Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 17/10/2012, a pag. 1-12, il reportage di Domenico Quirico dal titolo "Viaggio nella Mogadiscio che fa le prove di pace".
Domenico Quirico
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http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=46449
Molte cose prodigiose vi sono, ma nessuna è davvero più prodigiosa dell’uomo. A Mogadiscio l’uomo ha vissuto vent’anni in margine alla morte. Ogni giorno che passava lasciava su questa gente lievi segni di rovina, ogni giorno.
Nelle case, sulla strada, su ogni cosa si posavano i segni della violenza, le immondizie e il sudiciume dell’odio, i rifiuti. Anche gli uomini si disfacevano, giorno per giorno, dentro di loro si accumulava il marciume, trasudava dai pori della pelle, logorava l’anima. Il somalo, vittima o aguzzino, era soltanto dolore, una forma di esistenza oscura e terribile. Lo Stato non esisteva più, tutto sembrava diventato fluido, in certi giorni ogni cosa pareva disfarsi in una vita brigantesca, senza leggi, senza speranza.
Tutto il suo essere uomo qui era arso per la guerra, che lo aveva roso dentro: le ruberie omicide dei signori della guerra, e poi gli islamisti, gli etiopici invasori e Al Qaeda. Ogni tanto una speranza di pace: l’intervento straniero, dell’America possente. E poi uomini di fede, che gridavano di interpretare la volontà di dio, li pregavano di portare pazienza: presto il mondo sarebbe stato salvato. Tutto spariva, il destino fermo e rigido teneva il timone. Come hanno fatto a resistere? Per vent’anni il somalo ha pensato: bisogna vivere. Vivere, cogliere giorno per giorno i frutti marci della guerra, smerciare in piccole sconfitte al minuto, sopportabili, la disfatta intera di un popolo, di un paese. Sentir crescere in sé una rabbia di bestia presa in trappola.
Vent’anni fa sono arrivato per la prima volta a Mogadiscio: ti investiva il rullio maniaco delle mitragliatrici montate sulle «tecniche», apporto dei somali miserandi alla moderna tecnologia della morte, si sentiva dall’aeroporto il brontolio bonario del cannoneggiamento, così quotidiano, così rassicurante che lo si sarebbe detto un rumore della natura.
Da Nairobi in Kenya oggi fa servizio un vecchio aereo che l’Alitalia ha fermato 40 anni fa, la compagnia si chiama «Africa express», il pilota è un colombiano così giovane da sembrare un ragazzo, assunto forse perché non bada ai gemiti dei motori decrepiti a ogni decollo, il vibrare della carlinga. Quando atterri a Mogadiscio ti colpisce subito il suono: questo è il rumore di una città attiva con i mercati, il traffico e i clacson. Mogadiscio oggi ronza come un grosso animale rugoso, coperto di mosche e tafani, avvoltolato nella polvere.
L’aeroporto: presidiato come un fortilizio, difeso dal cielo dalla terra dal mare, con il filo spinato, i blocchi anti autobomba, i cannoni. Da un lato il grande campo degli ugandesi, il contingente dell’Unione africana che ha tenuto a bada gli shabaab e i fanatici islamici, cacciandoli infine dalla città, lo avvolge come una corazza. Accanto c’è la caserma dei trecento somali americani che addestrano il nuovo esercito. Più nascosti e discreti gli altri americani, uomini delle forze speciali: si vedono i loro droni sfrecciare nel vento tiepido dell’Oceano Indiano verso misteriose missioni di controllo (e di morte).
L’aeroporto è l’unica Somalia sicura: per questo è il luogo della politica e degli affari. In sale arredate con immense poltrone che sembrano troni gli ambasciatori incontrano ministri e presidenti, e gli uomini di affari vengono a scrutare il business del dopoguerra. È il regno del generale Gafur, un ex signore della guerra che ha studiato all’Accademia di Modena e in quella cubana: e forse ha imparato di più nella seconda. La scaltrezza gli guizza dall’angolo dell’occhio, guida nell’aria i movimenti brevi della mani leziose da mercante. L’immigrazione è il suo reddito e il suo potere: «Voi italiani ci avete dimenticati, eravate tutto e ora siete niente. Comandano gli inglesi e gli americani. Gli shabaab? Sono finiti, fusi, non fanno più paura, l’omertà era la loro forza e ora perfino i loro genitori vengono a denunciarli».
Ma fuori dall’aeroporto il mondo non è sicuro. Ti investe qualcosa che non è calore è una malattia dell’atmosfera, l’aria ha la febbre, l’aria suda, si suda nel sudore. È il quartiere del Quarto Chilometro: subito ti accorgi di essere l’unico occidentale, e senti paura, una strana paura quasi mistica, una specie di sacro orrore, migliaia di occhi ti guardano, di uomini armati, di vecchi, di alte fanciulle che passano reggendo coi denti un lembo del loro velo, occhi neutri, impassibili, senza domande.
