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Il Foglio Rassegna Stampa
06.10.2012 Jonathan Pollard libero !
Commento di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 06 ottobre 2012
Pagina: 2
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Il nemico americano»

Sul FOGLIO di oggi, 06/10/2012, a pag.II dell'inserto, con il titolo "Il nemico americano", Giulio Meotti racconta l'indicibile caso Pollard, l'unico ad essere stato condannato all'ergastolo per spionaggio nella storia americana.
Ecco l'articolo:

Nel quartier generale della Cia a Langley, in Virginia, in un lungo corridoio che conduce ai bagni, in una sezione dove i funzionari stranieri tengono incontri di affari, c’è un grande poster che ritrae Jonathan Pollard, con la sua kippah e la barba da ebreo religioso. Il messaggio del poster è chiaro: “Non fate come lui e non farete la stessa fine”. A differenza del fisico Klaus Fuchs, dell’ex ufficiale della marina John Walker o dell’ex agente della Cia Aldrich Ames, che hanno spiato per conto dei sovietici, Pollard è l’unico americano condannato all’ergastolo per aver spiato per un alleato, Israele. Quando funzionari israeliani entrano in quella sezione a Langley il messaggio del poster è duplice, indica anche le difficoltà israeliane nel rapporto con l’intelligence statunitense. Il 21 novembre 1985 Pollard siede nella sua Ford Mustang di fronte all’ambasciata israeliana a Washington. Ha con sé la moglie Anne, i certificati di nascita, le foto di famiglia e un gatto. Spera di lasciare il paese. Quando cerca di varcare il cancello della sede diplomatica israeliana, però, vede chiudersi le porte in faccia. Per dodici anni Gerusalemme negherà persino che la spia abbia lavorato per il suo servizio segreto. Con Pollard, il prigioniero numero 09185016 del carcere federale di Granville, in Nord Carolina, ha inizio una faida fra i due alleati che ha avuto riverberi importanti nell’attuale partita sul nucleare iraniano, su cui Gerusalemme e Washington si trovano in forte contrasto. “Il caso Pollard riguarda più della vita di un singolo uomo”, scrive su Commentary Jonathan Tobin. “E’ diventato l’aspetto decisivo dei rapporti fra America e Israele”. Su Pollard nei prossimi giorni il governo israeliano di Benjamin Netanyahu dovrebbe presentare un’altra richiesta di clemenza alla Casa Bianca, mentre il magnate Sheldon Adelson, il più importante finanziatore sia del candidato repubblicano Mitt Romney che di Netanyahu, ha posto la liberazione di Pollard in cima alla lista delle priorità. Hillary Clinton ha risposto per le rime: Pollard passerà il resto della sua vita in una cella d’isolamento. Con il suo inglese impeccabile, la lunga esperienza americana di ambasciatore all’Onu, una laurea al Mit di Boston, le ovazioni al Congresso e uno staff composto prevalentemente da ebrei anglofoni, Netanyahu doveva essere l’uomo che avrebbe portato a livelli senza precedenti i rapporti fra Gerusalemme e Washington. Cosa è andato storto? Perché “Bibi” ha alimentato uno scontro politico e diplomatico senza precedenti fra i due paesi? Senza dubbio pesa la reciproca antipatia che intercorre fra il leader israeliano e il presidente Barack Obama. I due non potrebbero essere più diversi. Mentre Obama faceva il community organizer e frequentava i circoli liberal di Hyde Park, Netanyahu serviva già il suo paese alle Nazioni Unite (proprio nel periodo in cui Pollard spiava e fu incriminato). Due anni fa, al culmine della crisi fra Washington e Gerusalemme sugli insediamenti ebraici, quando Obama si fece fotografare con i piedi sulla scrivania nello Studio ovale mentre era al telefono con Netanyahu, come gesto di totale disistima, i siti americani pubblicarono le fotografie appaiate dei due nei rispettivi vent’anni: Obama è un simpatico capellone che indossa abiti stravaganti e ha l’aria scanzonata; Netanyahu imbraccia il mitra, ha la mascella squadrata, indossa la divisa marrone di Tsahal e calza gli scarponi dei commando israeliani. Ma c’è dell’altro, molto altro, oltre a queste biografie, nell’attuale crisi di fiducia fra Israele e Stati Uniti. C’è