha prodotto la stabilizzazione della sfida di Romney e, col passare dei giorni, la legittimità delle sue aspirazioni alla Casa Bianca, sulla base di una differenza di visione, di metodo e forse perfino di “mondo”, che è passata dall’essere una semplice presunzione di alternativa a diventare un’opzione praticabile, almeno per coloro che non smettono di essere scettici riguardo all’efficacia della filosofia Obama di radicale ricambio di alcune questioni dell’americanità (centralità, partecipazione, equiparazione, riazzeramento delle strategie educative, sanitarie, energetiche, ecologiche). Chi vuole restare vicino a uno stile novecentesco, chi spera di percorrere di nuovo le strade verso la grandezza che fecero degli Stati Uniti la nazione leader, prima di tutto grazie al suo spirito di iniziativa e alla capacità di tramutarlo in prodotto, trova oggi in Romney un eroe accettabile, perché sarà pure inspiegabilmente mormone, ma all’indomani dell’11 settembre è stato anche un degno governatore di uno stato esigente come il Massachusetts, e navigò con maestria in quelle acque agitate e potrebbe ripetere la performance anche sul palcoscenico più importante che ci sia. Proprio al cospetto di questo eroe accettabile, Obama questa volta ha voluto essere meno mimetico che nella precedente occasione: l’impressione è che abbia scelto forse a ragion veduta e come effetto del suo intellettualismo, di lasciar fluire la propria personalità, e alcuni suoi caratteri piuttosto pericolosi dal punto di vista della popolarità, come l’approccio elitario riguardo alla predominanza del pensiero sulle passioni – un dato che lo ha certamente rimodellato nell’immaginario popolare. Difficile continuare a pensare a lui come alla satanica invenzione del laboratorio comunista, ma più praticabile classificarlo come un inguaribile teorico, innamorato più delle perfezioni che delle soluzioni, più delle utopie che dei rimedi. Una figura più remota e solitaria, più religiosa e meno politica. Allora per Romney s’è aperto lo spazio per diventare l’“altro”, l’alternativa, e lì lui sta concentrando la spinta finale, graficizzata da quei sondaggi capricciosi a cui non viene troppa voglia di dar retta, se non altro per come descrivono un elettorato più volubile, instabile ed equilibristico di quello che realmente crediamo che sia. Ma poi, come dicevamo, l’intreccio di questa faticosa, riottosa elezione, incapace di sollevare gli spiriti come fece quella del 2008, nell’epilogo si è imbattuta nel colpo di teatro, secondo l’adagio che non esiste migliore scenggiatore della realtà e della vita vissuta. Che questa volta è scesa in campo col nomignolo di Sandy, buono per una sitcom ma, evidentemente, anche per il mostruoso superstorm che ha aggredito la nazione con l’intenzione di assumere una dimensione biblica e simbolica nel suo incedere. Sandy si è trasformato nel compito in classe dell’ultimo giorno di scuola, quello decisivo, nella partita della vita, nella prova in cui dimostrare tutto il proprio valore, la preparazione, la propria tenuta. Sandy è la calamità naturale di dimensioni degne dell’America (ricordate il fitzgeraldiano “diamante grande come l’hotel Ritz”?), composta d’acqua, fuoco, vento e paura. Come s’è fatto trovare il paese di fronte a questa minaccia dai lineamenti divini? Come ha reagito? Come l’ha fronteggiata? E come tutto ciò è stato gestito, controllato, amministrato da parte di chi ne aveva il mandato – e questo non significa tanto la Fema (già: ecco l’inciampo di Romney, che voleva un po’ depotenziare la centrale-emergenze governativa), ma significa direttamente lo studio ovale, anzi il presidente in prima persona, lo stesso che tra poche ore comincerà a fare il tour delle zone devastate. E’ su questa ribalta, sulle frasi fatali che verranno (o non verranno) pronunciate al cospetto del drago, nella corsa ad assumere i migliori atteggiamenti d’americanità possibili (serva a lezione quanto seppe fare George W. sulle macerie delle Torri e quanto non fu capace di mostrare sorvolando Katrina) che si giocherà l’atto finale della sfida. Perché alla fine, nelle temperature emotive di questo momento storico, la sensazione che a vincere sarà quello capace di mostrarsi di almeno un punto più sanamente “americano” dell’avversario – a dispetto delle differenze, del cambiamento e delle possibili, defatiganti diversità.
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