Al «Sahafi» offrono vitto alloggio e scorta armata (prezzo minimo 250 dollari al giorno). Ma anche altre cose, com’è precisato minuziosamente sul pieghevole: «... munizioni di tutti i tipi, bombe, esplosivi, mine, detonatori, missili, razzi, propellente e materiale connesso...». Muratori sono furiosamente al lavoro in un grande squarcio annerito: una bomba, degli shabaab, la settimana scorsa. Una folla di uomini e macchine e asini e carretti invade la strada le rovine i vicoli, tenace implacabile: una inondazione. Tra i ruderi, qua e là, si vedono case restaurate di fresco, i colori ancora vivi, e cantieri e uomini al lavoro su impalcature sommarie. La breccia della guerra è colmata come fa il sangue coagulato di una ferita. Ora finalmente l’antica vita si abbatte su di loro con un oscuro sentimento di piacere, si lasciano andare verso l’antica vita. Mogadiscio, al Quarto Chilometro, si ripulisce e orna quanto lo permettono le miserie dei tempi. Ha già un aspetto più grazioso, quasi miracolosamente nuovo. Mi raccontano che gruppi di donne pagate da una ong provvedono tra le rovine a spazzare le strade. Sui muri strombettano ancora i manifesti della campagna elettorale per il presidente, un piccolo conto di gloria raggelata.
È la Mogadiscio che spera nel nuovo presidente Hassan Sheick, uomo di fede (è un fratello musulmano ) e di studi, neofita della politica, che non è mai fuggito di qui neppure negli anni più bui. Dicono che il vecchio presidente Sharif, appoggiato dagli ugandesi e dall’occidente, un po’ avaro, non abbia voluto comprare i voti degli elettori, i notabili delle tribù. Ma chi ha pagato per Hassan? L’Arabia Saudita? O i turchi che anche qui sono presenti e onnipotenti?
Al «Sahafi» tutti i clienti sono deputati, i capi clan che hanno eletto Hassan: anche per loro Mogadiscio è pericolosa e proibita. Gli shabaab hanno giurato che li uccideranno a uno a uno. Passano la giornata in discussioni interminabili, a sera nel cortile si improvvisano serrate sfide a carte. L’ex sindaco della città per undici anni mi racconta: «Era bella Mogadiscio, la città più bella del mondo: c’erano spiagge alberghi turisti, ci si divertiva, eravamo felici. Noi l’abbiano distrutta».
All’ingresso le scorte, miliziani avvolti dalle cartucciere come spire di serpenti aspettano i clienti, li pagano in cibo, armi, qat, la droga. Come potrà un giorno arrivare la pace? Che faranno questi uomini che vivono della guerra una volta diventati inutili e senza lavoro? Attraversiamo il mercato, quella che una volta era via Roma. La folla si coagula in crocchi fugaci, in tumulti improvvisi. Nelle mani impugnano enormi pacchi di denaro sudicio: non vale niente, un signore della guerra ingegnoso ha montato in Malaysia una sua zecca e inondato la città di scellini falsi. Qui conta solo il dollaro: sulle facciate dei negozi hanno dipinto come insegna la moneta da cento con il cranio pelato di Beniamino Franklin. Una ragazza con un vezzoso ombrellino verde per ripararsi dal sole mi guarda: la bellezza, la più sorniona delle trappole, si apre con un sorriso di connivenza e di facilità, pare aspettarmi.
Via via che ti allontani dal Quarto Chilometro le strade si fanno deserte e silenziose, silenzio e vuoto e rovine: un baratro orizzontale. In una strada tutte le facciate delle case sono crollate: si vede la gente che le abita muoversi come sulle tavole di un palcoscenico, davanti a una platea clamorosa e indifferente. Salgo a quella che era l’ambasciata italiana, saccheggiata e distrutta, lungo il lieve declivio che porta a Villa Somalia, il palazzo del presidente. Nel giardino pascolano lecapre, negli edifici traballanti, sudici, tagliati da profonde ferite brulica una folla in un nembo di polvere gialla.
La prima a inveire è una donna seduta sotto un albero: un grido furente, scandito come una litania. Dagli edifici cala un tumulto di uomini e donne in furore stravolti dall’odio e dalla paura, si avventano, mi fanno il gesto di tagliare la gola, i bambini sputano verso l’infedele. Ci allontaniamo protetti dal mitra di una guardia.
Davanti alla cattedrale distrutta, forse non a caso, c’è una discarica dove pascolano mucche e capre alla ricerca di cibo. Un Cristo decapitato in alto sulla navata scoperchiata dove un tempo c’era l’altare spalanca le braccia nell’azzurro del cielo per accogliere tutto quel dolore. Nella chiesa tra le immondizie e i detriti hanno trovato rifugio povere famiglie. Stesi i loro giacigli, accendono il fuoco. La chiesa è diventata casa di poveri, di afflitti. Lui dunque è ancora qui. Viene voglia in quell’odore di polvere e letame, di stendersi, chiudere gli occhi. Bisognerebbe osare questa assurdità: non c’è niente e c’è tutto, niente più ci nasconde il tutto. Qui possiamo parlargli ed è ciò che significa pregare.
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