appunto il caso Pollard e i calci sotto il tavolo che i due apparati di sicurezza si tirano dal 1985. Alcuni giorni fa è uscito un documento dell’intelligence statunitense dal titolo “Preparing for a Post Israel Middle East”. Ovvero preparatevi a un medio oriente post israeliano. Il memo porta la firma di analisti militari, dell’Homeland Security, dell’Fbi, della National Security Agency e della Cia. Si dice che Israele potrebbe diventare un peso per la politica americana in medio oriente e che sarà necessario tagliare i contributi americani allo stato ebraico. Israele dipende dagli americani sul piano militare e diplomatico. I cittadini degli Stati Uniti contribuiscono alle spese militari israeliane per il venti per cento (Israele riceve aiuti più di ogni altro stato dalla Seconda guerra mondiale). Parte di questi aiuti Israele deve reinvestirli nell’acquisto di armamenti americani. C’è un quid pro quo in questo rapporto, ma c’è anche un limite che la dipendenza non può superare. La corsa iraniana al nucleare, così come il bombardamento del reattore nucleare di Saddam Hussein, l’ha chiarito molto bene. E’ la guerra dell’intelligence. Israele non è così alleato dell’America quando si tratta di condividere le informazioni più sensibili sulla sicurezza. Washington spartisce questi dati con i “Cinque Occhi”: Stati Uniti, Inghilterra, Australia, Canada e Nuova Zelanda. Israele fa parte del secondo livello, “Friends on friends”, sta per “gli amici non spiano gli amici”, una conseguenza del tradimento di Pollard. All’apice della crisi fra Stati Uniti e Israele sul nucleare iraniano, la scorsa primavera, venne fuori la notizia che dal luglio all’ottobre del 2011 gli americani erano rimasti completamente all’oscuro delle attività di intelligence israeliane. A Washington regnava il panico. Si era fermato lo scambio di informazioni. Come un inveramento della profezia del 1987 dell’allora capo del Mossad, Isser Harel, che aveva predetto che il caso Pollard per decenni avrebbe avuto risvolti negativi “nei rapporti fra Gerusalemme e l’apparato militare americano”. Gli americani ricambiano la cortesia. Al centro dell’attenzione sull’Iran c’è il radar sul monte Keren nel deserto israeliano del Negev. Il sistema antimissile è in grado con dodici minuti di anticipo di annunciare a Gerusalemme qualunque cosa si alzi in cielo da Teheran. Ma in quel radar possono guardare soltanto gli americani. Senza il radar, Gerusalemme non potrebbe attivare con un significativo margine di tempo le sirene a protezione della popolazione. Perché l’America si rifiuta di far usare anche a Israele il sistema antimissile? Il prigioniero Pollard alimenta profonde crisi di identità, dà adito alle accuse di “doppiogiochismo”, mette in dubbio la fedeltà degli ebrei a Washington, insinua i sospetti israeliani sull’abbandono dello stato ebraico da parte del grande alleato oltreoceano. Una forma di sospetto esasperato che da Pollard in avanti si indirizza contro gli ebrei, specie se religiosi e molto legati a Israele, che ricoprono posizioni importanti nell’apparato americano. All’epoca di Pollard, il rabbino Jacob Neusner scrisse sul Washington Post persino una requisitoria per dire che la terra promessa degli ebrei sono gli Stati Uniti e non Israele. Un anno fa Martin Peretz, editore di New Republic e buon amico di Israele, ha pubblicato un articolo contro “la crociata per liberare Pollard”, da lui definito “uomo disgustoso”. Il caso Pollard ha lacerato i rapporti fra la diaspora e lo stato ebraico. Netanyahu tempo fa ebbe a definire Rahm Emanuel e David Axelrod, i due principali consiglieri di Obama di origine ebraica, “ebrei che odiano se stessi”. Nel 1997, quando Israele con Netanyahu per la prima volta chiese la liberazione della spia, il generale Rehavam Zeevi definì Martin Indyk, ambasciatore americano in Israele di origine ebraica, “Jew-Boy”. Alla replica di Indyk per cui Zeevi era un “imbarazzo” per il suo paese, il generale replicò: “Lui dice che io sono un imbarazzo, io che ho protetto il mio paese sul campo per cinquant’anni. Forse è lui l’imbarazzo, che lavora contro il suo stesso popolo per i Gentili. Io sono un generale, lui è un fiacco ambasciatore”. Il caso Pollard ha scosso anche lo stato ebraico. Ambienti vicini all’attuale primo ministro hanno accusato l’attuale presidente, Shimon Peres, schierato con Obama contro l’attacco preventivo israeliano in Iran, di aver venduto Pollard agli americani. All’epoca Peres era ministro degli Esteri e fu lui a trasferire a Washington tutti i documenti che Pollard aveva sottratto all’intelligence statunitense e fatti avere in Israele. Su quei fogli c’erano le impronte digitali di Pollard e senza quel materiale l’accusa non avrebbe retto in tribunale. L’ex presidente della B’nai B’rith International, Tommy Baer, ha detto che il caso Pollard “è la cosa più vicina a un Dreyfus americano”, mentre il giurista e avvocato di Harvard Alan Dershowitz l’ha chiamata “un’ingiustizia americana”. Il governo israeliano ha riconosciuto che Pollard era stato reclutato dai suoi servizi segreti solo dopo l’ascesa al potere di Netanyahu, che a Pollard ha concesso anche la cittadinanza onoraria israeliana. Se per l’America Pollard è uno sporco traditore, per Israele “è un orgoglioso sionista”, come ha detto tempo fa Netanyahu alla Knesset. Sul caso Pollard, Netanyahu ha portato a livelli senza precedenti la frizione con l’establishment americano, chiedendo insistentemente a Obama di liberarlo, ma senza successo (l’avvocato di Pollard, Eliot Lauer, è fra i finanziatori di Netanyahu). L’11 maggio 1998 Netanyahu ammise pubblicamente che Pollard era uno dei loro. Nel 2002 andò per la prima volta a fargli visita in carcere. Con la lettera a Obama, ha chiesto per la prima volta ufficialmente agli Stati Uniti di liberare la spia. Lo scorso giugno si è poi mosso con gli Stati Uniti, invano, perché consentissero a Pollard di uscire di prigione per assistere ai funerali del padre. Il ministro della Difesa americano dell’epoca, Caspar Weinberger, aveva dichiarato: “E’ difficile concepire un danno più grave alla sicurezza nazionale di quello causato da Pollard”. In privato, Weinberger aggiungeva che la spia meritava di essere “fucilata o impiccata”. Da allora il Pentagono ha fatto di tutto pur di tenere dentro Pollard, e un capo della Cia come George Tenet ha minacciato le dimissioni se fosse stato liberato. Pollard si è sempre detto colpevole, sottolineando però che le informazioni le aveva fornite a un alleato e che Washington si era impegnata a condividere con Israele questo tipo di dati. Grazie ai documenti forniti dalla spia, l’aviazione israeliana poté bombardare le basi dell’Olp a Tunisi. “In quel periodo io ero ‘gli occhi’ e ‘le orecchie’ di Israele in una zona geografica che andava dall’oceano Atlantico all’oceano Indiano”, ha scritto Pollard dal carcere. Grazie a lui, Israele era preparato ai missili lanciati da Saddam su Tel Aviv nel 1991. All’epoca in cui spiava per Israele, Pollard aveva accesso alle sezioni più sensibili dell’intelligence statunitense. Un giorno scoprì documenti vitali per Israele. Cosa fare? Conobbe un colonnello israeliano, Aviem Sella. Pollard gli disse che Washington non stava condividendo con Israele le informazioni in proprio possesso. Il rapporto di Sella arrivò al Mossad. L’agente di collegamento incaricato fu Rafi Eitan, l’uomo che aveva rapito il colonnello delle SS Adolf Eichmann in Argentina, il grande vecchio dell’intelligence israeliana, un pezzo di storia ebraica, l’uomo che Ariel Sharon chiamava “stinky Rafi”, Rafi il puzzone, perché in un’operazione era finito in una fogna. L’uomo, anche, che aveva spiato siti nucleari americani in Pennsylvania (da allora, Eitan è “persona non grata” negli Stati Uniti). Il primo dispaccio di Pollard a Tel Aviv lasciò senza parole gli israeliani: c’erano i dettagli su nuovi tipi di armamenti nelle mani di Egitto, Giordania e Arabia Saudita. Poi Pollard fornisce a Israele i piani missilistici dell’Iraq. Gerusalemme accettò di pagare anche la luna di miele ai Pollard. Poi venne stabilito un fisso per il lavoro svolto: 1.500 dollari. Negli anni a seguire, Pollard consegnò a Israele schemi di testate chimiche siriane, armamenti sovietici e il “Radio and Signal Intelligence Manual” degli Stati Uniti. Soltanto questo furto è costato al Pentagono svariati milioni di dollari nella ristrutturazione dell’intelligence. Dopo l’arresto di Pollard il nervosismo nei confronti d’Israele arrivò al punto che agenti dell’Fbi indagarono anche i dipendenti dell’Aipac, il maggiore gruppo di pressione pro Israele negli Stati Uniti, molto critico dell’Amministrazione Obama. L’inchiesta contro l’Aipac si è chiusa nel 2009, ma le accuse sulla “lobby ebraica in America” pesano ancora, dando adito ai sospetti dei peggiori complotti. Nel 1996 il Pentagono chiese ufficialmente scusa a Israele per un memorandum a uso delle aziende che lavorano per l’industria americana. Vi si metteva in guardia i contraenti contro tentativi israeliani di acquisire informazioni utilizzando i “legami etnici”, gli ebrei d’America. Nel rapporto si citava il caso di Pollard. “I rapporti tra i due paesi nel campo spionistico sono di pura competizione”, recitava il memo. Lo scorso agosto è uscita la notizia che l’intelligence americana considera Israele “una vera e propria minaccia per il controspionaggio”. Un capo stazione della Cia in Israele ha notato che l’apparecchiatura che utilizzava era stata manomessa. Un altro ufficiale ha trovato la residenza violata. Dalla “Divisione Vicino Oriente” della Cia Israele è considerata “la principale minaccia di controspionaggio”. Anche l’America spia Israele. Itamar Rabinovich, ambasciatore di Israele a Washington dal 1993 al 1996, ha rivelato che durante il suo mandato Washington ha decifrato un codice israeliano: “Ogni telegramma ‘scottante’ rischiava di non essere recapitato. Ne abbiamo inviati pochissimi. A volte mi recavo in Israele per comunicare a voce le informazioni”. Yossi Melman, un giornalista israeliano specialista d’intelligence, ha svelato che i servizi segreti americani intercettano le conversazioni tra il personale che riveste posti chiave in Israele e quello all’estero. L’Agenzia per la sicurezza nazionale impiega molti dipendenti che parlano ebraico nel quartier generale a Fort Meade, in Maryland, dove si ascoltano le intercettazioni delle conversazioni israeliane. Nel 2004 il sospetto che Israele avesse un’altra spia al Pentagono fece scattare l’inchiesta su un funzionario di grado elevato, Larry Franklin, sospettato di aver fatto pervenire a Israele tramite l’Aipac informazioni sulla linea del governo americano su Iran e Iraq. Moshe Arad, ex ambasciatore di Israele a Washington, disse che “siamo davanti a un tentativo di colpire l’immagine di Israele da parte di circoli all’interno o al di fuori dell’Amministrazione americana”. Di nuovo, l’ombra di Pollard. A destare i maggiori sospetti il fatto che Franklin lavorasse per il numero tre del Pentagono, Douglas Feith, ebreo e consigliere del capo del Pentagono Donald Rumsfeld. Ma è su Osirak, il reattore nucleare di Saddam Hussein alle porte di Baghdad, che pesa di più l’ombra di Pollard. L’agente di collegamento di Pollard, Sella, non a caso guidò lo squadrone di caccia israeliani che bombardò il sito atomico. Recenti documenti inglesi rivelano che gli Stati Uniti erano all’oscuro del bombardamento israeliano. “Menachem Begin ha perso il controllo”, disse furioso il ministro della Difesa americano Weinberger, riferito al premier israeliano. Quest’ultimo rispose: “Non ci sarà un secondo Olocausto”. Il 7 giugno 1981 l’operazione israeliana durò due minuti. I rischi erano molti, dall’isolamento internazionale di Israele alla reazione del mondo arabo (che non ci fu). Ma più alto era il rischio legato al reattore che Saddam stava perfezionando grazie ai tecnici francesi e italiani. C’è qualcuno che oggi dubita ancora che sia stata la cosa giusta da fare, sia strategicamente che da un punto di vista morale? Potrebbe accadere lo stesso con l’Iran? Intanto Netanyahu continua a chiedere la liberazione di Pollard, nome in codice: “Cavallo da caccia”. La spia “rivendicata” da Gerusalemme come un soldato scomparso in azione o un prigioniero di guerra.

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