lunedi` 25 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
28.10.2012 Raymond Aron, ritratto di un liberale
di Allan Bloom

Testata: Il Foglio
Data: 28 ottobre 2012
Pagina: 6
Autore: Allan Bloom
Titolo: «Un borghese perfetto: Raymond Aron, l'ultimo dei liberali»

Sul FOGLIO del 27/10/2012, a pag.VI, con il titolo "Un borghese perfetto: Raymond Aron, l'ultimo dei liberali", Allan Bloom ne ricorda l'impegno culturale e politico  (1905-1983). L'articolo, scritto due anni dopo la morte di Aron, è stato tratto dal numero 3/2012 della "Rivista di Politica". Raymond Aron è stato uno dei più grandi pensatori ebrei del '900, il testo di Bloom - curiosamente - non ne fa cenno, pur essendo molto accurato e approfondito nelle altre parti.
Ecco come lo introduce il FOGLIO:

 Questo testo del filosofo statunitense Allan Bloom è apparso nel 1985 in Francia nel fascicolo speciale di Commentaire dedicato al ricordo di Raymond Aron. Inedito in Italia, compare ora nel numero monografico del trimestrale Rivista di Politica, diretto da Alessandro Campi, in uscita nei prossimi giorni, dedicato al pensiero e all’opera del giornalista e intellettuale francese: “Raymond Aron – Pensare la politica, la libertà, la democrazia” (n. 3, 2012).


 Oltre a vari contributi critici – tra cui quelli di Pierre Manent, “Aron educatore” e di Alain Besançon “La potenza e la parola. All’ascolto di Raymond Aron” – grazie all’autorizzazione concessa dalla figlia di Aron, Dominique Schnapper, il fascicolo ospita anche sei testi di Aron inediti in italiano: “Giornalista e professore”; “La responsabilità sociale del filosofo”; “La società industriale e la guerra. Riesame”; “L’unità e la disunità del mondo. La società industriale e i dialoghi politici dell’occidente”; “Discorso di Gerusalemme. Sulla condizione ebraica e la duplice fedeltà dell’uomo”; “Il messaggio di Solzˇenicyn”.

Un borghese perfetto: Raymond Aron, l'ultimo dei liberali, di Allan Bloom

Raymond Aron ( 1905-1983)

Qualche settimana fa, durante un soggiorno a Parigi, andai a pranzo a casa del mio amico Jean-Claude Casanova. Non appena varcai il portone d’ingresso del palazzo in boulevard Saint Michel ebbi una di quelle esperienze che solo un americano innamorato delle cose francesi può chiamare proustiana. Provai un improvviso turbamento, l’intensa sensazione di un’assenza collegata a tutta la sostanza della mia vita adulta: è qui che Raymond Aron aveva vissuto e qui non l’avrei mai più ritrovato. Non potevo pretendere di essere stato suo studente o amico, ma egli era stato il professore e l’amico di tutti i miei amici, ammirato da tutti coloro che a mia volta ammiravo su entrambe le sponde dell’Atlantico. Fu il riparo protettivo sotto cui vivevamo, il raffinato e sempre benevolo difensore della ragione, della libertà e della decenza in un tempo in cui tutte queste cose attraversavano una crisi senza precedenti. Egli incarnò il buon senso, che dovrebbe essere la caratteristica dominante della democrazia liberale, e si assunse la responsabilità di presentare e rappresentare quella possibilità politica. Studiò i fini della democrazia liberale, descrisse le sue minacce e discusse instancabilmente le strategie necessarie a proteggerci da queste ultime. Era dotato della più ampia prospettiva e la utilizzava per dirigere il suo studio anche dei minimi dettagli necessari alla realizzazione delle politiche. La sua scomparsa ha rappresentato la perdita della cornice in cui abbiamo vissuto, credendo che fosse permanente. Aron (1905-1983) era un membro illustre di quell’ultima generazione di scrittori francesi che per diritto d’eredità – un diritto che si estende per più di trecento anni indietro nella storia – imponeva l’attenzione del mondo intero. Ma egli si trovava anche al suo margine, distanziandosi da essa e da essa tenuto a distanza. Fu più un osservatore che un profeta e un appassionato sostenitore della democrazia liberale in un tempo in cui tutto il fascino sembrava essere prerogativa dei suoi nemici di destra e di sinistra. Anche Aron, come i suoi contemporanei, si abbeverò alla fonte del pensiero tedesco ma, mentre egli lo fece meditandolo, i secondi furono più coinvolti dalla potenza emotiva di quel pensiero. Così fu più uno studioso dei suoi contemporanei e più un giornalista, separando le due attività piuttosto che confondendole. Aron iniziò come professore e divenne poi commentatore politico durante