Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Come far sparire l'odio degli arabi La ricetta di Roberto Costantini in ben due pagine su Lettura/Corsera
Testata: Corriere della Sera Data: 07 ottobre 2012 Pagina: 32 Autore: Roberto Costantini Titolo: «Le parole e le pietre»
Riprendiamo da LETTURA (CORRIERE della SERA) di oggi, 07/10/2012, a pag.32, con il titolo " Le parole e le pietre", l'articolo di Roberto Costantini, presentato come "uno scrittore italiano, cresciuto a Tripoli, che racconta i suoi amici di Bengasi e Misurata, immersi in un paese infiammabile e incompreso", preceduto dal nostro commento:
Bisogna leggere questo articolo di "uno scrittore italiano cresciuto a Tripoli" che non è uno sprovveduto, dato che dirige un'università come la Luiss e pubblica sul supplemento culturale del "Corriere della Sera", per capire il modo in cui gli arabi spiegano il terrorismo e il giustificazionismo di un certo tipo di intellettuali europei. L'uccisione dell'ambasciatore americano a Bengasi "non è un efferato attentato terroristico", ma "qualcosa di più complesso e pericoloso", che rappresenterebbe addirittura"la libera espressione della volontà di una parte dei popoli arabi. Scoordinata, confusa, disinformata e parziale. Ma libera, popolare e non terroristica." Infatti "Che ci piaccia o meno, il risentimento antiamericano e in parte antieuropeo dei popoli arabi nasce da dalla sensazione (basata sui fatti) di non essere rispettati dall'Occidente [...] Poi c'è la questione fondamentale, quella più difficile per gli Usa e per noi [...] Il 29 novembre 1947 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 181 con cui il Mandato britannico sulla Palestina fu diviso in due Stati, uno ebraico e l'altro arabo. Votarono a favore 33 nazioni, contro 13 [...] Tutti noi dovremmo ricordarci di quel giorno e rileggerci l'elenco di quelle tredici nazioni. Sono quelle dove bruciano oggi le ambasciate americane e in piazza ci sono i nonni di quelli che io ho visto a Tripoli nel 1967, non tanto jihadisti e qaedisti. Per i popoli di quelle nazioni non è solo una questione di territori, confini, coloni, risarcimenti ai palestinesi. È una questione di rispetto e sarebbe così anche per noi. [...] sino a che a quel problema non sarà data una soluzione rispettosa per gli arabi, non possiamo pretendere da loro il connubio tanto caro alle democrazie occidentali di libertà e ragionevolezza: o l'una o l'altra." Insomma, c'è un solo modo per eliminare il neo-terrorismo omicida degli arabi e il loro odio per l'Occidente: risolvere in maniera "rispettosa" (per loro) il "problema" iniziato nel '47: cioè cancellare Israele dalla mappa geografica: come dice Ahmadinedjad... ".
Roberto Costantini
Ecco l'articolo:
Ho vissuto in Libia per i primi diciotto anni della mia vita. Lì ho ancora tanti conoscenti, che sento spesso. Alcuni di loro, quelli più giovani, hanno combattuto con le armi contro Gheddafi e oggi vivono tra Tripoli, Misurata e Bengasi. Giovani desiderosi delle stesse cose borghesi che desidera la maggior parte dei giovani occidentali. Certo, questi hanno combattuto con le armi per liberarsi di un criminale dittatore e pregano in moschea cinque volte al giorno. Ma per chi conosce i libici (non tutti i Paesi musulmani sono uguali), queste caratteristiche non hanno nulla a che fare con il terrorismo. Neanche come lontana simpatia ideologica, molto meno di chi in Italia all'inizio degli anni Settanta militava in certe organizzazioni. Tutto ciò non rende necessariamente la mia opinione più valida di tante altre che ho letto e sentito in questi giorni. Tuttavia, alcuni di questi giovani erano davanti al consolato americano durante l'attacco in cui hanno perso la vita quattro americani, tra cui l'ambasciatore Stevens. Con loro ho parlato più volte al telefono in questi giorni. Quello che ho compreso stride molto con alcune parole e interpretazioni di politici, giornalisti e, più in generale, dei miei amici e conoscenti italiani. Nel caso della Libia è fuori luogo parlare di efferato attentato terroristico e stupirsi per l'ingratitudine di un popolo che abbiamo aiutato. Ciò che è accaduto a Bengasi non è sorprendente e non è un efferato attentato terroristico come quello delle Torri Gemelle. Purtroppo siamo di fronte a qualcosa di più complesso e pericoloso. Stiamo assistendo in diretta tv alla libera espressione della volontà di una parte dei popoli arabi. Scoordinata, confusa, disinformata e parziale. Ma libera, popolare e non terroristica. Basta sentire la ricostruzione dei fatti di Bengasi e dei giorni successivi che mi hanno dato al telefono. L'u settembre uno di loro ha ricevuto da un conoscente l'invito a