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Informazione Corretta Rassegna Stampa
15.10.2012 Intervista a Benny Morris
di Coby Ben-Simhon

Testata: Informazione Corretta
Data: 15 ottobre 2012
Pagina: 1
Autore: Coby Ben-Simhon
Titolo: «Intervista a Benny Morris»

Intervista a Benny Morris
di Coby Ben-Simhon

(Traduzione di Yehudit Weisz)


Benny Morris, per leggere la scheda dedicata alle sue opere in Libri Raccomandati (a cura di Giorgia Greco), cliccare sul link sottostante
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=29912

Riprendiamo questa intervista allo storico israeliano Benny Morris, uscita su HAARETZ il 21 settembre scorso. E’ un documento molto interessante, da un lato perché Morris è da una decina di anni lo storico più attaccato dalla sinistra, anche israeliana, dall’altro perché esce, curiosamente, proprio sul giornale dell’intellighentzia di sinistra israeliana, che non teme, però, di dare voce – in una intervista dai toni assolutamente sinceri- al percorso che ha portato Morris da posizioni vicine a quelle dei cosidetti ‘nuovi storici’ – tutti antisionisti- fino allo scoppio della seconda intifada,  a quelle che potremmo definire tranquillamente filo-governative, in ogni caso dichiaratamente neo-sioniste.

Dopo trent’anni, ci rinuncia. “Questo è l’ultimo libro che scriverò sul conflitto israelo-palestinese”, dichiara lo storico Benny Morris, sedendo sul balcone di casa sua e guardando in distanza le lussureggianti colline coperte di cipressi e pini. Un pioniere della ricerca sul conflitto israelo-palestinese e uno dei più importanti storici israeliani della sua generazione, ha fatto il pieno dell’estenuante e sanguinoso ciclo che ha documentato per trent’anni. “ I decenni di studi del conflitto e che hanno prodotto nove libri, mi hanno lasciato in una profonda disperazione. Ho fatto tutto quello che potevo ” dice “ ho scritto abbastanza sul conflitto che non ha soluzione, principalmente per la costante opposizione dei palestinesi alla soluzione dei due Stati per due popoli.”  Il senso di stanchezza sull’amaro scontro tra i due popoli trova un’ espressione profonda nell’ultimo libro, ora in lingua ebraica, “ Uno Stato, due Stati: per risolvere il conflitto israelo-palestinese ” ( prima pubblicato in inglese nel 2009 ). Nel libro Morris descrive – per quello che dice sarà l’ultima volta - un altro capitolo sulla storia delle relazioni tra Israele e i Palestinesi. Date le circostanze,  conclude la sua ricerca con un incisivo saggio politico che può essere letto come un’accusa. “ E’ un saggio storico che ha uno scopo e una spiegazione politica, “ ammette “ Il mio intento è di far aprire gli occhi dei lettori di fronte alla verità. L’obiettivo è  svelare l’obiettivo del movimento nazionale palestinese,  annientare il progetto nazionale ebraico ed ereditare tutta la Palestina per gli Arabi e l’Islam. Per Morris, professore di Storia nel Dipartimento degli Studi sul Medio Oriente all’ Università Ben Gurion nel Negev, questo libro è simile a un funerale. Invece di abbozzare una via di uscita, cerca di trincerarsi dietro uno sguardo discreto nei confronti di una realtà senza speranza. “ Il libro tratta dei vari obiettivi e delle soluzioni che sono state proposte durante lo svolgersi del conflitto” spiega.  Mentre all’inizio i due movimenti, - Sionista e Palestinese – cercavano di creare il proprio stato sull’intero territorio, ad un certo punto è avvenuto un cambiamento. I movimenti hanno seguito traiettorie diverse dalle loro intenzioni. “ Il movimento Sionista cominciò chiedendo ad alta voce la creazione di uno stato ebraico su tutto il territorio della Terra di Israele, ma dal 1937 i suoi leader smisero di gridare “è tutto mio” e ambirono a ottenere uno stato ebraico sovrano su una parte del territorio di Eretz Israel. Questo cambiò il loro approccio e permise dei compromessi territoriali: questo è, con l’idea di due Stati per due popoli, una decisione che deriva dalla logica di dividere la terra tra i due popoli che ci vivono.”

