Sul CORRIERE della SERA di oggi, 04/10/2012, a pag.38, con il titolo " Il denaro del Qatar nelle banlieue è un bluff di un Paese oppressivo " Bernard-Henri Lévy giudica con opportuna severità il comportamento del Qatar nei confronti della Francia, esprimendo valutazioni senza dubbia condivisibile, e che raramente compaiono sui nostri giornaloni.
Ecco l'articolo:
Bernard-Henry Lévy
Perché la questione degli investimenti del Qatar destinati alle periferie francesi è, nella situazione attuale, così problematica? Non certo perché è il Qatar. E nemmeno perché è un Paese arabo i cui fondi sarebbero, per natura, meno ben accetti di altri. Del resto, che il Qatar decida oggi di investire nei quartieri in difficoltà e non acquisti più soltanto alberghi di lusso, palazzi, calciatori o cavalli da corsa è, in sé, piuttosto una buona notizia.
Ma quello che è sconcertante, innanzitutto, è la somma. Infatti, se le cifre annunciate sono esatte, l'Emirato destina all'insieme delle periferie francesi una dotazione (cento milioni di euro) che approssimativamente deve corrispondere al costo di uno o due dei palazzi che acquistò dieci anni fa, o al costo di mezzo edificio Virgin sugli Champs-Elisées o a una percentuale della sua partecipazione al capitale della sola industria petrolifera Total. È un'elemosina per gli interessati. È un'umiliazione per il Paese che la riceve, che appare al verde, ridotto a tendere la mano. Soprattutto, è una goccia d'acqua nell'oceano delle necessità di quei «territori perduti» il cui recupero presuppone non cento, né duecento, né mille, ma migliaia di milioni di euro, una manna, un piano Marshall, l'equivalente di quello che consentì all'America di Truman, nel dopoguerra, di aiutare la Francia nella ricostruzione. In altre parole, i cento milioni annunciati non sono un investimento. Sono un bluff. O un colpo pubblicitario. Sono l'acquisto in contanti, e a basso prezzo, di un brevetto di moralità da parte di un Paese, certo alleato, ma il cui attaccamento ai valori della democrazia è ancora da dimostrare.
Sconcertante è anche la connotazione politica di questo denaro. Si dice sempre che il denaro «non ha odore». È falso. Poiché i soldi del Qatar hanno l'odore, lo si voglia o meno, di uno Stato che priva i propri cittadini di libertà pubbliche. Hanno l'odore di un Paese dove gli immigrati (indiani, pachistani, filippini) sono trattati come cittadini inferiori, se non come sottospecie d'uomini, o come schiavi. Non si tratta, come dicono alcuni, di denaro «sporco». Ma di denaro (ed è quasi peggio) guadagnato da autocrati in un Paese non democratico, le cui periferie equivalgono ai comuni francesi di Villiers-le-Bel o di Trappes, ma alla decima potenza.
Sarebbe sfrontato, allora, porre alcune condizioni politiche alla convalida di tale investimento? Naturalmente, non la trasformazione miracolosa del Paese in una democrazia, che come tutti sanno non si costruisce mai in un giorno. Ma almeno l'invio di segnali che indichino come a tanta sollecitudine nei confronti dei territori trascurati della nostra Repubblica si accompagni la chiara coscienza della qualità, della rarità e anche dell'eminente desiderabilità del modello cui la suddetta Repubblica si ispira. E, per dimostrare questa coscienza, la proposta di una prova politica semplice che farebbe da test di buona fede e di sana reciprocità: la Francia accetta il denaro del Qatar; il Qatar accetta, in cambio, l'avvio da parte della Francia di un programma di cooperazione culturale e politica su valori di civismo e di cittadinanza. Tu finanzi i miei quartieri. Io istituisco, nelle tue università, cattedre per l'insegnamento di quella storia e pratica della democrazia che sono la mia ricchezza. Il patto, se ciascuno è concorde, sarà senza dubbio vincente per tutti, in primo luogo per un vero dialogo fra civiltà e culture.
Poi c'è, evidentemente, il problema che nasce dal sospetto di proselitismo politico-religioso, che è impossibile non nutrire dal momento che concerne un regime che non fa mistero, del resto, del suo appoggio alle correnti più rigoriste dell'Islam. Anche qui, c'è una soluzione. Probabilmente non quella, purtroppo, di veder sperimentare a Doha i principi di laicità che ci si impegna a rispettare nella banlieue di Saint-Denis. Né quella — per quanto... — di suggerire ai nostri amici di cominciare a far pulizia davanti alla loro porta e di praticare a casa loro il principio di non-discriminazione riguardo alle origini religiose, etniche, geografiche, che pretendono di difendere in Francia. Ma quella di inserire almeno la loro iniziativa in un duplice quadro che dovrà essere vincolante. Il quadro giuridico, prima di tutto, di un organismo di Stato, o misto, o parastatale, che sarà l'unico giudice delle opportunità di investimento. E poi il quadro morale di una Carta democratica che codificherà lo spirito con cui saranno fatti gli arbitraggi. Che si sostenga una piccola e media impresa la cui attività potrebbe, in un modo o nell'altro, contribuire un giorno all'espansione del salafismo in Francia: ecco, questo deve essere reso impossibile. Che i fondi del Qatar siano impegnati massicciamente nella costruzione di scuole democratiche, o piscine miste, o mass media di quartiere che predichino i valori di uguaglianza, libertà e fratellanza: ecco, questo invece non ha ragione di suscitare diffidenza.
So che l'attuazione di una simile Carta sarà derogatoria rispetto ai principi del libero commercio. Ma una situazione nuova richiede regole nuove. Oggi, il Qatar. Ieri, l'Azerbaijan petro-dittatoriale che finanziava, più o meno discretamente, una parte del nuovo padiglione delle arti islamiche al Louvre. Domani, la Cina imperialista, la Russia di Putin e i suoi oligarchi, che verranno in aiuto di un settore sensibile delle economie in crisi della vecchia Europa e otterranno, in cambio, di non essere infastiditi con la vecchia storia dei diritti dell'uomo. Siamo a questo punto. E se non stiamo attenti, c'è un vero rischio di corruzione e di prostituzione dello spirito pubblico.
(traduzione di Daniela Maggioni)
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