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La Stampa Rassegna Stampa
23.10.2012 Libano, esercito schierato per impedire qualunque 'destabilizzazione del Paese'
Servirà a bloccare l'Iran che aiuta Hezbollah e Assad ? Articoli di F.Paci e VE Parsi

Testata: La Stampa
Data: 23 ottobre 2012
Pagina: 16
Autore: Francesca Paci - Vittorio Emanuele Parsi
Titolo: «Libano, monito dei militari: bloccheremo le violenze - L'instabilità del Libano a un punto di non ritorno»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 23/10/2012, a pag. 16, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Libano, monito dei militari: bloccheremo le violenze  ", a pag. 29, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo "L'instabilità del Libano a un punto di non ritorno " .
Ecco i pezzi, preceduti dai nostri commenti:

Francesca Paci - " Libano, monito dei militari: bloccheremo le violenze "


Francesca Paci

Notiamo con piacere che, a differenza di ieri (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=110&id=46533), Francesca Paci è riuscita a scrivere una cronaca sulla situazione in Libano senza menzionare Israele.
Ecco il pezzo:

In Libano è il momento delle forze armate. A quattro giorni dall’assassinio del capo dell’intelligence Wissam al-Hassan, tocca ai militari interporsi tra le barricate dell’opposizione guidata dal filo-saudita Saad Hariri e quelle dei governativi di Hezbollah. Mentre i fratelli coltelli si sfidano sulla Siria, accusata dai primi della morte del super 007 e difesa a oltranza dai secondi, i generali fiutano l’odore della guerra e lanciano l’allarme rosso, consapevoli della propria storica debolezza rispetto alla prepotenza delle locali milizie private.

«L’esercito libanese è deciso a fermare ogni tentativo di destabilizzare il Paese», recita una nota ufficiale, mentre i tg aggiornano il bilancio del quarto giorno di scontri che il ministro degli interni Charbel ha definito «una reazione emotiva» all’attentato (5 morti a Tripoli, 6 feriti a Tariq Jdide e disordini a Tannouyeh, due quartieri sunniti di Beirut al confine con zone sciite). Ai militari non servono giri di parole quando i tank stazionano agli incroci critici della capitale: «Prenderemo misure ferree dove si registreranno tensioni settarie e religiose per evitare che il Libano si trasformi in un campo di battaglia e che l’omicidio di al-Hassan diventi l’occasione per uccidere il Paese».

In realtà l’appello alla responsabilità dei partiti giunge anche e soprattutto dalla maggioranza silente dei libanesi, quelli che a prescindere dalla propria affiliazione con il movimento 14 Marzo (Hariri), la coalizione 8 Marzo (Hezbollah) o lo scombinato fronte terzista, hanno evitato la plumbea piazza delle ultime ore e sperano che il premier Mikati ignori la richiesta di dimissioni avanzata dall’opposizione cristiana e sunnita e resti al suo posto, assicurando quella stabilità di cui i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Francia, Usa, Cina, Russia, Regno Unito) hanno chiesto garanzia al presidente Suleiman.

La battaglia per ora è politica. Una ventina di attivisti sono accampati da domenica davanti al palazzo del primo ministro con l’intenzione di restarvi fino all’uscita di scena di Mikati, ritenuto responsabile dell’assassinio di al-Hassan in virtù delle sue simpatie per Damasco. A rafforzare l’indice puntato su Assad ci tengono in modo particolare i ribelli siriani ,che attraverso il leader del Consiglio Nazionale Siriano Abdel Basset Saida rivelano in un’intervista al quotidiano al-Jumhuriya come il capo dell’intelligence di Beirut avesse «raccolto prove che incriminavano Damasco» e fosse diventato «un obiettivo del presidente Assad». Un’inchiesta della Cnn conferma che proprio venerdì al-Hassan doveva vedere un parlamentare libanese per parlargli delle minacce ricevute da un telefono siriano.

L’ombra nera di Damasco incombe sul Paese dei cedri, ma anche sulla vicina Giordania, dove ieri, al confine con la Siria, è stato ucciso un soldato di re Abdallah. Le forze armate libanesi non nascondono che «in alcune zone la tensione ha raggiunto livelli senza precedenti»: non a caso è il loro primo intervento frontale contro le milizie dalla fine della guerra civile (1990).

Riusciranno i militari a evitare al Libano il contagio esiziale? «Il Libano si è distinto nel mondo arabo mantenendo un sistema democratico e evitando dittature militari anche perché non aveva un forte esercito centralizzato», nota l’analista della Georgetown University John Voll. Questa peculiarità è però anche quella che ha consentito alle milizie private di prosperare. E il cerchio è ancora aperto.

Vittorio Emanuele Parsi - " L'instabilità del Libano a un punto di non ritorno"


Parsi continua con le scoperte dell'acqua calda. Nell'articolo non ci sono elementi nuovi, nessuna novità. Ha senso pubblicare un pezzo simile? Che analisi è? 