Con le mani appoggiate su un tavolo di legno, Morris cita dichiarazioni piene di veleno tratte dalla Carta Nazionale Palestinese, la costituzione di Fatah, e quella di Hamas. Egli asserisce che, diversamente dai sionisti, sin dall’inizio, il Movimento Nazionale Palestinese non si è mai allontanato dalla sua volontà di creare un solo Stato sul territorio conteso.

“Il Movimento Nazionale Palestinese è rimasto immutato, attraverso i diversi periodi di lotta, sia sotto la leadership di Hajj Amin al-Husayni sia sotto quella del suo successore, Yasser Arafat”, dice Morris con evidente disgusto. “Questo non è nemmeno cambiato negli anni delle trattative di Oslo.  Per concludere, entrambi i movimenti palestinesi-i fondamentalisti guidati da Hamas e il blocco laico, guidato da Fatah- sono interessati a una leadership musulmana su tutta la Palestina , senza Stato ebraico e senza spartizione”.

In nome di Allah

Mentre una coppia di magnifici cani si rotola all’ombra di alberi di fico e ulivi, Morris  ritorna ad argomentare: “ Nel Movimento Sionista si capì c –sotto l’influsso dei crimini di Hitler e del crescente antisemitismo in Europa- che il popolo ebraico aveva bisogno di un rifugio e di uno Stato. Data l’urgenza, e per salvare la Nazione, i Sionisti erano pronti ad abbandonare il sogno del Grande Israele e  cederne una parte. La stessa politica era sostenuta dalle grandi potenze che premevano per il compromesso. Questo impatto-la Shoah, la richiesta delle grandi potenze, e persino un senso di giustizia-spinsero i Sionisti a prendere la decisione che qui si sarebbero fondati due Stati per due popoli . Questa conclusione fu certamente manifesta dall’accettazione del Piano di Partizione dell’ONU del 1947”.

Ma il movimento sionista non aveva sempre appoggiato l’idea del compromesso.

“Questa fu la linea guida del movimento sionista negli anni 1948-1977, e lo è stato di nuovo dal 1992. Esclusi alcuni anni di euforia in cui la destra fu al potere proponendo l’idea del Grande Israele, la posizione israeliana fu quella del compromesso. L’euforia fu breve. Sin dalla Prima Intifada nel 1988, due terzi circa degli israeliani sostenevano il compromesso territoriale. I palestinesi, no. Essi, costantemente, non hanno mai accettato la legittimazione e le richieste dei Sionisti, anche se apparentemente essi sembravano pronti al compromesso. Ai palestinesi non interessa la storia degli ebrei. Essi negano il legame tra ebrei e Terra di Israele. La tradizione ebraica per loro è totalmente estranea”

Lei scrive nel libro che la rivendicazione fondamentale dei palestinesi è che la terra appartiene agli abitanti che in origine vi risiedevano prima del 1882. In altre parole prima della Prima Alyà. Per questo motivo essi vedono negli ebrei dei ladri con cui non ci può essere alcun compromesso. Ma qualcuno potrebbe dire che lei descrive i palestinesi come aventi un’unica voce, come se tutti i palestinesi fossero Islamisti radicali.

“E’ vero c’è una differenza tra gli estremisti, che dicono apertamente di voler cancellare lo Stato di Israele , e i nazionalisti laici, che apparentemente dicono di essere pronti ad un accordo di compromesso. Ma in questo momento, se si legge attentamente le loro parole, entrambi vogliono tutta la Palestina. I leader laici, se così si possono chiamare, come Yasser Arafat e il Presidente Mahmoud Abbas, non sono pronti ad accettare la formula dei due Stati per due popoli. Così, per non spaventare gli occidentali (goym, nel testo NdT), si mantengono sulle generali, ma in realtà essi pensano in termini di espulsione ed eliminazione”.

Cosa intende esattamente quando dice”in termini di espulsione ed eliminazione”?

