Sul dibattito Romney-Obama, il FOGLIO di oggi, 06/10/2012, pubblica due articoli di Mattia Ferraresi, che riprendiamo per i nostri lettori. Il primo è a pag. III dell'inserto, il secondo in prima pagina.
Mattia Ferraresi: " Dibattito sul dibattito "
Un tempo funzionava così: i candidati alla Casa Bianca salivano su un palco, il moderatore guidava le danze, i duellanti si scannavano secondo copioni derivati dai caratteri, dalla necessità, dal momento storico e così via, qualche decina di milioni di americani seguiva lo show e a un certo punto l’anchorman dava la buonanotte. C’erano gli spettatori che rimiravano il dibattito con lo spirito con cui si guarda il football il giorno del ringraziamento, gli invasati in piedi sul divano e quelli indecisi che cercavano di farsi un’idea; c’erano quelli annoiati che dopo dieci minuti mandavano a ramengo Clinton, Bush, Nixon, Kennedy, McGovern, Goldwater o chi per loro e tornavano a guardare “Dallas”. Finito il dibattito attaccava il salotto televisivo, con la proclamazione di vincitore e vinto, l’analisi dei temi trattati, la scelta degli “zinger”, le battute-tormentone che avrebbero dominato le successive settimane prima del voto, e chiuso anche il momento delle curve più o meno politicizzate, la partita si rimandava alla mattina successiva quando a mente fredda si chiedeva al vicino di scrivania, al reverendo, al professore, al nonno saggio o al Washington Post una chiave interpretativa. Quello ha vinto, l’altro ha perso, quello era impacciato, l’altro era borioso, uno ha detto una balla, l’altro dovrebbe vergognarsi, se vince quello mi trasferisco in Canada. Il dibattito era un evento caldo, se ancora è concesso usare una terminologia antica, a bassa partecipazione da parte del pubblico; il dibattito si guardava più o meno come si guarda una puntata di “Newsroom”, ma noiosissima, si masticavano nella più o meno accentuata solitudine del proprio salotto le informazioni raccolte e si rimandava a un altro ambito e un altro momento l’elaborazione di ciò che era stato raccolto. Solitamente nel passaggio fra il salotto in prima serata e il timbro del cartellino la mattina successiva tutte le informazioni del dibattito erano scivolate via dalla mente, rimaneva soltanto una fragile serie di immagini, e infatti i professionisti della politica dall’alba dei dibattiti televisivi (1960, Kennedy contro Nixon: il primo, abbronzato, in forma e preparato fino al minimo dettaglio, si è tenuto il pomeriggio libero per studiare il duello; l’altro ha fatto un comizio in città poco prima, ha la febbre, uscendo dalla macchina ha sbattuto il ginocchio ed è arrivato in studio zoppicante. Ha rifiutato il trucco e soltanto la televisione in bianco e nero ha mascherato il volto verdastro e la barba sfatta, insomma un disastro. Ma per chi ha ascoltato il dibattito alla radio Nixon ha vinto in surplace) dicono che non producono effetti rivoluzionari sull’elettorato, sono tutt’al più un “nudge”, una spintarella che dà qualche risultato soltanto se la gara è già di per sé equilibrata, vedi Al Gore contro Bush nel 2000. Oppure servono a ingrossare una fonte archivistica sensazionale nell’era della youtubizzazione delle immagini, tanto che si può leggere la storia americana degli ultimi cinquant’anni attraverso i “there you go again” di Reagan, la mitica versione del potere sovietico di Ford, “non c’è nessuna dominazione sovietica nei paesi dell’Europa orientale”, la domanda agghiacciante posta a Dukakis, fiero avversario della pena di morte: “Se sua moglie venisse stuprata e uccisa, sarebbe favorevole alla pena di morte per l’assassino?”; e infine il “you’re no Jack Kennedy” sputato in faccia con olimpica cattiveria dal candidato vicepresidente dei democratici, Lloyd Bentsen, al suo avversario Dan Quayle. Soltanto che alla fine il ticket capitanato da Bush senior è andato alla Casa Bianca, il senatore Bentsen a casa propria. Adesso i dibattiti sono sottoposti al “second screen behavior”, la tendenza ad avere gli occhi puntati su due schermi contemporaneamente. Succede sempre: si guarda Sanremo mentre si twitta su Sanremo, con un occhio si guarda il derby con l’altro si guarda cosa dice il liveblogging del giornalista autorevole per farsi un’opinione sull’andamento dell’evento. Così, giusto per capire se l’arbitro è cornuto, l’allenatore incompetente, se è la campagna acquisti che ha fatto schifo oppure è la cultura italiana che non coltiva i giovani, e allora meglio tifare Barcellona. Si raccolgono punti di vista utili da riciclare alla macchinetta del caffè e battute salaci da spacciare come proprie. Di solito gli opinionisti più ascoltati del “second screen" non sono quelli più autorevoli ma semplicemente quelli più fastidiosi, più insistenti, più taglienti, i monomaniaci, quelli che abbaiano più forte oppure gli snob che mentre tutto il mondo dice che il gol era in fuorigioco spiegano boriosamente che se non sapete nulla dell’effetto distorcente da inclinazione della telecamera allo stadio dovreste occuparvi di badminton e ritenervi fortunati. Solitamente si tratta di gente che non ha nulla da fare o che lo fa per mestiere. Quella del “second screen” è una sindrome generalmente innocua e dà sintomi persino piacevoli – non sempre: la fissazione è peggio della malattia – se applicata agli eventi ludici o all’intrattenimento trash, ma il dibattito presidenziale nella rappresentazione della politica americana è una cosa seria in cui gli elettori dovrebbero – volendo, potendo – chiarirsi qualche concetto, farsi un’idea, lasciarsi influenzare e blandire e perfino fregare da quel tizio con lo sguardo sognante che promette di cambiare l’America in quattro mesi e il mondo in quattro anni. Oppure lasciarsi convincere dalle soluzioni concrete del suo avversario cinico. Insomma: si mescolano candidati ed elettori e si aspetta la reazione chimica. Nello schema freddo del “second screen” la filiera dell’influenza è più complessa, perché mentre Barack Obama incontra il primo inghippo il commentatore liberal Ed Schultz scrive su Twitter “dov’è il presidente stasera?” e il commento spacca l’argine dei democratici delusi e ringalluzzisce lo spirito dei conservatori in cerca di rivincita. Con un occhio si osserva una performance che ha un senso soggettivo – c’è chi è convinto da un argomento e chi no, c’è chi ama la prosa e chi la poesia – e con l’altro si cerca legittimazione nell’opinione comune che trasuda dai feedback in tempo reale. Il dibattito in sé diventa una parte del Grande Dibattito che soltanto in minima parte si svolge sullo schermo principale. Chi è dentro il meccanismo sa benissimo che sarebbe impossibile, o almeno invalidante, seguire un dibattito senza contribuire al rumore di fondo che lo accompagna. Soltanto che il rumore di fondo è così forte che sovrasta la melodia principale, e nel mondo del second screen le parole dei candidati appaiono sempre più lontane e singhiozzanti, quasi fossero soltanto occasionali attaccapanni ai quali appendere una nuova polemica, una nuova gag, una nuova battuta, un nuovo hashtag che si spera diventi trending topic. Ogni respiro, ogni abbassamento dello sguardo, ogni “aehm”, ogni tentennamento viene consegnato al giudizio immediato del mondo e prende vita, si alza sulle proprie gambe e si allontana dall’evento che l’aveva originato. Romney dice che vuole chiudere un sacco di programmi statali che finanziano cose non necessarie, tipo il network Pbs, chiede scusa sorridendo al moderatore Jim Lehrer (volto storico di Pbs) e rassicura: “Io amo Big Bird”, il pupazzone giallo che da questa tv intrattiene i bambini americani dalla fine degli anni Sessanta. Twitter ha delirato, la rete è esplosa, il second screen si è sovraccaricato di appelli umanitari per salvare Big Bird, sono girati istantaneamente sarcastici fumetti di Romney che dice “io amo licenziare Big Bird”, l’account @FiredBig- Bird ha guadagnato 24.000 follower al volo, il Wall Street Journal ha subito messo in cantiere un articolo per raccontare quante volte il volatile ha fatto capolino di riffa o di raffa nell’agone politico. Un filone di pubblico ha inseguito il pupazzone volante nell’etere, si è perso per un po’ dietro a un dettaglio, sapendo che avrebbe recuperato in fretta gli argomenti persi sul first screen semplicemente attingendo dal materiale già ruminato del second screen. Roba da far venire l’esaurimento nervoso a McLuhan. Votizen, un’azienda che analizza i tweet degli utenti iscritti ai partiti, dice che la parola più usata dai repubblicani durante il dibattito è stata “love”: io amo Big Bird. Cinquantotto milioni di americani hanno seguito il dibattito all’Università di Denver fra Obama e Romney attraverso i network principali, ai quali vanno aggiunti alcuni milioni che l’hanno visto sulle reti locali. Nei novanta minuti di dibattito sono stati scritti 10,3 milioni di tweet, record per un evento politico, ma sarà battuto molto presto, con un picco pazzesco quando il moderatore – a sua volta dibattutissimo – ha detto a Romney “let’s not”, in risposta ai suoi “let me”: 158.690 tweet in un minuto, e se non è chiaro come questa pletora di messaggi abbia potuto aiutare qualche elettore a capire meglio cosa stavano dicendo laggiù, nell’era preistorica dello schermo singolo, quei due candidati, è soltanto perché non è chiaro che cos’è il dibattito, e si prende quello vecchio per quello nuovo, il piccolo dibattito per il Grande Dibattito. Non è chiaro, insomma, che il dibattito è già stato dibattuto. Qualunque elemento, serio o faceto, polemico o accomodante, malizioso o cristallino, che entra nel flusso delle interpretazioni istantanee influenza il corso del dibattito successivo secondo logiche incontrollabili. Almeno fino al successivo Big Bird che svela nuovi bivi e deviazioni impreviste. Ci sono tribù riconoscibili, ad esempio gli insonni italiani che hanno seguito la tenzone di Denver unendosi ai connazionali oltreoceano: nel microcosmo italofono hanno inscenato un metadibattito a parte, tutto filtrato secondo categorie culturali condivise. Era in parte connesso al dibattito fra i candidati, in parte era un’altra cosa. Un altro filone è quello della delusione della sinistra liberal. I giornalisti di Msnbc lo hanno alimentato prima in diretta, si veda Ed Schultz, e lo hanno sontuosamente confermato nel controdibattito in studio, che rimarrà negli annali per la tirata in apnea di Chris Matthews contro il presidente un tempo amato e immediatamente messo dietro la lavagna per una prestazione indegna della sua fama. L’animosità di Msnbc verso Obama ha generato una catena di giudizi negativi che hanno affossato la prestazione del presidente molto prima che i candidati finissero di discutere; stavano ancora esponendo i loro pensieri che già si discuteva d’altro, perché l’oggetto precipuo della discussione non erano le visioni dei candidati ma le interpretazioni delle visioni dei candidati. Meglio: le reazioni alle visioni dei candidati. Allo stesso modo, ma sull’altra sponda politica, quelli di Fox News hanno passato tutti i novanta minuti a dare segnalazioni entusiastiche e alla fine in studio c’era un clima da uccisione del vitello grasso per il ritorno del figliol prodigo Mitt. Il New York Times, che notoriamente non brilla per terzietà politica, in controtendenza con l’opinione più diffusa ha giudicato il dibattito inutile, sterile, senza costrutto, fondamentalmente fasullo e nemmeno meritevole di avere un vincitore e uno sconfitto. E’ una versione che combacia perfettamente con l’atteggiamento di superiorità che la campagna elettorale di Obama promuoveva da giorni, roba puramente tattica ma, a parte l’aspetto strettamente partisan, pone una domanda ai confini del paradosso: il pubblico del “second screen” giudica l’oggetto che sta osservando (il piccolo dibattito) oppure giudica qualcosa che è già stato masticato, digerito, assimilato, risputato, approvato dall’editorialista di riferimento, avallato dal capoufficio che si vuole compiacere, censurato in diretta dalla ragazza con cui si vorrebbe uscire? Inutile, oltre che impossibile, vagheggiare il mondo della politica pane e salsa barbecue, ma si può azzardare forse che nell’era del “second screen behavior”, che è soltanto agli albori, si rischia di perdere di vista il senso della continuità del ragionamento, l’argomentazione nella sua completezza, si spezzano i nessi, faccende abbastanza importanti quando un candidato alla presidenza degli Stati Uniti deve spiegare, ad esempio, qual è il nesso fra il budget e la morale (non il moralismo: quello si spiega al volo anche sul “second screen”). Abraham Lincoln e Stephen Douglas nel 1858 hanno fatto una famosissima serie di sette dibattiti prima delle elezioni al Senato dell’Illinois, uno per ogni distretto che i candidati non avevano ancora toccato. Funzionava così: un candidato fa un’intervento di un’ora, senza interruzioni, lo sfidante risponde per un’ora e mezza, e di nuovo il primo prende la parola per la mezz’ora successiva. Niente moderatore, pura argomentazione, abilità oratoria e competizione fra strategie di influenza sul pubblico che accorreva numeroso. Naturalmente al dibattito seguente si invertiva l’ordine di parola. Non esiste forse nulla di più antitelevisivo del format di Lincoln, figurarsi di adeguato al “second screen”, ma non c’è dubbio che l’organizzazione del dibattito permettesse di svolgere un ragionamento, di stendere un testo che non poteva sostenersi a forza di “zinger”, di Big Birds, di distrazioni, singhiozzi, gaffe istantanee e occhi puntati su schermi paralleli. Anche allora c’era il Grande Dibattito, ci si basava, per giudicare, su interpretazioni di interpretazioni, ma con un ritmo che non rischiava a ogni respiro di spezzare i tendini del ragionamento. Il dibattito, allora, non era già stato dibattuto prima ancora di terminare.
Mattia Ferraresi: " Rimonta più veloce Romney o l'occupazione che aiuta Obama ?"
I numeri di Obama saranno veri ?
New York. Barack Obama stava sprofondando nelle sabbie mobili del post dibattito e come in un film è spuntata una mano inaspettata alla quale aggrapparsi, i dati sulla disoccupazione. I numeri illustrano un trend positivo nel contesto di un’economia debole, con percentuali di crescita che non prometteranno un ritorno alla piena occupazione in meno di dieci anni, di questo passo: scrutati da vicino, i dati pubblicati ieri sono ottimi; facendo qualche passo indietro si scopre che il quadro complessivo continua a essere deprimente. Dalla scelta della prospettiva dipende il conflitto delle interpretazioni fra Obama e Romney. Il tasso di disoccupazione è sceso al 7,8 per cento, il dato migliore dal gennaio 2009, quando Obama si è insediato alla Casa Bianca. Nel febbraio di quello stesso anno, il primo mese dell’effettiva gestione presidenziale, è salito all’8,3 per cento, il che permette al presidente di dire, da qui alle elezioni del 6 novembre, che la disoccupazione è più bassa rispetto a quando ha preso in mano il paese. Non è una cosa da poco. I dati del Bureau of Labor Statistic vanno interpretati, e non sempre il tasso di disoccupazione in calo significa che il mercato del lavoro si sta riprendendo, ma nei dati di ieri ci sono almeno due aspetti che rendono il report una reale buona notizia per il presidente. Primo: le revisioni dei posti di lavoro creati a luglio e agosto. Entrambi i mesi sono stati rivisti al rialzo, con agosto che è risalito dalla pessima quota di 96 mila posti a quella accettabile di 142 mila. Secondo: la diminuzione sotto la soglia psicologica dell’8 per cento non deriva dall’uscita degli americani dalla “forza lavoro”, cioè dal bacino di chi cerca attivamente un’occupazione e rientra sotto la categoria formale di “disoccupato”. Ci sono 2,5 milioni di americani che non hanno un lavoro ma nelle quattro settimane precedenti al censimento non lo hanno cercato, o perché sono scoraggiati dal mercato o per altri motivi. Gli scoraggiati, categoria fondamentale per capire da che parte tira il vento, sono diminuiti sensibilmente rispetto a un anno fa, cosa che Obama ha sottolineato, ma con un tocco di prudenza presidenziale: “Troppa gente è ancora disoccupata”Che il report di ieri abbia avuto un effetto politico dirompente lo si evince dalle reazioni nervose, e persino cospirazioniste, che sono circolate dalla prima mattina. Jack Welch, ex ceo di General Electric, su Twitter ha scritto: “Numeri incredibili. Questa gente di Chicago farebbe di tutto. Non sono capaci di fare un dibattito, e allora truccano i numeri”. Accusa pesantissima che ha immediatamente rinfocolato i critici di Obama, mentre Mitt Romney diceva che “questa non è una vera ripresa economica”. La domanda, in termini strettamente elettorali, è: la rimonta di Romney iniziata con il dibattito di Denver sarà più efficace e rapida dei benefici che la disoccupazione in calo porta a Obama? Gli strateghi repubblicani stanno lavorando in queste ore forsennatamente per capitalizzare il “momentum” del candidato, e sanno che molto della partita si gioca in questi giorni, fondamentali per dimostrare che il candidato ha messo a sistema l’ottima prestazione di mercoledì sera. Il grande restauratore di Romney è Ed Gillespie, lobbista in affari con Al Gore, fondatore del gruppo di pressione Crossroards Gps ed ex consigliere di George W. Bush che da settembre ha preso a plasmare a tempo pieno il nuovo corso di Romney e ora fa leva sul dibattito di mercoledì per lanciare “un grande cambiamento nella dinamica elettorale”. Lunedì il candidato farà in Virginia un discorso di politica estera sul quale Gillespie e i suoi puntano molto e alle spalle dello stratega c’è il suo complementare, quel Karl Rove che dalla zona d’ombra dei Super Pac procura alla campagna di Romney i finanziamenti necessari per dare sostanza alla rimonta.
Per inviare al Foglio la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante