Unità, Manifesto, Fatto, Pubblico e in genere tutta la stampa italiana si è disinteressata dell'arresto di Yoani Sanchez, le carceri di castro, come quelle dei paesi arabo-musulmani, non sono interessanti nei paesi occidentali. L'unico quotidiano che ha dato spazio è la STAMPA, anche per il fatto che Yoani Sanchez pubblica i suoi articoli sul quotidiano torinese.
Ecco il pezzo uscito oggi, 07/10/2012, a pag.1/12, con il titolo " Le mie 30 ore senza bere nella cella di Castro". Yoani ha raccontato " volevano spogliarmi, mi sono ribellata e mi hanno punita".
Ecco perchè Yoani è stata arrestata:
"Il processo che il regime non vuole svelare"
Yoani Sánchez è stata arrestata mentre si recava al processo di Ángel Carromero, giovane militante del Partito Popolare spagnolo (PP). L’uomo era alla guida dell’auto a noleggio nella quale lo scorso 22 luglio viaggiavano anche Oswaldo Payá, dissidente cubano 60enne che nel 2002 ha ricevuto il premio Sakharov per i diritti umani dal Parlamento europeo, e un altro oppositore cubano, il 31enne Harold Cepero. Carromero, 27 anni, leader dei giovani del Partito Popolare spagnolo (Pp) è ora accusato di «omicidio» e rischia fino a 7 anni di carcere. Il politico spagnolo è arrivato nel tribunale di Bayamo, a 750 chilometri a Sud-Est dell’Avana. L’udienza è durata poche ore. «Siamo ottimisti, ma aspettiamo di vedere cosa accade», ha dichiarato ai giornalisti il console spagnolo Tomas Rodriguez Pantoja.
Il processo si è aperto senza l’altro passeggero del veicolo, lo svedese Aron Modig, 27 anni e presidente dei giovani cristiano-democratici di Svezia, il quale ha potuto tornare in Svezia il 30 luglio scorso, una settimana circa dopo il tragico incidente. I dissidenti cubani hanno espresso numerosi dubbi sull’incidente, che sospettano essere stato architettato dal regime.
"Le mie 30 ore senza bere nella cella di Castro" di Yoani Sanchez
Hanno voluto impedire che raggiungessi il luogo dove si teneva il processo ad Ángel Carromero. Erano le cinque della sera del 4 ottobre, un ampio spiegamento di forze di polizia nei pressi della città di Bayamo ha fermato l’auto sulla quale viaggiavo insieme a mio marito e a un amico. «Voi volete boicottare il processo», ci ha detto un uomo in divisa verde oliva poco prima di arrestarci. Sembrava che stessero fermando una banda di narcotrafficanti o che fosse la cattura di un pericoloso serial killer. In realtà eravamo solo tre individui interessati a seguire un processo, entrando da spettatori in un’aula giudiziaria. Credevamo che l’udienza fosse davvero pubblica, come aveva scritto il Granma. Ma dovevamo saperlo che il Granma non dice mai la verità.
Nonostante tutto, arrestandomi, finivano per regalarmi l’altro volto della storia. Vivere le stesse sensazioni di Ángel Carromero e la pressione che circonda un detenuto. Conoscere sulla propria pelle le macchinazioni di un Dipartimento del Ministero degli Interni. Prima di tutto si sono avvicinate tre donne in uniforme e mi hanno tolto il telefono mobile. Fino a quel punto si trattava di una situazione confusa, aggressiva, ma non aveva ancora niente di violento. Dopo, quelle stesse robuste signore mi hanno fatto entrare in una stanza e hanno provato a denudarmi. Ma esiste qualcosa di intimo che nessuno può toglierci di dosso. Non so, forse è l’ultima foglia di fico alla quale ci aggrappiamo quando si vive sotto un sistema che sa tutto delle nostre esistenze. Potrei citare quel cattivo e contraddittorio verso che dice «potrai avere la mia anima… non il mio corpo». Per questo ho resistito e ne ho pagato le conseguenze.
Dopo quel momento di estrema tensione è arrivato il turno del poliziotto “buono”. Uno che si è presentato dicendo di portare il mio stesso cognome - come se significasse qualcosa - e di amare il dialogo. Ma l’inganno è fin troppo noto, si è ripetuto così spesso, che non ci sono caduta. Mi è venuto subito in mente Carromero sottomesso alla stessa tensione composta da un mix di minacce e “atteggiamenti comprensivi”… non è facile sopportare a lungo una simile situazione. Nel mio caso, ricordo di aver fatto un respiro profondo e dopo una lunga discussione sulla illegalità del mio arresto ho cominciato a ripetere per più di tre ore una sola frase: «Esigo che mi facciate fare una telefonata, è un mio diritto». Avevo bisogno di certezze e ripetere le stesse parole mi tranquillizzava. Il ritornello mi faceva sentire forte di fronte a persone addestrate in accademia su come distruggere la volontà umana. Tutto quello di cui avevo bisogno per affrontarli era un’ossessione. Ed è così che ho finito per ossessionarmi.
Sembrava che la mia insistente cantilena fosse stata inutile, ma dopo le una del mattino mi è stato permesso di fare la chiamata. Poche frasi con mio padre, anche se la linea era sicuramente controllata, e avevo già detto tutto. Potevo passare alla tappa successiva della mia resistenza, che ho definito “ibernazione”, perché quando si dà un nome a una cosa significa classificarla e crederci. Ho rifiutato di mangiare e non ho voluto ingerire nessun tipo di liquidi; ho rifiutato di sottopormi ai controlli medici di alcuni dottori che volevano visitarmi. Ho rifiutato di collaborare con i miei aguzzini, dicendoglielo chiaro. Non potevo cancellare dalla mia mente la resa di Carromero in oltre due mesi di lotta con quei lupi che ogni tanto recitavano il ruolo delle pecore.
Per buona parte del tempo tutto quel che facevo veniva filmato dalla telecamera maneggiata da un sudaticcio paparazzo. Non so se un giorno o l’altro trasmetteranno qualche sequenza alla televisione ufficiale, ma ho impostato le mie idee e la mia voce in modo tale che non potessero essere usate per colpire le mie convinzioni. Possono scegliere tra mantenere le immagini con l’audio originale che contiene la mia domanda o ripetere il trucco di sovrapporre la voce di un doppiatore. Ho cercato di rendere il più difficile possibile il montaggio successivo di quel materiale.
Ho fatto solo una richiesta in 30 ore di detenzione: devo andare al bagno. Io ero pronta a dare battaglia fino alla fine, ma la mia vescica no. Dopo mi hanno condotta in una cella di lusso. Avevo passato diverse ore in una prigione con le tende alle sbarre e all’interno faceva un caldo terribile. Per questo trovarmi in una sala più ampia, con televisore e diverse sedie, che terminava in una camera munita di un letto confortevole è stato davvero un colpo basso. Osservando il tessuto delle tende, ho avuto il presentimento che fosse lo stesso posto dove era stata fatta la prima registrazione circolata in Internet delle dichiarazioni di Ángel Carromero.
Ho capito subito che non mi trovavo in una camera, ma in un set cinematografico. Per questo non ho voluto sdraiarmi su quelle lenzuola pulite e ho rifiutato di mettere la mia testa su quei cuscini tentatori. Ho raggiunto una sedia in un angolo della stanza ed è lì che mi sono raggomitolata. Due donne vestite con abiti militari sorvegliavano ogni mia mossa. Stavo vivendo il dejà-vu di un’altra persona, il ricordo dello scenario dove Carromero aveva trascorso i primi giorni di detenzione. Non era facile, non tanto per le botte o per la tortura, ma perché ero convinta che non mi potevo fidare di ciò che stava accadendo tra quelle pareti. L’acqua poteva non essere acqua, il letto sembrava una trappola e il premuroso dottore aveva le sembianze di una spia. Non restava che immergersi negli abissi dell’“io”, chiudendo le porte al mondo esterno. È proprio quello che ho fatto. La fase “ibernazione” si è conclusa in un letargo auto provocato. Non ho più detto una parola.
Quando mi hanno riferito che stavano per trasferirmi all’Avana, mi è costato fatica aprire le palpebre e la lingua sembrava uscirmi dalla bocca per colpa della sete prolungata. Ma sapevo di aver vinto. In un gesto finale, uno dei miei aguzzini mi ha teso la mano per aiutarmi a salire sul pulmino dove si trovava anche mio marito. «Non accetto cortesie dai repressori», gli ho detto, fulminando con lo sguardo. Il mio ultimo pensiero è stato per il giovane spagnolo che in quel 22 luglio ha visto cambiare la sua vita e ha dovuto lottare contro tutta quella serie di inganni.
Arrivata a casa ho saputo degli altri detenuti e che la stessa famiglia di Oswaldo Payá non è stata ammessa nella sala del tribunale. Ho saputo anche che il pubblico ministero ha chiesto sette anni di detenzione per Ángel Carromero e che il processo di questo venerdì era ormai “concluso in attesa di sentenza”. Il mio era stato solo un incidente, il vero dramma continua a essere la morte di due uomini e la reclusione di un altro.
(Traduzione di Gordiano Lupi )
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