“Arafat sin dal 1970, dopo che la guerriglia di Fatah non aveva portato risultati, decise che la liberazione della patria si sarebbe ottenuta tramite una “policy of stages”. Questa idea di “lotta per fasi” si proponeva di raggiungere l’eliminazione graduale di Israele per arrivare alla soluzione di un solo Stato arabo. In altre parole i leader dell’OLP  mostravano una faccia conciliante per compiacere gli occidentali, ma il loro vero scopo era l’eliminazione di Israele a tappe, dato che era impossibile ottenerla in un colpo solo.

La stessa strategia ondivaga che vede nella creazione di uno Stato nei territori contesi, un primo passo nella conquista dell’intero territorio, fu a loro avviso, migliore di una strategia diretta, basata su un confronto militare senza fine. Abbas lo dice un giorno sì e un giorno no, e insiste nel richiedere il diritto al ritorno”

E’ legittimo per i palestinesi richiedere il diritto al ritorno per alcuni rifugiati?

“ La realizzazione del diritto al ritorno comporta necessariamente la distruzione dello stato ebraico. Per la tessa ragione Abbas rifiuta attualmente di avere negoziati con Israele. Perché i negoziati potrebbero portare ad una soluzione del conflitto. Lui non ha nessuna intenzione di giungere ad una soluzione di due stati per due popoli.

Il libro è stato prima pubblicato in Inghilterra nel 2009. Lo spirito del libro, come lei stesso scrive, è riecheggiato spesso tra i giornalisti e i politici israeliani, che hanno fissato l’immagine dei palestinesi come una “ non controparte “, mentre da parte israeliana si facevano il massimo degli sforzi per raggiungere un accordo. A questo proposito, le sue argomentazioni aggiungono qualcosa al pubblico dibattito?

“Il libro è stato scritto alcuni anni dopo la fine della seconda intifada ( nel 2005), sotto l’impressione che essa aveva lasciato. Il libro rileva che i discorsi e gli obiettivi  palestinesi non sono cambiati, e che le loro azioni (terrorismo) stanno continuando tramite i missili che quasi giornalmente vengono lanciati e potrebbe tornare quando le circostanze lo permettessero tramite gli attentati suicidi e le bombe. In questo contesto, è vitale mostrare la continuità della linea storica del pensiero che caratterizza i palestinesi – che, essenzialmente, non dà agli ebrei nessun diritto su questa terra. Il primo paragrafo della carta di Hamas dice “ nel nome di Hallah,il Misericordioso, il Compassionevole …. Israele crescerà ed esisterà sino a quando l’islam non lo avrà eliminato come ha eliminato i suoi predecessori.” E’ importante che capiamo chi ci troviamo di fronte.”

Il dibattito pubblico sul conflitto è impantanato nei pregiudizi. Lei non pensa di star aggiungendo benzina sul fuoco con  questa rappresentazione demoniaca dei Palestinesi? Dopo tutto anche noi, come i Palestinesi, apparentemente parliamo di compromesso, ma nel contempo ci insediamo nei loro territori con la evidente intenzione di impedire una soluzione del conflitto. Alcuni dei nostri incendiano moschee e sparano a innocenti. Non siamo esattamente dei santi.

“ La demonizzazione non è uguale nelle due parti. Nel sistema educativo israeliano,  non c’è la demonizzazione dell’Arabo. Egli può non essere descritto positivamente, ma non è il diavolo. Dall’altra parte gli Ebrei sono completamente demonizzati. Le autorità palestinesi si sono impegnate a fondo nell’ inculcare la demonizzazione. Il popolo palestinese pensa che noi dobbiamo essere cancellati. Noi non pensiamo questo dei palestinesi. Ciò che io sto facendo è descrivere la storia, non sto demonizzando. Il libro descrive la posizione palestinese. Se contiene demonizzazione, questa deriva dalle cose che i palestinesi stessi dicono o fanno. Io li lascio esprimersi. La loro immagine corrisponde a quello che dicono.”

Postille nei libri di storia

Morris, il più importante storico israeliano che scrive sul conflitto israelo-palestinese, è nato nel Kibbutz Ein Hahoresh nel 1948 da genitori immigrati dall’Inghilterra – “ ferventi sionisti” come li descrive. Suo padre fu il primo segretario del movimento  Hashomer Hatzair in Inghilterra e più tardi fu ambasciatore di Israele in Nuova Zelanda.

