Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 15/10/2012, a pag. 1-12, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " La guerra globale dei sessi ", a pag. 13, l'articolo di Andrea Malaguti dal titolo " Neda: la vita distrutta per una foto sbagliata ".
Ecco i pezzi:
Francesca Paci - " La guerra globale dei sessi "
Quando una settimana fa 200 donne sono scese in piazza a Timbuctu per protestare contro la neoinstaurata e ferocissima legge islamica, i miliziani di al Qaeda, che da aprile controllano il Nord del Mali, hanno messo mano alla pistola disperdendo la manifestazione a pallettoni. Abilissimi nello sfidare l’Occidente fino a farlo vacillare nelle proprie intime certezze democratiche, gli eredi di Bin Laden non hanno saputo far altro che sparare alla vecchia maniera, ra-ta-ta-ta-ta-ta, per allontanare lo spettro delle proprie madri, mogli, figlie. Perché in Africa, come in Medio Oriente e nella contraddittoria India, lo scontro delle civiltà si combatte sempre più tra i sessi, il «soft power» rosa contro l’«hard power» plumbeo delle armi.
Gli episodi si moltiplicano, casuali, discontinui, diversi e lontani tra loro. Ma le nuove tecnologie rendono possibile accostarli uno all’altro e leggervi il procedere della Storia.
Il 2011, l’anno delle primavere arabe, è una pietra miliare. Non che la voce femminile fosse fino a quel momento assente, come provano le migliaia di indiane in corteo nel giugno 2009 contro gli aborti selettivi che in alcune regioni impediscono ogni giorno la nascita di duemila bambine. Ma il risveglio di popoli assuefatti alla tirannia e la spallata al passato assestata (più o meno con successo) da giovani uomini e giovani donne ha messo il megafono in mano alle tante che già gridavano nel silenzio.
Le oltre diecimila in marcia ad agosto nel centro di Tunisi per chiedere il ritiro dell’articolo 28 della prossima Costituzione (quello che, nella bozza contestata, definirebbe la «complementarità» tra i sessi) portavano il testimone dell’emancipazione guadagnata negli anni di Bourghiba ma soprattutto quello di Khaoula Rachidi, la temeraria studentessa che quattro mesi prima si era arrampicata sul tetto di un edificio dell’università di Manouba per impedire a un barbuto integralista di sostituire la bandiera tunisina con quella nera dei salafiti.
Le donne, da Lisistrata in poi, sembrano essere le più consapevoli di quanto guerra e violenza minaccino il diritto, anche quando si tratta di poco più del diritto alla vita. «L’Europa dimentica spesso che nessuna conquista è garantita per sempre» notava in un’intervista di qualche anno fa a La Stampa la scrittrice iraniana Azar Nafisi raccontando lo shock delle connazionali davanti alla cancellazione di ogni loro traguardo sociale seguita alla rivoluzione khomeinista. Come dire che la campana suona per tutti ma non t u t t i n e s o n o egualmente coscienti.
L’afasia cronicache paralizza il dialogo tra Hamas e Fatah, per non parlare di quello con Israele, non ha impedito, per esempio, a parecchie decine di ragazze palestinesi di invadere le strade di Betlemme due mesi fa per denunciare gli abusi familiari tramandati dalla tradizione del padre-padrone (in aumento) con cartelli del tipo «Vergogna ai palestinesi che uccidono le loro donne». Un rifiuto dell’omertà etnica, clanica o culturale dello stesso genere che il mese precedente aveva portato dozzine di afghane in piazza a Kabul per manifestare contro l’esecuzione pubblica di una ventiduenne accusata d’adulterio in un remoto villaggio a 60 chilometri dalla capitale.
Troppo spesso negli ultimi anni la retorica nazionalista ha tentato di contrastare la globalizzazione, chiedendo ai popoli di chiudere un occhio sugli abusi interni in virtù d’una difesa della comune identità sotto assedio. Le manifestanti con il velo sulla testa, che nella Bengasi ancora traumatizzata dall’attentato mortale all’ambasciata americana dell’11 settembre scorso impugnano cartelli con scritto «Le donne contro Ansar al Sharia», rispondono a modo loro all’aggressività delle milizie islamiste. Se hanno fatto notizia gli abitanti della seconda città libica all’assalto del quartier generale degli jihadisti, ancor di più dovrebbero farla le abitanti riluttanti alla violenza al punto da non utilizzarla neppure contro i più violenti tra i violenti.
Slogan, cortei, iniziative agit-prop come nella migliore tradizione delle avanguardie novecentesche. Dalle russe Pussy Riot alle militanti del Togo in sciopero del sesso lo scorso agosto per costringere il presidente Gnassingbe alle dimissioni, dalle femministe egiziane fischiate l’8 marzo 2011 dagli ex compagni di piazza Tahrir fino alle centinaia di attiviste indiane che nell’estate 2011 hanno manifestato contro la violenza sessuale (un’esperienza frequente per l’85% delle indiane) attraversando mezze nude Nuova Delhi secondo la neo-forma di disobbedienza civile chiamata «Slut Walk» (si protesta contro chi giustifica lo stupro con «la provocatorietà» di una donna), l’altra metà del mondo scommette sul potere dolce della comunicazione.