la Seconda guerra mondiale quando fu uno dei redattori della France Libre a Londra. In seguito la sua carriera accademica lo portò a diventare professore alla Ecole Nationale des Sciences Politiques, alla Sorbona, all’Ecole Pratique des Hautes Etudes e al College de France. Divenne allo stesso tempo l’editorialista politico fisso del Figaro e lo rimase per trent’anni. Di tutti quei famosi intellettuali parigini, fu l’unico a essere davvero un insegnante, impegnato verso i suoi studenti e per loro sempre disponibile. Pubblicò innumerevoli libri, di cui ventisei sono stati tradotti in inglese: tra i più conosciuti vi sono “Peace and War”, “The Opium of the Intellectuals”, “Clausewitz Philosopher of War” e “The Imperial Republic”. Poiché Aron non seguì mai le mode intellettuali, fu più influente nei circoli accademici stranieri, come sociologo, scienziato politico e filosofo, di quanto non lo fosse in Francia, e le sue opinioni sullo scenario politico furono più ascoltate dai professionisti americani, inglesi e tedeschi che da quelli del suo paese natale. In quest’ultimo fu una voce solitaria fino a quando, verso gli ultimi anni della sua vita, gli intellettuali francesi cominciarono a ravvedersi dalla loro prolungata frequentazione con la sinistra e scoprirono uno tra i pochi grandi pensatori rimasti capace di offrir loro ispirazione e una guida. Una straordinaria serie di interviste televisive nel 1981 (pubblicate negli Stati Uniti con il titolo “The Committed Observer”) lo rese improvvisamente alla moda nel grande stile parigino, una posizione che mai cercò, ma che nondimeno lo ripagava della sua solitaria dedizione alla verità, come egli la vedeva. Il suo insegnamento contribuì a formare una generazione di studenti dediti agli alti ideali della ragione e della libertà che costituivano l’essenza dell’antico liberalismo che egli rappresentò. Per me, Aron fu l’uomo che per cinquant’anni – cioè la mia intera vita – fu nel giusto rispetto alle scelte politiche che erano effettivamente a nostra disposizione e che aveva compreso le reali alternative affrontandole con fermezza, a dispetto di tutte le tentazioni dominanti. Questo significa semplicemente che egli ebbe ragione a proposito di Hitler e Stalin e che fu nel giusto nel ritenere che i nostri regimi occidentali, pur con tutti i loro difetti, sono i migliori e rappresentano l’unica speranza per l’umanità. Sulle grandi questioni ebbe sempre ragione e su quelle più nuove o quotidiane fu nel giusto tanto spesso quanto chiunque può sperare d’esserlo. Provò anche a rispondere alle sfide intellettuali poste dalle correnti di pensiero ostili alla democrazia liberale. Potevo ricorrere a lui per ottenere supporto e chiarificazioni in un mondo in cui una simile padronanza delle cose è quasi inesistente. Così resistette alle mode e lo fece senza dottrinarismo o indignazione. Aron fu un francese che comprese l’America, e la comprese davvero. E sebbene fosse, per disposizione personale, affine al filone di pensiero francese universale e illuminista, egli sapeva bene che il mondo intellettuale che le democrazie liberali erano impegnate a difendere conteneva molto più del solo razionalismo cartesiano. Egli rappresentò perciò il collegamento ideale tra un americano e quell’antica cultura che è essenziale anche per gli stessi americani, se questi vogliono evitare che il loro orizzonte sia del tutto impoverito, ma che è per loro sempre più difficile da esperire. (…) Quando penso ad Aron, sono due i tratti principali che mi vengono insistentemente in mente: egli era politico ed era davvero un liberale. Quanto Aron rappresentasse il politico fu impresso in me molto tempo fa durante una delle mie abituali visite a Kojève al ministero dell’Economia. Il grande hegeliano, l’annunciatore della fine della storia, di quella storia di cui egli aveva decifrato i geroglifici, era quel giorno insolitamente agitato poiché la Quarta Repubblica stava attraversando una delle sue numerose crisi. Alla fine annunciò: “Devo chiamare Aron”. Fu l’unica occasione in cui lo sentii esprimere il bisogno di ricevere lumi da qualcun altro. Pensai che egli stava così ammettendo che la storia era di nuovo in cammino e che la sua scienza doveva lasciare il posto alla prudenza, una virtù per cui era difficile trovare spazio nel pensiero moderno. Forse il carattere di Lenin fu altrettanto importante per la Rivoluzione russa dei vari determinismi materiali e spirituali che affascinano l’intelletto del nostro tempo e sommergono, con grandi e permanenti necessità, la libertà e l’indeterminatezza umane. Per il suo genuino e generoso rispetto per la filosofia, Aron considerava Kojève come a lui superiore (e Kojève era infatti dotato di un’intelligenza di rango elevatissimo), ma Aron possedeva un dono e un tatto che mancavano a quasi tutti quelli della sua generazione. Le azioni effettive e le decisioni dei governanti rappresentavano l’inevitabile oggetto centrale della sua prospettiva. Ciò che gli uomini possono fare, e ciò a cui mirano, era l’oggetto verso cui non poteva evitare di rivolgere la sua attenzione. Per lui la questione del nostro tempo era la contrapposizione tra la libertà occidentale e la tirannia sovietica. Chiunque provasse a evitare quella dura opposizione, rifugiandosi nel trans- o nel sub-politico, stava evitando il confronto con la realtà, che è naturalmente politica. Il politico è l’ordine generale in cui le aspirazioni umane verso il buono e il nobile si attualizzano. (…) Credo che Aron sia stato spesso turbato dal fatto che il suo linguaggio non avesse la stessa risonanza di quello di uomini come Sartre. E tuttavia egli rappresentò per questi ultimi una lezione oggettiva di vera responsabilità e indicò loro un mondo più profondo e più appassionante di quello in cui essi abitavano. Il suo essere rimasto, in solitudine, saldo nella sua visione politica mentre stima e successo venivano tributati ad altri che egli ben conosceva e che catturavano l’immaginazione di un’intera generazione rappresentò per Aron uno straordinario trionfo della sua forza d’animo. Egli fece ciò che doveva fare, non sempre certo che fosse la cosa più profonda da fare, e spesso chiedendosi se gli scrittori o i filosofi moderni fossero più dotati di lui. Ma nel lungo periodo, l’unico che davvero conta, egli si è rivelato più utile di tutti loro nell’aiutarci a comprendere la nostra situazione. E non intendo dire che egli sia stato utile solo come guida quotidiana nella pratica della politica interna e internazionale. E’ infatti dall’ambito della teoria che la politica è stata bandita con somma efficacia. Che la politica sia una dimensione distintiva della vita umana, per tacer del fatto che essa è la più importante, è diventata convinzione assai dubbia. La politica è stata mutilata o assorbita da altre discipline che a loro volta la spiegano minimizzandola. L’economia, l’antropologia, la sociologia e la psicologia, tra le altre, rivendicano un primato sulla scienza politica. Astratte nozioni moderne come il mercato, la cultura, la società o l’inconscio prendono il posto del regime politico quale causa prima di ciò che conta per gli esseri umani. Concezioni più antiche o negavano la reale esistenza di entità come le “culture”, o affermavano che il politico è la loro causa prima piuttosto che il loro effetto. Da uomo onesto qual era, Aron considerava con serietà ogni convinzione accademica ma ovviamente sbadigliava quando degli antropologi presentavano le loro interpretazioni delle cose poiché queste ultime sono troppo distanti dal senso comune della vita, e perché esse ci chiedono di concentrarci su cose come gli stili artistici quando invece la libertà e la pace sono ciò di cui dovremmo davvero preoccuparci. Gli economisti attiravano la sua attenzione, ma solo nella misura in cui le Il suo linguaggio non aveva la risonanza di quello di uomini come Sartre. Tuttavia rappresentò per questi una lezione di responsabilità Le passioni corrosive erano totalmente assenti dal suo carattere. Non era un uomo d’odio, benché prendesse partito loro teorie hanno a che fare con le vite concrete delle nazioni e aiutano a spiegare la libertà o il suo opposto. Aron non poté mai ammettere che il modello economico dell’uomo esaurisse l’uomo nella sua interezza, o che l’interesse economico fosse il solo tipo di interesse. Restava così nella tradizione dell’economia politica e comprese Adam Smith meglio di quanto facessero gli economisti che sciolgono la loro disciplina dai suoi ormeggi politici. Amava la storia ma la vera storia, cioè la storia politica, e sbadigliava, contro la sua volontà, davanti alla storia economica, sociale e intellettuale, così come sbadigliava davanti all’antropologia culturale. Egli si riteneva un sociologo, ma se ciò di cui si occupava poteva essere definito