“ Vennero qui proprio prima della fondazione dello Stato” dice Morris nella casa di Srigim Li On, nella valle di Elah. “Dopo un breve periodo nel kibbutz Ein Hahoresh, i miei genitori fecero parte di un gruppo che fondò il kibbutz Yasur,  costruito sulle rovine del villaggio Al-Birwa, luogo natale del poeta palestinese Mahmud Darwish. E’ per questo che ho un certo legame con Darwish”, sottolinea casualmente e ride.

Trascorse la sua infanzia tra Gerusalemme e New York. “ Un anno dopo la mia nascita, i miei genitori lasciarono il kibbutz e si spostarono a Gerusalemme. Mio padre, che era stato il direttore del kibbutz, ottenne un lavoro con l’Agenzia ebraica. Più tardi si unì al Ministero degli Esteri e lavorò nell’informazione (hasbarà). Quando avevo 9 anni fu mandato come Console a New York. Mi ricordo molto poco della mia infanzia in America,” dice Morris senza rimpianto. “ Mi ricordo di essere stato aggredito al parco e che mi avevano portato via la mia scacchiera. Mi ricordo che a Ramaz, la scuola che frequentai, mescolavano Talmud, Bibbia, storia ebraica e studi in generale. Era una scuola privata, una delle migliori a New York. Molti dei diplomati  frequentarono poi università come Harward e  Columbia.”

Ma Morris prese un’altra strada. Sebbene pensasse di continuare i suoi studi in USA, dopo le superiori tornò in Israele e si arruolò nel Nahal, servendo nel 50° battaglione (paracadutisti). “Il periodo del mio servizio militare fu relativamente tranquillo. Ci spararono addosso alcune volte nella valle del Giordano, ci furono alcune imboscate, ma non l’esperienza di un vero combattimento. Il solo avvenimento notevole che posso citare fu nel ’67, all’inizio della Guerra dei Sei Giorni, quando presi parte ad una operazione che compare nelle note a pie’ di pagina dei libri di storia. Mentre la Golani e l’Ottava Brigata sfondavano le linee siriane sulle colline del Golan, noi giovani reclute organizzavamo un’azione diversiva a sud delle colline del Golan. Il comandante del nostro battaglione fu ucciso dai bombardamenti siriani.

Nella Guerra di Attrito (1967-1970) Morris partecipò in maniera più attiva ai combattimenti e fu mandato in un avamposto sul canale di Suez. Là, nel 1969 fu ferito da un bombardamento egiziano, che segnò la fine del servizio militare. Da allora cominciò a studiare storia e filosofia all’università Ebraica di Gerusalemme.

“Non pensavo di diventare un dottore, un avvocato o uno storico” dice prendendo un pezzo di anguria. “Semplicemente mi interessava la storia. Dopo tre anni ho capito che la filosofia non mi interessava, così decisi di ottenere il dottorato in storia. Ho studiato a Gerusalemme ancora un anno e poi ho continuato all’ Università di Cambridge.”

Ritornò in Israele nel 1977. Non trovando un posto come insegnante, cominciò a lavorare come traduttore e all’archivio del Jerusalem Post. Non molto dopo, quando aveva 28 anni, passò dall’archivio alle notizie e iniziò una nuova carriera, dapprima come cronista scolastico, poi come corrispondente diplomatico. Ma Morris dopo poco trovò che il giornalismo non lo soddisfaceva. “ Come giornalista sentivo la necessità di qualcosa di “più serio”, dice. Pensavo di scrivere un libro che parlasse della storia del Palmach ( le forze combattenti di élite dell’Haganà, l’esercito clandestino israeliano prima della creazione dello Stato). Ho contattato l’Associazione del Palmach, che mi diedero accesso ai loro archivi,  ancora classificati in quel periodo in quello dell’IDF (Esercito Israeliano di Difesa), che conteneva  copia di tutti i documenti. Mi misi allora a lavorare.”

Ma il libro sul Palmach - per il quale cominciò a lavorare alla fine del 1982, proprio quando stava per iniziare la Prima Guerra del Libano – non venne alla luce . “ Avevo cominciato a lavorare sull’archivio del Palmach, ma dopo circa due mesi di lavoro, quando un giorno ero nella biblioteca di Efal, venne da me il commissario politico del Palmach – un uomo di nome Sini, ex assistente della Galil Israel – che mi disse. “ Sai Benny, abbiamo deciso che il libro sulla storia del Palmach lo scriverà uno dei nostri. Tu hai chiuso.”

Ma Morris non era pronto a rinunciare  alle sue ambizioni di pubblicare un libro. “Ironicamente, mentre lavoravo negli archivi del Palmach, ero stato in contatto con materiale che aveva a che fare con le origini del problema dei rifugiati palestinesi. Mi era capitato tra le mani l’ordine di espulsione dei residenti di Lod e di Ramla, ordinata da Yitzhak Rabin, per conto di Ygal Allon. Questo materiale ebbe in qualche modo dei legami con la guerra in Libano, allorquando venni in contatto con i rifugiati dal Campo di Al-Rashidiya, che io intervistai. I rifugiati libanesi colpirono la mia immaginazione. Sentivo che il fenomeno dei rifugiati palestinesi poteva essere un buon soggetto per un libro. L’avermi imledito di scrivere la storia del Palmach, mi ha spinto a scrivere tutt’altri libri.”

Libri sui rifugiati

Oltre al suo lavoro di giornalista, dagli anni ‘80 cominciò a scrivere il libro “ La nascita del problema dei rifugiati palestinesi ”. Il libro, che creò sensazione,  demolì la versione ufficiale Israeliana dei fatti secondo cui i rifugiati palestinesi avevano lasciato le loro case di propria iniziativa, e che pose Morris al centro di un aspro dibattito pubblico. Riproponendo una gamma di documenti Morris  mostrò che i palestinesi che avevano lasciato le loro case tra il 1947 e il 1949, lo fecero principalmente per gli attacchi militari israeliani, minando la versione ufficiale. Egli fece anche rilevare che non ci fu una scelta politica di espulsione, ma ora dice che “ i comandanti in capo israeliani effettuarono espulsioni solo in certe zone.”

Il libro conteneva rivelazioni che macchiavano l’immagine dell’esercito  di Israele nel 1948. Descriveva casi di stupro e di massacri che erano avvenuti durante la guerra di indipendenza; un caso fu ad Akko, dove quattro soldati violentarono una donna e poi la uccisero assieme al padre. In un altro caso una donna fatta prigioniera nel villaggio di Abu Shusha, vicino a Gezer, fu ripetutamente violentata. Morris descrive, con dettagli agghiaccianti, massacri che comprendevano l’uccisione immotivata di centinaia di innocenti – vecchi che camminavano nei campi, una donna in un villaggio abbandonato. “ Io sentivo , mentre lo scrivevo, che questo era un argomento difficile” dice “Capivo che stavo per pubblicare una descrizione diversa da quella usuale, diversa dalla narrativa sionista conosciuta. Sentivo che questo era  qualcosa di diverso che si scontrava con le convenzioni. Ci fu molto risentimento quando il libro fu pubblicato. Alcuni dissero  tranquillamente che era troppo presto per pubblicare quello che avevo scritto, dato che veniva sporcata l’immagine di Israele mentre era ancora in lotta con il mondo Arabo. Dissero che le cose che descrivevo potevano dare ulteriori armi nelle mani dei nostri nemici. Oggi mi rendo conto che era vero. Anch’io lo capii, dopo, ma nel periodo in cui lo stavo scrivendo, Israele mi sembrava sicura. Negli anni’80 mi sembrava che Israele avrebbe potuto sopportare queste critiche.”

La pionieristica ricerca fu una sfida anche per gli storici che avevano scelto di astenersi dal parlare delle situazioni difficili. Da questo punto di vista i suoi scritti provocarono un autentico terremoto nell’accademia, perché minavano la rappresentazione fino allora conosciuta.

“ Fu paradossale. Da una parte il mondo accademico giudicò quasi subito molto positivamente il libro. Ma vi furono anche i contrari. La ricerca svelò che molti studiosi avevano occultato e falsificato. Presentò i “vecchi” storici di Israele, dato che mi rivolgevo a loro, come persone che non avevano svolto il loro mestiere di storici seriamente. Circa nello stesso periodo in cui apparve il mio libro, ne comparvero  dello stesso filone, scritti da altri – ad esempio Avi Shlaim, della Reading e poi Oxford University, Tom Segev di Haaretz; Simha Flapan, attivista del Mapam. Nessuno di loro era accademico  o apparteneva alla classe dirigente del paese. In seguito divenne sempre più difficile per gli israeliani scrivere storia “scientifica” – cioè storia non basata su materiale di archivio e che elimina gli elementi spiacevoli degli accadimenti storici. Gli storici sentirono che dovevano adeguarsi a questa “Nuova storiografia” come modus operandi e divenne molto più difficile nascondere o distorcere il passato. Negli anni seguenti anche libri pubblicati dal Ministero della Difesa comprendevano descrizioni di massacri compiuti dalle truppe israeliane.”

Ma il suo lavoro si dimostrò un’arma a doppio taglio. Mentre aveva fatto di lei una star, le si chiusero tutte le porte..

“Fui trattato come un nemico dello Stato. Questa immagine mi è rimasta appiccicata. Fui un escluso. Non venivo invitato alle conferenze e non mi furono offerti posti all’Università. Fu un periodo duro. Non potevo mantenere me e la mia famiglia. Per 6 anni non ho avuto lavoro, fino a che – per l’intervento del presidente Ezer Weizman – fui assunto all’Università Ben Gurion nel 1997. Avevo vissuto  con prestiti di amici. Non avevo un  soldo. Nel 1991 fui licenziato dal Jerusalem Post, che era stato acquisito da dei miliardari della destra (  Conrad Black), e che licenziò tutti i vecchi giornalisti di sinistra. Trascorsi anni a scrivere articoli pubblicati dalla Oxford University Press e da Am Oved. Ma non avevo un lavoro fisso.”

Oggi lei dice che le era rimasta incollata un’immagine inesatta. Ma in realtà, durante la Prima Intifada, alcuni mesi dopo la pubblicazione di “ L’origine del problema dei rifugiati palestinesi”, lei si era rifiutato di servire l’esercito nei territori. In quegli anni era un’azione altamente polemica.

“ E’ vero. Io avevo considerato l’intifada che scoppiò nell’inverno del 1987 come lo sforzo di un popolo che voleva scrollarsi il giogo di 20 anni di occupazione militare. Questo sforzo, nel suo complesso,  non era violento e i protestatari non usavano armi da fuoco. Essi ne avevano semplicemente abbastanza; volevano liberarsi del giogo dell’occupazione -  così era come la vedevo. Pensavo non fosse giusto prendere parte alla soppressione di questa rivolta non violenta, e rifiutai di fare il riservista nella Casbah di Nablus. Pensavo che la lotta per l’indipendenza fosse legittima e che la repressione fosse fondamentalmente illegittima. La seconda intifada fu completamente un’altra storia. Sullo sfondo degli attacchi terroristici, la rivolta palestinese sembrava essere coordinata per distruggere Israele. Per questo oggi sono contrario verso chi si rifiuta di servire nei territori.”

A seguito dei ripetuti attacchi terroristici e del fallimento del summit di Camp David del  luglio 2000, la posizione di Morris è cambiata radicalmente. In una intervista del 2004 al quotidiano Haaretz, egli affermò che l’espulsione, in certe condizioni, non era un crimine e che c’erano circostanze nella storia, in cui l’espulsione era giustificata – ossia quando qualcuno ti vuole uccidere.

Lei dice che la gente si sbagliava quando la etichettava come un post-sionista,  ha descrito la società palestinese come  un “ serial killer ” e che la sua gente doveva essere chiusa in “ una gabbia”. Ha dato del bugiardo ad Arafat e detto che gli arabi sono dei “barbari”.

“ Posso essere andato un po’ sopra le righe. Penso di non essere stato abbastanza attento nella scelta delle parole, tuttavia concordo nella sostanza con quello che ho detto. Dissi che i palestinesi dovevano essere ingabbiati, in modo che non potessero venire qui a piazzare bombe su autobus e ristoranti. La parola “ gabbia” non era forse appropriata e forse non era quella giusta da usare. Certamente intendevo dire separati in qualche modo. Come per la situazione che ha dato origine al problema dei rifugiati, sostengo che fu una scelta realistica. Dato che la Palestina cercava e voleva distruggerci e le sue città e villaggi servivano come  basi nemiche in tempo di guerra, i vincitori devono prenderne il controllo ed espellere la popolazione. Questa situazione è insita nella guerra, anche se la gente di sinistra ha molta difficoltà a mandarla giù. I massacri sono sempre da biasimare, ma gli ebrei si comportarono molto meglio di altre nazioni in circostanze simili.”

Lei ha evidenziato la dicotomia tra i “nuovi storici” che non hanno adottato la narrativa sionista e i “vecchi storici” che scrissero con l’ottica di chi detiene il potere. Ma il suo libro e la prospettiva generale che lei adotta per scrivere questo saggio alla fine approva Israele e forse con un sempre maggiore spostamento verso destra. Qualcuno dirà che la sua analisi storica è più caratterizzata di quella dei vecchi storici.

“Non mi vedo come un “vecchio storico” o come qualcuno che vuole rimangiarsi alcune  sue affermazioni. Tutti i miei scritti, prima e dopo il 2000, sono fedeli alla verità che esce dai documenti storici. Non ho cambiato i fatti o il modo di guardare al passato, sebbene io abbia imparato a valutare meglio la profondità della reazione araba al sionismo e l’opinione sul compromesso territoriale. Accetto senza alcun dubbio la versione di Israele su Camp David, nella quale vennero fatte  ai palestinesi- da parte di Ehud Barak e  del Presidente Bill Clinton – delle concessioni senza precedenti, ma che loro  hanno respinto. Nel mio libro affermo che questa è essenzialmente  la loro linea coerente e continua fin dall’origine del movimento nazionale palestinese. Così come respinsero l’offerta dei due stati nel’37, nel’47 e nel ’77,  respinsero quella del 2000.”

Guarda verso il Giordano

Una delle più sorprendenti conclusioni di Morris è che, riguardo il passato, non ci fu alcuna situazione in cui Israele avrebbe potuto agire diversamente da quanto ha fatto.

“ Ci sono persone che credono che noi abbiamo sprecato qualche opportunità,”dice” c’è anche qualche allusione nel mio libro ‘ Border war’, sui negoziati tra gli Israeliani e i loro vicini nel’48. Ma uno sguardo più meditato al passato mostra che non è stata persa alcuna possibilità. Semplicemente non c’era nessuna volontà di pace dall’altra parte. Loro non volevano accettare la nostra presenza qui. Fino a quando gli ebrei volevano un loro Stato, sotto il loro controllo, non poteva essere raggiunto alcun accordo con gli arabi. Non prima del ’48 e a maggior ragione non dopo, quando la parte araba era guidata dalla vendetta.”

La vendetta è una delle spiegazioni che Morris pone sul tavolo per spiegare l’intransigenza del movimento nazionale palestinese. “ A parte la vendetta, i Palestinesi hanno una fede assoluta che la giustizia è dalla loro, che deriva anche in parte dalla fede religiosa. Ciò che dio comanda, e ciò che i suoi interpreti sulla terra dicono che dio comanda, è sicuramente la verità. Mentre gli ebrei sono alquanto scettici su questo tipo di interpretazione, i palestinesi sentono che la giustizia è dalla propria parte e che dio non vuole che la Terra Santa sia divisa con qualcun altro. Ma c’è altro. Loro pensano in modo assoluto che il tempo sta lavorando in loro favore. I palestinesi pensano che hanno dietro di loro circa 400 milioni di arabi e un altro miliardo di musulmani nel mondo. Così, perché fare compromessi?”

Nel secondo capitolo di “Uno Stato, due Stati …” lei tratta i due modelli più accettati per la soluzione del conflitto: due Stati per due popoli o un solo Stato binazionale in cui ebrei e arabi convivano. Il problema è che dal suo punto di vista nessuno di questi due modelli è realistico. Alla fine del libro propone la soluzione di una federazione tra Giordania e Palestina.

“ Io dico che le proposte di compromesso che sono sempre state avanzate dal ’67, basate su uno Stato degli ebrei con 80% del territorio del Mandato della Palestina e uno Stato Palestinese con il 20% del territorio non sono realistiche. I leader e il popolo palestinese non saranno soddisfatti con il 20% del territorio della Palestina. Uno stato composto da Gaza, West Bank e Gerusalemme Est non li accontenterà. Vorranno espandersi verso la Giordania, Israele, il Sinai o magari in tutte e tre le direzioni contemporaneamente. Per soddisfare il bisogno di sviluppo e di espansione territoriale, una fusione del West Bank, Gaza e Transgiordania potrebbe soddisfare il bisogno di territorio da parte palestinese e costituire un accordo più ragionevole e duraturo.”

Il deputato Aryeh Eldad ( National Union) potrebbe essere oggi il portavoce di questa confederazione.

“ Questo era in pratica il “Piano Allon”, e quanto pensava il partito laburista negli anni ‘7O e ’80. Sebbene mai accettato ufficialmente dalle istituzioni partitiche, lo era dalla maggior parte dei leader. Secondo questo piano, Israele sarebbe stato compreso più o meno entro i confini pre ’67 e uno stato arabo che poteva essere chiamato Palestinese-Giordano,  avrebbe unito la maggior parte del West Bank e di Gerusalemme Est  con l’ East Bank, ossia con il regno di Giordania.”

“ Ariel Sharon parlò una volta di trasformare la Giordania in Palestina – in altre parole, spodestare la monarchia, mettere i palestinesi al loro posto e risolvere così la richiesta di uno Stato da parte dei palestinesi. Io sto invece parlando di qualcosa di diverso: formare uno stato costituito dalla maggior parte del West Bank unita alla Transgiordania .”

Ma dal momento che la Giordania se ne è lavata le mani del West Bank alla fine del 1980 e che considera questo il territorio palestinese, il Piano Allon non ha più raccolto consensi. Anche oggi, è irragionevole pensare di convincere la Giordania, o le altre nazioni del mondo, a sostenere questa tesi che porterebbe alla caduta della famiglia reale. Se non è possibile convincere nessuno su questa strada, perché discuterne?

“ Perché è ancora più logico di un accordo tra noi e i Palestinesi, dato che è basato su una suddivisione del Mandato della Palestina. La logica di uno grande stato Giordano-Palestinese è più valido di ogni spartizione – ed io lo appoggio. Giustizia e logica vogliono che i palestinesi abbiano uno Stato a fianco di Israele, ma la parte di territorio che sarebbe loro assegnata dalla spartizione non li soddisferebbe. Per questo i territori a est del Giordano devono essere anche inseriti nell’equazione per dare un maggiore spazio ai palestinesi. Il West Bank, anche senza i coloni, è uno spazio molto ristretto. Gaza è solo un grande bassofondo. Giordania-Palestina  potrebbe essere la base di un accordo duraturo, anche se non può essere ottenuto ora. Per ora è impraticabile e irrealistico. Per questo il messaggio è certamente pessimista.”

Vede qualche segnale di luce?

“La sola cosa di ottimistico che posso dire è che la storia del Sionismo e di Israele è così insolita e imprevedibile che la fine della storia, o la prossima parte della storia, ci potrà sorprendere positivamente. Io desidero ardentemente questa sorpresa.”

Dato che ha deciso di interrompere di scrivere sul conflitto Israelo-Palestinese, cosa farà ora? 

“ Ho già cominciato a scrivere una storia delle relazioni Turco-Armene dal 1876 al 1924, assieme al Prof. Dror Zeevi, un Ottomanista. Il genocidio armeno ne occuperà una larga parte. E’ una storia tutta nuova.”


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