Sempre di grande interesse i reportage di Domenico Quirico, un giornalista che non usa i salotti degli Hotel a 5 stelle per raccontare ciò che avviene in un dato paese. Abitudine di molti inviati- in primis il defunto Manzella (Igor Man), che oggi viene resuscitato in vari modi sul quotidiano torinese - che preferiscono la quiete ovattata del Grand Hotel ai rischi che si corrono se vuole fare veramente una indagine seria. Domenico Quirico appartiene a questa seconda categoria, e lo dimostrano i suoi servizi, come quello che riprendiamo oggi, 14/10/2012, a pag.1/12 dalla STAMPA, con il titolo "L'italiano di al Qaeda che combatte al fianco degli shabaab somali".
Domenico Quirico
Gli uomini del generale Barisse hanno occhi chiari, bellissimi. C’è in quegli occhi uno sguardo misterioso e antico, quell’antico e misterioso senso dell’inesorabile, di una tristezza quasi dura. Stanno sui pick-up uno a fianco dell’altro, reggendo i fucili, guardandosi intorno.
Non pensano a nulla, non si agitano, la grande pazienza militare è scesa su di loro come il giorno: aspettano, hanno aspettato il cibo, la paga, l’attacco ed Nè il loro modo di aspettare anche la fine della guerra. La guerra non è finita ed essi aspettano ancora. Si direbbe che non soffrano, che non conoscano la paura. Dopo vent’anni di stragi forse la paura non può nulla su quegli animi assenti, segretamente assorti. Passano volti muti nell’alba chiara.
Guerrigleri Shabaab
Un odore forte, un odore violento e grasso ti viene incontro. La savana somala ondeggia come un tendone mosso dal vento, si solleva ogni tanto qua e là con stanche onde di sabbia gialla. Le acacie mosse dal vento del monsone che si avvicina riprendono in sordina il lamento che l’oceano insegna loro nelle sabbie del Benadir e della Migiurtinia. Come un metallo liquido la luce cola rapida e violenta sulle cose, nel cielo resti di nubi sfilano come una lanugine di cotone. È questo un paesaggio in agonia, pigro e labile, un paesaggio sfatto, come gli uomini e le cose. La guerra immanente, eterna, qui si avverte con un temporale sospeso nell’aria, come qualcosa all’infuori della volontà umana, quasi come un fatto della natura.
Gli uomini di Abdullahi Barisse sono i cacciatori di shabaab, i taleban somali, l’incubo che Al Qaeda ha fatto nascere, con estro da diavolo, anche dalla sabbie del Corno d’Africa, coltivato nei microbi di una guerra tribale infinita che l’Occidente non ha saputo o voluto curare. Sono, questi somali, ascari moderni: combattono i nostri nemici, tengono a bada i nostri fantasmi, ci evitano lo strazio delle bare e dei morti, di esaurirci, stracchi e vili come siamo, in quelli che consideriamo, in fondo, solo piccoli magazzini della crudeltà umana. Ascari: loro e i caschi blu ugandesi che hanno salvato Mogadiscio; e i kenioti che, avanzando da Sud, hanno conquistato da pochi giorni Chisimaio, il porto nel Giuba, la capitale degli islamisti. Migliaia di loro sono morti in questi anni: chi li ricorda? Chi li ha mai definiti eroi e ne ha raccolto pietosamente i nomi? Agli ugandesi non paghiamo, forse, per morire ottocento dollari al mese; una ricchezza, visto che il loro soldo normale non arriverebbe a sessanta? I somali? Ma questa è la loro guerra!
I guerriglieri mimetizzati Sì, una guerra complicata, quella degli uomini di Barisse, larga, immensa, fatta di sudore e di agguati, di autobombe e cacce notturne, guardando negli occhi il nemico, scambiandosi i ruoli di preda e cacciatore. Non è la guerra dei droni, meccanica, asettica, un po’ vile, che gli americani combattono anche qui e che silenziosamente ha eliminato almeno duecento shabaab, spesso i capi. Si combatte nelle savane dello Shebeli: guardando verso oriente, sopra c’è un azzurro infinito, sotto un bianco infinito. Cielo e terra vuoti. Un vuoto arido e duro. Procedere qui, in questa immensità, sembra inutile sforzo, si ha la sensazione di rimpicciolire, gli unici suoni sono i sordi echi delle pietracce contro cui urtano le ruote e il basso penetrante fruscio della sabbia che striscia davanti al vento caldo.
E si combatte, questa guerra che nessuno racconta, a Mogadiscio, a Merca, a Brava, appena liberate. Qui gli uomini di Barisse, un migliaio in tutto, non li riconosci: si vestono di stracci, si confondono tra le gente del mercato, copiano gli shabaab, braccano le voci e le soffiate degli informatori. Perché battuti sul campo, dai blindati, dagli elicotteri, dai cannoni, cacciati dalla città dove reclutavano tutti, anche i bambini, con le fonti di denaro e di traffico prosciugate, gli shabaab hanno cambiato tattica: si sono in parte dispersi nella boscaglia in piccole unità che si muovono in continuazione per sfuggire alla caccia. O si sono diluiti, mimetizzati in città, lupi solitari pronti all’attentato, con l’esplosivo o le pistole. Molte sarebbero le donne kamikaze. Le ha scelte, addestrate, Samantha, la giovane inglese convertita al jihad da un marito fanatico, a cui i Servizi di tutto il mondo danno la caccia, accanita e inutile. La raccontano qui in Africa, forse in Kenya.
Guerrigliero americano da al Qaeda
Hamza al Italì, ovvero Paganin Ecco gli shabaab «stranieri»: anche qui, come in Siria, in Libia, Al Qaeda ha fatto accorrere una legione islamica, duemila uomini secondo le stime dei somali, yemeniti soprattutto, che si confondono facilmente tra le gente. Ma anche ceceni, pachistani ed europei. Il generale Barisse mi racconta una storia che porta in Italia: quella di un istruttore degli shabaab italiano, esperto in esplosivi, i nomi di battaglia «Hamza al Italì» e «Hamza Abu Yaya». Il vero nome sarebbe Angelo Paganin, giovane. «L’italiano» compare nel rapporto che il generale ha fornito a giugno all’antiterrorismo di Scotland Yard. Gli inglesi hanno incontrato Barisse qui a Mogadiscio. Cercavano le tracce di uno shabaab cittadino britannico, di nome Steve: «Due settimane fa Abu Yaya è stato individuato nella zona del Shebeli con il gruppo di comando di Al Qaeda che si è ritirato da Chisimaio; si spostano in continuazione lungo il fiume di villaggio in villaggio, nascondendosi nella savana».
Hamza l’italiano, che secondo le informazioni della polizia somala è arrivato qui dall’Afghanistan e che a Mogadiscio si muoveva travestito da donna, è in questi giorni a fianco del capo di Al Qaeda in Somalia, Godane. Gli stranieri infatti si sono separati dagli shabaab somali, stanno risalendo verso nord, forse verso le alture del Putland, la zona dei pirati. Con loro c’è l’ostaggio francese, Denis Alex, del quale è appena stato diffuso un appello al presidente Hollande perché tratti la sua liberazione. Godane, l’uomo che Al Zawahiri ha incaricato di conquistare la Somalia con il jihad, che ha moglie e figlio a Dubai ma che stranamente nessuno ha mai voluto catturare, lo tiene sempre accanto a sé, come scudo umano.
Il sogno del generale Barisse Barisse attraversa la capitale con i suoi uomini, ma non lo fa per il gusto della braveria : la città è sua, da alcuni i giorni i soldati ugandesi hanno ritirato i blindati nella base all’aeroporto. Ieri ha catturato due shabaab, forse preparavano un attacco suicida; li giudicherà la Corte islamica. Come l’acqua di una piscina, le rovine nelle strade si aprono e richiudono dietro di lui. La guerra ha sparso la capitale di macerie innumerevoli che suggeriscono immagini di un mondo fuggevole, di una labile civiltà.
È alto, solido, il generale, il viso non screpacciato dalle intemperie infinite. I suoi gesti sono vivaci e arcigni . È un uomo di una razza dura. Non un signore della guerra: ha attraversato questi lunghi anni di bufera con l’eroismo quotidiano, il suo popolo si massacrava, e lui, con i suoi uomini non pagati, senza uniforme, disprezzati, «la Divisione investigativa», continuava a dare la caccia ai criminali. Un poliziotto di uno Stato che non esisteva più, vittima di una colossale eutanasia, in cui i briganti erano diventati padroni.
È stata lenta, la carriera di Barisse, da poco nominato generale. Hanno fatto più in fretta gli ex signori della guerra che si sono ritagliati il loro pezzo di potere e pagano i loro uomini in cibo, armi e qat, la droga. Ha un sogno, il generale-poliziotto: una accademia in cui i suoi uomini possano specializzarsi in criminologia, lotta al terrorismo e al traffico (esiste già, sulla carta, un accordo importante siglato con tre università italiane, Napoli Perugia e Roma, mediato dall’avvocato italiano Mario Scaramella, consulente del governo dell’ex presidente Sharif). E soprattutto sogna una attrezzatura moderna per la classificazione della impronte digitali: «Allora sì che gli shabaab non avrebbero scampo, neanche il vostro shabaab italiano».
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