trovarsi davanti al consolato americano per protestare. Perché? Gli chiedo. E lui mi dice che non lo sapeva, non era importante, ci sono sempre motivi con gli americani. Lo dice ridendo, senza grande astio. Non sapeva nulla del film su Maometto. Era una scusa per fare una passeggiata con gli amici, niente di più. Hanno visto una piccola folla e si sono uniti. Lì, alcuni esagitati raccontavano di questo film e, coi telefonini, ognuno ha chiamato altri dieci amici ed è diventata una folla. Ma era ancora l'incrocio tra una goliardata e una vera protesta. Nessuno aveva visto questo film, molti inveivano per i diritti dei palestinesi, alcuni per l'assassinio di Osama. Mi stupisco. «Osama? Un criminale?». «Certo, un criminale. Ma persino i nazisti, Milosevic e Mladic li avete processati, non assassinati». In questo mix di persone diverse, rivendicazioni, risentimenti, qualcuno ha appiccato l'incendio. Chiedo chi fossero. «Barbuti? Quelli di Ansar?». Il mio conoscente dice che non lo sa, c'era tanta gente e una gran confusione. Secondo lui non ci sono terroristi in Libia e quelli di Ansar non sono come le «vostre Brigate Rosse». Mi dice che sono degli estremisti esaltati, ma non jihadisti o qaedisti attivi, semplici imitatori locali, capaci però di trascinare una folla dalle parole alle pietre e dalle pietre a un incendio o peggio. E ben armati Scoppiato l'incendio, prosegue il mio conoscente, la folla si è divisa tra chi non capiva, chi voleva aiutare, chi fuggiva. E forse l'incendio stesso è andato ben oltre le intenzioni di chi lo ha appiccato. f Questa ricostruzione mi torna per come conosco gli arabi. L'influenzabilità reciproca è una caratteristica molto forte quando si toccano alcuni tasti che fanno parte dell'identità collettiva, in primis la fede islamica che non ha mai avuto un Lutero o un Calvino e neanche Voltaire. Il tema di Osama Bin Laden è collegato a questo, non eccepiscono sulla natura criminale ma sulla sua fine. Se fosse stato un europeo cristiano gli americani lo avrebbero ammazzato così? H. mi ha raccontato che lui e i suoi amici di Misurata venerdì sera, dopo la preghiera, si sono fermati al bar a discutere. Il risultato di questa discussione è illuminante: antipatia generale ma non odio per gli Usa, pareri discordi sull'opportunità di manifestazioni davanti alle ambasciate, condanna e cordoglio unanime sulla violenza e sulla morte dell'ambasciatore americano. Dopo le preghiere in moschea e la discussione al bar, i giovani come H. sono scesi nelle strade di Tripoli, Misurata e Bengasi per testimoniare il loro desiderio di pace e il dolore per la morte di *** un amico come l'ambasciatore Stevens. Anche a Bengasi, me lo hanno confermato H. e altri, anche davanti ai barbuti integralisti di Ansar El Sharia con le bandiere nere che urlavano slogan antiamericani e antisraeliani. t" Cosa ci dice questa testimonianza diretta? La volontà popolare, dopo la primavera araba e la caduta delle dittature, è ancora confusa e caotica, giovanile e frammentata, combattuta tra tradizione e progresso. Quando parlo con i miei conoscenti libici, oggi liberi di esprimersi dopo oltre 4o anni sotto un dittatore criminale, sento dire tutto e il contrario di tutto. Su una sola cosa sono concordi: vogliono dedicarsi alle loro famiglie, ai loro commerci e vivere in pace ma liberi di esprimere le loro opinioni. In Tunisia, Egitto e Libia, chi oggi ha venti o trent'anni e non ha mai potuto parlare liberamente, mai andare a un comizio, mai fare una battuta sul dittatore, oggi ha improvvisamente la libertà di esprimersi. Ci stupisce davvero che molta gente si ritrovi in una piazza a gridare e inveire senza neanche sapere bene perché? Queste espressioni della volontà popolare, a volte pittoresche, a volte violente e talvolta criminali, le avevamo già viste negli anni passati in Afghanistan, Pakistan, e in Iraq dopo Saddam. Le abbiamo viste in Iran e in Siria, ma sempre e solo sotto il lucido controllo dei dittatori locali. E le abbiamo viste e sostenute durante la primavera araba in Tunisia, Egitto e Libia, quando erano contro i dittatori locali e non contro di noi. Allora, quando la folla in Libia attaccava le caserme e uccideva i lealisti, nessuno si è fatto troppe domande circa la reale natura popolare di quell'insurrezione, nessuno si è chiesto più di tanto se tra i combattenti ci fossero qaedisti e jihadisti, nessuno parlava di Ansar Al Sharia. Con Gheddafi, Mubarak, Ben All, Saddam e con gli attuali Ahmadinejad e Assad, certe cose non succedevano e non succedono, a meno che non lo volesse il dittatore. Perché lì la polizia avrebbe sparato ad altezza d'uomo sulla folla e il nuovo governo libico o egiziano questo non vuole farlo. Qui non c'è nessuno che può dire, come Napoleone ai francesi, «cittadini, la rivoluzione è fissata ai principi che l'hanno avviata, essa è conclusa». Ho scritto che Gheddafi era un criminale nel 1970 e poi il 21 ottobre 20u, il giorno dopo la sua morte. L'ho scritto di nuovo in questo articolo, mi sono ispirato a lui per la trilogia di Tu sei il Male. Però, se davvero non volevamo tutti questi giovani in piazza davanti alle ambasciate di Usa e di altri Paesi occidentali, allora dovevamo tenerci Gheddafi, Ben All e Mubarak. t" Quello che paghiamo è in parte il prezzo della loro libertà. Io credo che l'Occidente abbia fatto bene ad aiutare i Paesi arabi a liberarsi dai dittatori. Credo che il nostro premier faccia bene a dire all'attuale premier libico che un governo di coalizione è il modo migliore per fermare eventuali derive terroriste. Nel breve termine non è vero e credo che il nostro premier lo sappia. Ma fa benissimo a dire così. Ora però l'incidente di Bengasi, non un «efferato e pianificato attentato terroristico» dilagato rapidamente in altri Paesi islamici, ci costringe ad aprire gli occhi davanti alla realtà. Se vogliamo uscirne nel tempo, perché non ci sono scorciatoie rapide, dobbiamo aver chiari i motivi del generico sentimento popolare antiamericano, non i motivi degli esaltati o dei terroristi. Bisogna andare alle vere radici del risentimento popolare. Questa è gente pacifica, moderata, lo abbiamo già visto dai risultati delle elezioni popolari. Ci penseranno poi loro a disarmare il terrorismo, non gli americani coi droni killer e le squadre speciali. Dobbiamo però ricordarci che l'amicizia dei popoli non si compra coi miliardi di dollari di aiuti. Alla fine siamo uguali, noi e loro. Si è amici quando ci si aiuta nei momenti di difficoltà, e la base di questo aiuto non è né la minaccia, né la riconoscenza. E il rispetto reciproco. Che ci piaccia o meno, il risentimento antiamericano e in parte antieuropeo dei popoli arabi nasce da 11, dalla sensazione (basata sui fatti) di non essere rispettati dall'Occidente. E questo, con l'esclusione di alcune parti della penisola arabica, non ha nulla a che fare con le differenze religiose, come vorrebbero farci credere i fondamentalisti sia islamici che cristiani. Se il film su Maometto non fosse stato realizzato da un americano filo-israeliano, ma da un cinese, certamente ci sarebbero state proteste ufficiali e manifestazioni scomposte, ma non questo fuoco che divampa per tutto l'Islam. In modo incongruente e a volte troppo violento, i miei giovani conoscenti a Tripoli e tutti gli altri nelle piazze chiedono all'Occidente, e in primis agli Usa, segni concreti di rispetto. Quali? Per esempio processare Bin Laden come è stato fatto coi criminali nazisti e recentemente con chi ha massacrato donne e bambini nei Balcani. Poi c'è la questione fondamentale, quella più difficile per gli Usa e per noi. Ma chi, come me, ha vissuto tanti anni in quei Paesi, sa che 11 dobbiamo tornare, che ci piaccia o meno. Io ero a Tripoli, il 5 giugno 1967, il giorno in cui scoppiò la guerra dei Sei Giorni tra i Paesi arabi e Israele. Me le ricordo come oggi, certe cose: i poveri innocenti ebrei tripolini inseguiti da folle di giovani arabi urlanti, altri libici che bruciavano bandiere americane davanti all'ambasciata Usa. E quel desiderio di riscatto così impellente da spingere ondate di giovani, davanti ai miei occhi di adolescente, a partire verso il fronte senza armi e con le ciabatte ai piedi per andare a distruggere Israele. f Il 29 novembre 1947 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 181 con cui il Mandato britannico sulla Palestina fu diviso in due Stati, uno ebraico e l'altro arabo. Votarono a favore 33 nazioni, contro 13 (la Libia non era tra queste solo perché non era ancora una nazione indipendente). Tutti noi dovremmo ricordarci di quel giorno e rileggerci l'elenco di quelle tredici nazioni. Sono quelle dove bruciano oggi le ambasciate americane e in piazza ci sono i nonni di quelli che io ho visto a Tripoli nel 1967, non tanto jihadisti e qaedisti. Per i popoli di quelle nazioni non è solo una questione di territori, confini, coloni, risarcimenti ai palestinesi. È una questione di rispetto e sarebbe così anche per noi. Sino a che i presidenti americani faranno promesse a vuoto, incluso Obama in cui i miei conoscenti libici riponevano molte speranze, sino a che a quel problema non sarà data una soluzione rispettosa per gli arabi, non possiamo pretendere da loro il connubio tanto caro alle democrazie occidentali di libertà e ragionevolezza: o l'una o l'altra.
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