sociologia lo era solo in quanto sociologia politica. Come ho già avuto modo di dire, l’istinto di Aron era vigoroso ed egli lo seguì andando contro tutto ciò che prevaleva nel mondo universitario, talvolta senza esser lui stesso del tutto consapevole di quanto infallibile fosse la mira di quell’istinto. Egli soggiornò in Germania in giovane età. Fin da subito colse l’enormità di ciò che si stava là dispiegando e fu allo stesso tempo uno dei primi francesi a essere influenzato da Edmund Husserl e Max Weber e a riconoscere la loro statura intellettuale. (…) Io chiamerei Raymond Aron uno scienziato politico, sebbene mi pare che non abbia mai occupato una cattedra in quella disciplina. Con scienza politica intendo ciò che intendeva Aristotele, e cioè la scienza architettonica rispetto alla quale tutte le altre scienze sociali sono ancillari o ministeriali. Questa concezione si fonda sulla premessa che l’uomo è per natura un animale politico e che la politica è una dimensione del suo essere e non un derivato di forze sub-politiche. Secondo tale scienza politica, l’amore della giustizia e quello della gloria sono altrettanto fondamentali della fame o del desiderio sessuale, o, per riferirsi alle ultime tendenze, del timore di fronte al sacro. La politica precede l’etica o la psicologia e deve essere studiata nei suoi stessi termini. L’elemento più distintivo dell’uomo consiste nel fatto che egli fonda dei regimi che aspirano ad essere giusti e stabilisce delle leggi in accordo con essi. L’orizzonte di autorità stabilito da queste leggi scaturisce da null’altro che dall’intenzione o dalla volontà degli uomini. La più antica scuola della filosofia sosteneva che questo è l’inizio, non solo della filosofia politica, ma della filosofia tout court. E’ questo il fondamento per lo studio e la pratica della politica che è ora collassato. Non arrivo ad affermare che Aron abbia restaurato quel fondamento, ma, in qualche modo, egli si appoggiò solidamente su di esso e la sua vita è stata un’incarnazione della prospettiva politica. Egli incoraggiò tutti quelli che mostravano un istinto simile al suo a uscire allo scoperto e mostrò loro come coltivare e utilizzare tale istinto. Ciò che unisce e anima le persone, tra loro straordinariamente diverse, che si sono raggruppate attorno al suo protettivo esempio è la condivisione di quel raro fuoco interiore: l’istinto politico. Raymond Aron era un liberale e temo che egli sia stato l’ultimo grande rappresentante di quella famiglia. Voglio dire che egli era persuaso della verità della teoria del liberalismo, che per lui la sua pratica non era soltanto la migliore alternativa a disposizione ma anche la migliore in senso assoluto, e che la sua personalità si accordava totalmente con le sue convinzioni liberali. Egli visse – e probabilmente sarebbe morto per difendere – quel particolare ascetismo spirituale, una delle forme di ascetismo più ardue, che consiste nel credere nel diritto degli altri di pensare secondo la loro volontà. Una cosa è morire per il proprio Dio o per il proprio paese, un’altra è morire al fine di proteggere le opinioni degli altri che non si condividono. Il reciproco rispetto dei diritti, una curiosa forma derivata di rispetto, rappresenta l’essenza del credo liberale, e quel rispetto, come un assoluto della società civile è in realtà assai raro e sta diventando sempre più raro. Aron lo possedeva nell’intimo. Egli non fu un conservatore in alcuno dei possibili significati del termine, che si faccia cioè riferimento, per definire il conservatorismo, a Burke, Hegel, De Maistre o Milton Friedman. Tutto ciò che in lui poteva apparire conservatore ai radicali di un tipo o di un altro aveva a che fare con la sua difesa dei diritti inalienabili, e della forma di governo eretta all’interno dei regimi democratici ben costituiti. Il credo del liberalismo consiste nella fede nella libertà e nell’uguaglianza naturale di tutti gli uomini e, di conseguenza, nel credere che ognuno di essi ha diritti naturali e inalienabili alla vita, alla libertà, e alla ricerca della proprietà, che gli uomini sono dotati della ragione per riconoscere quei diritti e per istituire dei governi, e che il governo è legittimo solo nella misura in cui ha il consenso dei governati. Legata a tutto ciò è la convinzione che vi possa essere un progresso scientifico, che la scienza dissipi le illusioni che alimentano il fanatismo e permettono il dominio dei sacerdoti, e che essa possa “alleviare la condizione dell’uomo”. In breve, il progresso dei Lumi è possibile e buono. Aron rispettava davvero l’uomo in quanto uomo. Ai suoi occhi, la razza, la nazione o la religione non furono mai decisive per il valore umano: la prima era per lui essenzialmente irrilevante e le altre due erano, in linea di principio, questioni di scelta e non fatalità. (…) Nelle differenze storiche e culturali, di cui aveva profonda consapevolezza, discerneva sempre il primato dell’unità della natura umana e le comuni aspirazioni alla pace, alla prosperità e al giusto ordine politico. Tutto questo contribuiva alla combinazione, in lui straordinaria, di sobrietà e umanità, al suo impeccabile garbo e alla sua apertura verso tutte le opinioni e verso gli uomini che le sostenevano a patto che fossero anch’essi cortesi. Le passioni corrosive erano totalmente assenti dal suo carattere sebbene egli abbia vissuto in un’epoca in cui esse dominavano. Non era un uomo d’odio, benché prendesse partito. Sapeva che la democrazia liberale si costruisce in primo luogo a partire dagli interessi egoistici, ma sapeva anche che questi ultimi possono essere sublimati in un sentimento di interesse comune che si regge sull’esperienza della nostra comune sofferenza. (…) In breve, Raymond Aron era un perfetto bourgeois. Uso a proposito questo termine che è stato coniato dai critici e dai nemici della democrazia liberale per descrivere il tipo d’uomo caratteristico di questo regime. Aron era ragionevole, immune dagli ardenti desideri romantici alla luce dei quali il presente è spesso denigrato e la considerazione paziente delle alternative future è dipinta come gretta. Un simile uomo è un patriota più riflessivo che appassionato, un buon padre e marito che la dedizione alla piccola comunità familiare àncora più saldamente alla comunità più grande. Un simile uomo, soprattutto, crede fermamente nel potere liberatore dell’educazione. Quest’ultimo è uno dei tratti più straordinari in Aron. Egli credeva in un’educazione che non termina mai, nell’opportunità di osservare, in compagnia degli amici, la vita e gli eventi di cui si è partecipi e testimoni attraverso la filosofia, la scienza, la storia e la letteratura. La democrazia significava per lui la libertà dello spirito di imparare i propri diritti e i propri doveri, il rovesciamento della vecchia autorità e la scoperta della verità oggettiva. E’ sorprendente come egli rimase tutta la vita un normaliano con l’entusiasmo di un giovane studente. Aron è sempre stato davvero riconoscente per l’opportunità che l’Ecole Normale Supérieure gli aveva offerto. “La carriera aperta ai talenti” gli sembrava un giusto criterio: una educazione di prim’ordine offerta gratuitamente a chiunque fosse capace di farne tesoro, senza distinzione di razza, classe, religione o persino nazionalità. Egli riteneva che questo tipo di educazione fosse cosa buona sia per la comunità che per coloro che ne beneficiavano direttamente. All’Ecole Normale egli studiò il meglio a disposizione e i suoi compagni furono i migliori possibili. Lungo tutta la sua vita rimase affascinato dai suoi compagni di studio Sartre e Nizan e pensò che la possibilità di confrontarsi con loro fosse un privilegio e una fonte di ispirazione inesauribile. L’Ecole Normale era una perfetta unione delle due esigenze apparentemente contrastanti dell’uguaglianza e del diritto di sviluppare gli ineguali doni di natura. Aron era ben consapevole del fatto che la sua intelligenza e la sua educazione fossero superiori alla media, ma era sicuro che ciò dovesse servire il bene comune e che quella superiorità non diminuisse l’uguale valore di tutti gli uomini che si fonda sulla loro capacità di libera scelta morale. Quest’insieme di convinzioni, delicatamente bilanciate, rese possibile la sua coscienza liberale. Poiché l’università gli era personalmente così cara, ma ancor più poiché sapeva che essa è l’istituzione centrale della società democratica, Aron prese con forza posizione contro l’ondata di distruzione che si abbatté sulle università occidentali negli anni 60. L’università è, o piuttosto era, la presenza tangibile di quella ragione su cui la democrazia liberale si fonda. Se non si ha fede, non si coltiva o non si ha rispetto per la ragione imparziale, i diritti razionali che rappresentano tutto in una democrazia moderna inevitabilmente svaniscono. L’installazione del baccano nelle aule universitarie lo disgustò. L’abbandono della tradizione che aveva rappresentato una sorgente di vitalità lo rattristò. Entrambi identificano il “capitalismo” con la “società borghese” e caratterizzano quest’ultima come il regno dell’egoismo, dell’individualismo e del volgare materialismo. Il comunismo nega che la ragione possa essere libera nella società borghese; il fascismo insiste invece nell’affermare che la ragione è il vero problema della società borghese e vuole rimpiazzarla con la passione. Entrambi, pertanto, privano la democrazia liberale della sua legittimazione razionale. Ed entrambi congedano la semplice moralità che il reciproco riconoscimento dei diritti dell’uomo richiede, affermando con insistenza che questo altro non sia che l’interesse egoistico ben inteso. Dietro questi due movimenti vi è il più potente pensiero degli ultimi due secoli. Dopo Kant il liberalismo non ha più avuto il supporto della filosofia, mentre i nemici del liberalismo possono avere la benedizione, tra gli altri, di Marx e Nietzsche. Tutto ciò ha influenzato la maggior parte di noi in un modo o nell’altro. Quasi nessuno sarebbe oggi disposto a difendere gli insegnamenti di Locke o Montesquieu nella loro interezza, e quasi nessuno rimane completamente insensibile alle seduzioni mobilitate dai critici del liberalismo, siano esse la tradizione, la compassione, le radici, la natura, la religione, la cultura o la comunità. La buona coscienza del liberalismo è stata intaccata e la maggior parte degli occidentali vi crede, nel migliore dei casi, solo a metà, se non è addirittura del tutto indifferente o ipocrita. Un inamovibile punto interrogativo sembra oggi pesare sulla giustizia liberale, che si sostiene essere soltanto un’altra forma di sfruttamento. Un relativismo debilitante è così sorto dal salutare scetticismo del liberalismo. Ma nulla di tutto ciò valeva per Aron. (…) Hitler restò l’enigma ossessionante della sua vita. Come fu possibile? Egli mi espresse nuovamente il suo stupore anche durante il nostro ultimo incontro. Come fu possibile che un bandito assassino che si richiamava al più oscuro passato e immaginava il più crudele avvenire sia potuto divenire la guida eletta di uno dei popoli meglio educati che il mondo avesse mai conosciuto? Fu il suo grande enigma, ma non lo convinse mai che il bene non sia più fondato del male. In qualche modo questo 'fatum' nella sua natura ha sempre sostenuto la sua disposizione alla dolcezza lungo una vita durante la quale egli combatté quotidianamente i peggiori orrori e in cui tutte le fedi erano messe alla prova fino al loro punto di rottura. Aron deve essere giudicato non su una singola parte della sua opera ma sull’insieme della sua vita – il suo sapere, il suo insegnamento, il suo giornalismo e la sua stessa presenza. Non si riscontra in essa nessuna delle spettacolari metamorfosi così tipiche degli intellettuali. Egli è stato ciò che era e, in questo modo, raggiunse ciò di cui gli altri parlano continuamente, l’autenticità. (…) Appendice del gennaio 1990. Questo è il momento storico di Raymond Aron. Il collasso del comunismo e la vittoria della democrazia liberale sono ciò a cui egli dedicò tutta la vita. Aron è stato il più eloquente portavoce dell’alleanza che ha reso possibile quella vittoria. (…) Lo spirito francese dell’opposizione a lui è ancora vivo. Philippe Lacoue-Labarthe, uno degli allievi preferiti di Jacques Derrida, in un articolo in cui si discute del rapporto di Heidegger con Hitler (il cui titolo sintetizza il contenuto: “Né un incidente né un errore”), afferma che tutti i grandi uomini di questo secolo, e in particolare Heidegger e Sartre, furono raggirati chi da Hitler chi da Stalin. La capacità di essere raggirati era un aspetto essenziale della loro grandezza, poiché essi aspettavano l’“irruzione” di un nuovo mondo. Cosa si può dire dell’essere raggirati dalla “democrazia”? “Lasciamolo pure a Raymond Aron, cioè al pensatore ufficiale del capitalismo (un sistema di completo nichilismo…)”. Questa affermazione non deve essere presa soltanto come la retorica della guerra fratricida francese. E’ oggi la prospettiva morale ufficiale delle discipline umanistiche negli Stati Uniti

 Per inviare al Foglio la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante


lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT