" I cento giorni di Fratello Morsi "
(Traduzione di Yehudit Weisz)
Zvi Mazel, Mohamed Morsi
Cosa non aveva promesso il candidato Morsi, portabandiera dei Fratelli Musulmani! “Se sarò eletto”, proclamava durante la campagna elettorale, “ in cento giorni risolverò i cinque problemi che avvelenano la vita quotidiana degli egiziani: la sicurezza personale, la circolazione selvaggia che paralizza il traffico delle città, il pane a prezzo controllato che non c'è, la scarsità di gas e carburante, e infine la pulizia dei mucchi di spazzatura che hanno invaso il paese”. Sarebbe stata una dimostrazione del fatto che il Presidente prendeva in mano le redini e attuava il programma”Nahada”, la rinascita dell’Egitto programmata dai Fratelli Musulmani. E’ arrivato l’8 ottobre, la data fatidica dei suoi cento giorni, ma non si è visto alcun risultato. La stampa indipendente aveva inventato il “Morsi-metro” per valutare giorno dopo giorno le decisioni prese dal Presidente su questi cinque punti precisi. Non ha potuto costatare altro che un pietoso risultato. D’altronde, interrogati il 7 ottobre, il 57% degli intervistati si sono dichiarati delusi della sua attività. Persino alla vigilia dei cento giorni il Presidente si era vantato , in un pomposo discorso in occasione della “vittoria” egiziana nella guerra dell’Ottobre 1973, di aver raggiunto il 65% dei suoi obiettivi, citando il lavoro dei giovani iscritti alla fratellanza musulmana, che avevano raccolto i rifiuti in tutto il paese, le migliaia di contravvenzioni inflitte agli automobilisti, e i 500 criminali messi in carcere. Un ben magro bilancio che non ha incantato nessuno, ma che la stampa governativa si è affrettata a osannare. Le interviste condotte dalla stampa locale e straniera giungono alla stessa conclusione : sì, è stato fatto qualche sforzo meritevole, ma non di certo un profondo cambiamento. D’altronde la stessa agenzia governativa “Centro per l’informazione e l’organizzazione” riconosce che i primi cento giorni non hanno cambiato granchè.
Il Fratello Presidente non ha mantenuto le promesse fatte su questi cinque punti; non ha neppure mantenuto l’impegno che aveva preso di nominare una donna e un copto in qualità di vice presidenti. Occorre ricordare che i Fratelli Musulmani, che avevano promesso di presentare i propri candidati soltanto per il 30% dei seggi in parlamento e a non candidarsi per la Presidenza, non hanno mantenuto la parola data? O ancora, che dopo la sua elezione, Morsi aveva annunciato che avrebbe sciolto l’Assemblea Costituente, che conteneva un numero troppo elevato di islamisti in violazione della costituzione e di sostituirla con un’Assemblea più rappresentativa, ma che non ha fatto nulla? L’Assemblea ha continuato tranquillamente i suoi lavori e si appresta a perfezionare una costituzione decisamente islamica, che sarà sottoposta al popolo con un referendum ( se l’Alta Corte Costituzionale , che deve decidere su cinque ricorsi, non scioglierà retroattivamente l’Assemblea).
Che cosa ha fatto dunque Morsi in questi cento giorni? Per il quotidiano indipendente “Ad Doustour” (La costituzione), il Presidente ha viaggiato molto: ha visitato otto Paesi in Asia, Europa e Africa, ha parlato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ma si è recato soltanto in 4 dei 27 governatorati dell’Egitto. Ha preso 29 decisioni, ma nessuna legata alla situazione catastrofica e alla miseria in aumento nel suo Paese. E’ andato a pregare in 12 diverse moschee al Cairo, a scapito dei fedeli locali, viste le misure di sicurezza senza precedenti e il corteo presidenziale che conta più di 30 auto, cosa che ricorda un po’ troppo gli eccessi del rais decaduto. Ha pronunciato 51 discorsi per un totale di 30 ore. Sempre secondo “Ad Doustour”, il Presidente non rilascia interviste se non alla stampa americana e i suoi discorsi sono preparati in precedenza. Per il “Wafd”, il giornale dell’omonimo partito, nell’arco di questi cento giorni, Morsi si è totalmente disinteressato dei problemi di fondo: scuola, povertà, sanità. La miseria è tale che secondo questa testata, alcuni sono ridotti a vendere i reni, e talvolta anche i figli; non si contano i suicidi. Ciononostante il governo vuole instaurare una politica di austerità e parla di ridurre le sovvenzioni per i prodotti di prima necessità. Quel che importa al potere, secondo il “Wafd” è ciò che chiama “l’ikhouanizzazione”, dal termine “Ikhouan” (in arabo “fratelli”), di tutti gli ingranaggi dell’Egitto: governatori delle province, giudici, ministeri fino alle organizzazioni non governative, come l’Organizzazione per i Diritti dell’Uomo; Morsi ha appena licenziato il Controllore di Stato. E non si fermerà qui.
Poco a poco si diffonde la disillusione. Gli egiziani che avevano votato in massa per i Fratelli Musulmani alle elezioni parlamentari si erano già mostrati più reticenti alle presidenziali: Morsi ha ricevuto solo il 25% dei suffragi espressi con un tasso di astensioni del 50%. Conoscono troppo bene il programma dei Fratelli Musulmani: imporre la Shari’a e preparare il ritorno del califfato. Ma era l’unica forza politica organizzata. I Fratelli avevano probabilmente sancito un patto non scritto con il Consiglio Supremo delle Forze Armate, che aveva governato il paese dopo la caduta di Mubaraq. I generali vedevano nella Fratellanza un’ancora di stabilità nell’anarchia che stava diffondendosi nel Paese. Oggi cresce il dubbio. Per Nagad Burai, l’avvocato che è uno dei leader del Movimento per i Diritti Umani, “è ancora difficile giudicare le azioni di Morsi dopo tre mesi, ma è evidente che non ha una visione e che dirige l’Egitto prendendo delle decisioni a caso, senza alcun programma”. Per Al Aswani, il celebre autore di “Palazzo Yacoubian”, occorre mettere Morsi di fronte alle sue responsabilità; la polizia continua a seviziare le persone arrestate, gli organi di stampa indipendente sono costretti a tacere, mentre la stampa governativa incensa il leader. Per Aswani “è come se nulla fosse cambiato in Egitto dopo la rivoluzione eccetto il nome del Presidente: Mubaraq è partito ed è arrivato Morsi”.
Ma al presidente non importa nulla. Si dedica alla politica estera, dove il successo arriva più facilmente. Visite all’estero e discorsi accuratamente preparati gli hanno guadagnato giudizi favorevoli e gli consentono di pretendere di aver reso all’Egitto il prestigio di un tempo. Condanna Assad e sostiene i ribelli (in maggioranza Fratelli Musulmani e Salafiti), s’impegna senza troppo successo a creare un blocco islamico per far credere che l’Egitto continua ad essere il leader incontrastato del mondo arabo. Dimentica però la situazione drammatica in cui vive il suo Paese, coltiva soltanto le sue ambizioni, ma le sue prese di posizione contro Stati Uniti e Israele non faciliteranno di certo la concessione degli aiuti internazionali, senza i quali l’Egitto non sarà in grado di risollevarsi.
Zvi Mazel è stato ambasciatore in Egitto, Romania e Svezia. Fa parte del Jerusalem Center fo Public Affairs. Collabora con Informazione Corretta