Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 08/10/2012, a pag. 23, l'articolo di Marcello Sorgi dal titolo "Volevamo essere come Igor Man".
Igor Man(zella)
Dopo l'istituzione del 'premio' Igor Man, il signor Manzella subisce un'altra opera di salvataggio da parte del giornale per il quale scriveva.
Evidentemente i quotidiani hanno bisogno di miti e alla Stampa non hanno trovato niente di meglio che riesumare Igor Manzella, passato nelle cronache quotidiane come il trombettiere più illustre del terrorismo palestinese.
Chi avesse tempo da perdere può guardare il nostro archivio, non sotto la voce Manzella, ma sotto il nom de plume 'Man'.
Questo omaggio della Stampa farà di sicuro piacere al Manzella, una ventata d'aria fresca in mezzo alle fiamme tra le quali starà giocando a poker con gli altri suoi sodali.
Ecco il pezzo:
«Yes, I know, listen my friend...»: dal suo gabbiotto in redazione, la voce arrivava tonante. Igor parlava insieme arabo e inglese. Aveva l’accento un po’ yankee di tanti della sua generazione a cui era capitato di conoscere gli americani durante la guerra. In quella calda primavera del 1986, nei giorni dell’attacco Usa a Tripoli alla casa di Gheddafi e dei due missili lanciati dal colonnello su Lampedusa, era uno spettacolo vederlo lavorare, appeso al filo incerto di una telefonata libica.
Igor Man era un tipo unico, a cominciare dal nome d’arte che s’era dato ed era riuscito non si sa come a far stampare sui suoi documenti. Aveva un metabolismo mediterraneo, gli era rimasto attaccato il fuso orario dei vecchi giornalisti che andavano a dormire tardissimo, con la prima copia fresca di stampa ritirata alla rotativa. Personaggio da film, era uno degli ultimi di un’epoca romantica e appassionata. In Vietnam mentre la moglie adorata, Mariarosa, metteva al mondo suo figlio Federico: il telegramma per avvertirlo della nascita lo raggiunse quando il bambino era già tornato a casa. E poi in Cile, a Cuba, a Panama e in Costarica: per molti anni non c’era guerra o guerriglia, crisi grande o piccola nel mondo che non lo vedesse schierato in prima linea.
Allora le missioni duravano mesi, l’informazione tv quasi non esisteva, gli articoli si mandavano col telegrafo o dettandoli a un dimafonista, e cominciavano con il fatidico distico «dal nostro inviato speciale ». In quell’aggettivo c’era un che di avventura, di sogno, di coraggio, che faceva desiderare anche all’ultimo dei cronisti di essere, di diventare chissà, un giorno, come il leggendario Igor Man.
A un certo punto della sua lunga carriera, Man aveva preso una sorta di seconda cittadinanza in Medio Oriente e nel mondo arabo nostro dirimpettaio e non ancora soffocato dal fondamentalismo. Andava e veniva, tornava e ripartiva, allungava orgoglioso il lungo medagliere di foto con i suoi intervistati. Accanto a Che Guevara, ad Allende, a un gruppo di misteriosi guerriglieri boliviani armati fino ai denti, a un Kennedy avvicinato svagatamente a un ricevimento a Washington, da un elegantissimo Igor in dinner jacket e papillon, comparvero così l’israeliana Golda Meir, l’egiziano Mubarak, il vecchio re Hassan II del Marocco, il ras della Tunisia Bourguiba, e poi, in varie pose, un Arafat di cui Man era spesso ospite esclusivo e autorizzato - raro privilegio -, a descriverne la vita riservatissima nella casa araba dove il tè bolliva lento tutto il giorno, tra nuvole d’incenso e fiori di gelsomino sparsi con cura dappertutto.
Con molti anni di anticipo sul 2001 dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, che doveva cambiare per sempre la convivenza mondiale, Man aveva capito quel che dalla sponda orientale a noi più vicina la polveriera islamica stava incubando, dentro e attorno a un Occidente del tutto impreparato a contenerla. Per questo Igor, che aveva visto nascere il khomeinismo in Iran, era desolato quando gli americani avevano dovuto abbandonare la Somalia infestata dai fondamentalisti. Ed era disperato di fronte alla prima guerra del Golfo, quella del ’91 in cui l’Italia si commosse per le gesta eroiche del maggiore Bellini e del capitano Cocciolone. Ma non immaginava neppure cosa sarebbe accaduto dieci anni dopo, e coltivava l’illusione di una crisi reversibile, e non di una rottura ideologico-religiosa che avrebbe segnato il secolo successivo dal suo inizio. Per questo, Man scelse di raccontare nella sua rubrica «Diario arabo» la cultura, i valori e anche gli eccessi del mondo islamico: lo faceva umilmente, in trenta righe, tutti i giorni sulla Stampa . E ogni articolo si chiudeva con una «sura», una massima del Corano lasciata lì, in conclusione, per far riflettere.
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