È facile immaginare l’ira impotente dei conservatori induisti di fronte alla «Slut Walk»: un po’ come quella dei religiosi sauditi nel marzo 2011, quando capitanate dalla trentaduenne Manal Al Sharif le donne di Riad capirono che la primavera non sarebbe fiorita facilmente nella terra del petrolio e si misero al volante, rompendo il meno motivato dei tabù dell’Islam (la figlia di Maometto usava cavalcare, e senza problemi).
L’«hard power» maschile segna il passo? È presto per dirlo, nonostante il Premio Nobel per la Pace 2011 assegnato all’attivista per i diritti umani yemenita Tawakkul Karman, una delle pioniere della rivoluzione contro il regime del presidente Saleh. Il cinema ha già iniziato a raccontare la disobbedienza pacifica delle donne con i film «La sorgente dell’amore» di Radu Mihaileanu e «E ora dove andiamo?» della libanese Nadine Labaki. La Storia registra un evento dietro l’altro: un processo al femminile, indipendentemente dalla forma definitiva che assumerà, è in corso.
Andrea Malaguti - " Neda: la vita distrutta per una foto sbagliata "
Andrea Malaguti racconta la storia della professoressa Neda Soltani la quale, per via del nome molto simile a quello di Neda Agha Soltan (vittima-simbolo della repressione di Ahmadinejad), è stata costretta a fuggire dall'Iran per salvarsi la vita. Oggi, dopo tre anni, Neda Soltani vive e lavora negli Stati Uniti, un lieto fine che, purtroppo, non appartiene a tutte le altre vittime della repressione iraniana.
Ecco il pezzo:
Neda Soltani, la foto con la quale è stata scambiata per Neda Agha Soltan
Neda Agha Soltan, vittima del regime di Ahmadinejad
«My stolen face». Il mio volto rubato. È un libro. Che racconta la storia di Neda Soltani, professoressa universitaria iraniana, quasi omonima di Neda Agha Soltan - senza la i -, uccisa da un cecchino del governo il 20 giugno 2009, con un colpo di fucile che si portò via una vita e ne distrusse un’altra, grazie anche alla superficialità dei media occidentali e a una foto sbagliata. «Il regime cercò di lavarsi le mani piene di sangue aggrappandosi all’unico casuale salvagente visibile allora: la mia esistenza».
È un sabato mattina di tre anni fa, l’ultimo giorno di primavera, migliaia di studenti scendono nelle strade di Teheran per protestare contro l’esito sospetto delle elezioni che hanno confermato Mahmud Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica Islamica. Ci sono scontri. Un miliziano, un basij, sale su un tetto e prende di mira una ragazza di 26 anni che sfila lungo viale Kargar. Bersaglio facile. La centra al petto. Lei si accascia, grida: «Sto bruciando», il sangue le riempie la bocca, la soffoca, mentre le orbite le si rivoltano.
Un medico riprende la scena con un telefonino. Le immagini fanno il giro del mondo. Neda Soltan diventa un simbolo. Da qualche giorno il regime ha bandito la presenza di giornalisti nel Paese, così i media si arrangiano come possono e trovano su Facebook una sua immagine. Almeno credono. Il nome è lo stesso. L’università è la stessa. E lei è bellissima. Con un foulard, favolosi occhi scuri, truccati, ciglia sottili che sembrano onde. Una modella persiana. Lo scatto invade il pianeta, finisce sui telegiornali, sui giornali, sui cartelloni di chi protesta nelle strade. Peccato che la fotografia sia quello della professoressa Soltani. «Era come assistere al mio stesso funerale». Non c’è più modo di fermare un meccanismo fuori controllo.
La vita della donna, 29 anni, va in mille pezzi. «La polizia segreta venne a casa mia. Mi dissero che dovevo mostrarmi al mondo. Dire che Neda ero io. Che le immagini del filmato erano un complotto contro il regime. Amavo l’Iran, ma mi rifiutai. Così mi minacciarono. Tu sei un singolo individuo, mi dissero, per noi non conti, è in pericolo la sicurezza della Repubblica Islamica». Le fecero terra bruciata attorno. Anche il suo fidanzato si allontanò da lei. Sentendo i miasmi dell’amarezza salirle fino al cervello, Neda capì che doveva fuggire. «Mi accusavano di tradimento. Un reato per il quale è prevista la pena di morte».
Passò il confine. Si ritrovò in Grecia, volò a Francoforte. Chiese asilo politico. «Mi misero in un campo. La mia vita non era più mia. Per l’intero pianeta il volto di Neda, martire del regime iraniano, era il mio. Perché i media non hanno mai rimediato a questo errore? Ho perso ogni cosa. Ma ancora oggi credo nel futuro. Ho scritto il libro e adesso insegno in un’università americana». In lei persiste incessante questo coraggio insensato, mentre l’Iran, il suo Paese, continua a intestardirsi in un rancore che se non fosse assassino sarebbe soltanto ridicolo.
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