Il coccodrillo siriano, che piange sul destino delle sue vittime dopo averle dilaniate, sarà pure periclitante, in procinto di cadere e comunque destinato alla sconfitta, ma dimostra ancora tutta la sua intatta capacità di coinvolgere nel suo crollo gli equilibri regionali e quelli interni dei Paesi più fragili. Difficile capire se dietro l'attentato che venerali scorso ha decapitato i vertici dell'intelligence libanese - e precipitato Beirut nel caos - debba essere ravvisato un disegno strategico o la pura, livorosa volontà di vendetta. Quello che è certo è che non solo la regia damascena appare certa, ma anche che un simile attentato non avrebbe potuto essere compiuto senza la determinante compiacenza e, probabilmente, attiva cooperazione degli amici libanesi di Assad. L'attentato di venerdl, rispetto al delicato, fragile equilibrio di potere libanese, non è stato meno metaforicamente distruttivo di quanto lo siano stati i trenta chili di Tnt che hanno martoriato piazza Sassine. I quasi due anni di sforzi per provare a sigillare i confini del Paese dei cedri rispetto alla guerra civile in corso in Siria ne escono letteralmente a pezzi. Il problema principale non è costituito dalla reazione dura delle opposizioni del fronte del 14 marzo, raccolta intorno a Saad Hariri - il figlio di Rafik, l'ex premier assassinato con la stessa tecnica nel 2005 -, quanto piuttosto dall'intempestiva sfida che esso pone a Hezbollah, il partito-milizia sciita colto probabilmente nel bel mezzo del guado che, forse, la parte più «nazionale» del movimento stava provando ad effettuare. Le opposizioni rischiano infatti di essere vittima proprio della forzata analogia tra il 2005 e il 2012, scordando che allora la comunità internazionale era schierata nel complesso alle loro spalle, in maniera talmente compatta da costringere una ben più potente e stabile Siria al ritiro dal Libano dopo quasi 30 anni di occupazione. E con loro stava un popolo unito, fatto di drusi, cristiani e sunniti, cui persino la maggioranza relativa e ben organizzata degli sciiti dovette alla fine cedere. Oggi la realtà è ben diversa, con i cristiani opportunisticamente divisi tra maggioranza e opposizione, con i drusi di Jumblatt prudenti rispetto all'ipotesi di far cadere il governo di Maliki di cui fan parte e con la comunità internazionale che teme un possibile vuoto di potere a Beirut. Nel contempo, il ritardo e il basso profilo con cui Hezbollah ha reagito all'attentato, preoccupato più che altro di impedire che l'indagine relativa finisse sotto il controllo del Tribunale Speciale Internazionale per il Libano - il medesimo che ha incriminato esponenti siriani e di Hezbollah perla morte di Hariri -, attestano delle difficoltà interne al movimento, scosso tra l'anima più nazionale e quella più legata al patronale di Siria e Iran, di cui lo stesso leader Nashrallah è espressione. A tutto ciò, probabilmente, i trenta chili di Tnt esplosi a Beirut hanno posto fine. Hanno chiarito che il tempo degli equilibrismi sofisticati e audaci è probabilmente finito. Hezbollah resterà probabilmente inchiodato alla sua strategia tanto a lungo vincente incentrata sulla sua capacità militare, necessariamente dipendente da una Siria governata da Assad e dall'Iran. La sua potenziale evoluzione «politica» è ormai un ricordo. I sunniti potrebbero essere sempre più tentati dalla prospettiva che un cambio di regime a Damasco offra la possibilità di regolare definitivamente i conti con l'emergente forza degli sciiti e, di conseguenza, essere convinti della convenienza di soffiare sul fuoco. E proprio questa è la differenza principale rispetto a ciò che scoppiò nel 1975, quando iniziò la guerra civile che fino all'inizio degli Anni 90 avrebbe insanguinato il Libano: che fu essenzialmente un confronto tra cristiani e sunniti per l'egemonia politica sul Paese. Oggi i cristiani sono politicamente irrilevanti. E, oltretutto, la loro strategia di dividersi tra i due fronti contrapposti - 8 marzo e 14 marzo - rischia di risultare completamente fallimentare. Tutto ciò non è abbastanza per proclamare l'avvento di una nuova guerra civile libanese, ma di sicuro è sufficiente per chiarire che il precario equilibrio, in cui il Libano si trascina dal 2005, ha esaurito ogni capacità di stabilizzazione. E ancor di più è sufficiente per chiedersi quanto a lungo la comunità internazionale, l'Occidente in realtà, potrà assistere inerme allo scempio che il tracotante crollo del regime di Assad sta provocando dentro e fuori i suoi confini. Qui non si tratta più di evitare la santificazione di un'opposizione verso la quale motivatamente le diffidenze crescono. Qui si tratta di comprendere che lasciare imputridire La situazione potrebbe avere effetti devastanti per l'intera regione. E di trarne le doverose conseguenze. Quali esse siano.

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