La fine di Oslo e un barlume di speranza
Commento di Mordechai Kedar
(Traduzione di Sally Zahav, versione italiana di Yehudit Weisz)
Oslo, al tempo dell'illusione Mordechai Kedar
A qualcuno era parso che la “primavera araba” avrebbe attecchito in Giudea e Samaria, durante le manifestazioni di protesta contro il rialzo dei prezzi di gas e cibo. I funzionari dell’Autorità Palestinese attribuirono la colpa di tutti i problemi - poteva essere altrimenti? -a Israele, indicandone anche la fonte nel “ Protocollo di Parigi “, che lega l’economia della Anp a quella israeliana, compreso il valore della moneta e il regime fiscale legato ai prezzi che circolano in Israele.
Ne risultava che l’Autorità Palestinese doveva staccarsi dall’economia israeliana per rendersi indipendente. Questa richiesta è stata sostenuta da diversi organismi internazionali, che hanno stabilito quasi all’unanimità che l’occupazione israeliana stava strangolando l’economia palestinese.
La situazione è invece molto più problematica, perché l’economia è solo il sintomo della malattia. Il vero problema è il fallimento del progetto palestinese di voler creare un unico “popolo palestinese”, con un’identità nazionale condivisa, sulla cui base poter istituire un sistema civile, con un’economia e un’auto-amministrazione legittime.
Gli Accordi di Oslo hanno spinto molti palestinesi a trasferirsi in Giudea e Samaria, anche se la maggior parte di loro non sono nativi della zona (Abu Mazen,per esempio, è nato a Safed), con il risultato che non sono mai stati accettati dagli arabi locali. Gli “architetti di Oslo”, soprattutto Shimon Peres, hanno facilitato il loro trasferimento, ponendoli sotto il controllo della popolazione locale, anche se mancavano di qualsiasi legittimazione a governare. Forse Yasser Arafat - che era nato in Egitto - rappresentava un simbolo nazionale, ma di sicuro non i suoi successori. Lui era un leader, gli altri sono solo dei politici.
L’intenzione di Oslo, dal punto di vista di Israele, era - come Yitzhak Rabin aveva ammesso – far sì che Fatah trattasse con Hamas, “senza i vincoli della Corte Suprema o delle organizzazioni dei diritti umani”, il che avrebbe posto Fatah quale garante della sicurezza israeliana, diventandone anche collaboratore.
Ma Arafat e i suoi successori non hanno mai svolto questo compito, Hamas ha un seguito soprattutto nella Striscia di Gaza, e l’OLP, se avesse ingaggiato una vera e propria guerra contro Hamas, avrebbe provocato una specie di guerra civile. Quindi l’OLP ha compiuto la scelta della “porta girevole”, arrestando alcuni attivisti per salvare le apparenze in modo da soddisfare Israele, ma liberandoli nei giorni successivi all’arresto.
L’Anp e i suoi apparati di sicurezza non hanno mai combattuto seriamente contro il terrorismo, anzi, l’hanno sempre praticato . Per cui Hamas è cresciuto e si è sviluppato, fino ad impadronirsi di Gaza.
Problemi irrisolti
Un’altra caratteristica fondamentale e negativa degli Accordi di Oslo è che questa intesa ha rinviato la soluzione dei problemi fondamentali alla fase degli accordi sullo status definitivo: nulla è stato concordato per quanto riguarda i confini, gli insediamenti ebraici di Giudea e Samaria, Gerusalemme, i profughi, l’acqua, le disposizioni di sicurezza e altri problemi, rinviandone la soluzione a negoziati che avrebbero avuto luogo entro cinque anni (“periodo di transizione”). Gli artefici di Oslo avevano ingenuamente pensato che entro cinque anni le due parti sarebbero state in grado di giungere a un accordo sullo status definitivo.
Il grande fallimento degli architetti di Oslo è che non avevano previsto negli accordi che cosa sarebbe successo se le due parti non avessero raggiunto un’intesa sullo status definitivo. Nel caso di scadenza degli accordi, tutto ciò che era stato sottoscritto sarebbe stato cancellato? Ciascuna delle parti sarebbe stata libera di fare ciò che voleva? Il fatto che gli accordi non abbiano previsto queste ipotesi è un segno di grave negligenza: se una persona affitta un appartamento, e l’inquilino non paga l’affitto, il contratto deve stabilire che cosa accadrà fra le parti, e quale sarà la soluzione. Senza una descrizione dettagliata di un procedimento di uscita, nessun accordo ha più valore.
Questo è quanto è avvenuto con gli accordi di Oslo.
Nel luglio 1999 il “periodo transitorio” di cinque anni è finito senza il raggiungimento dello status definitivo, per cui gli accordi di Oslo sono ora sospesi, soggetti all’interpretazione di ognuna delle parti: i palestinesi sostengono che è loro diritto dichiarare unilateralmente uno stato, nonostante l’opposizione di Israele. I palestinesi perseguono il riconoscimento a livello internazionale, Israele si oppone ma non fa nulla per impedirlo. L’Autorità Palestinese getta discredito su Israele in ogni organismo internazionale, e Israele pensa che quando arriva una tempesta stia solo piovendo.
Così l’Autorità Palestinese continua la sua battaglia contro Israele, minandone la legittimità di Stato del popolo ebraico.
Uno stato palestinese in Giudea e Samaria continuerà a essere ostile a Israele, dato che Israele non permetterà ai profughi del '48 di tornare a Jaffa e Netanya. Un tale stato potrebbe poi finire sotto Hamas poco dopo la sua nascita mediante elezioni, come è già avvenuto nel gennaio del 2006, o per mezzo di un violento colpo di stato, come è successo a Gaza nel giugno del 2007. Chi può garantire che questa ipotesi non si verificherà ? Chi può impedire che non nasca un patto di alleanza con l’Iran? I politici che controllano l’Autorità Palestinese non sono veri leader, quindi è possibile che un movimento come quello di Hamas possa conquistare e rovesciare la Palestina poco dopo che essa si sia resa Stato indipendente; la domanda che sta di fronte a Israele e al mondo è: dovremmo essere complici di tale scenario?
Può Israele sopravvivere con i Qassam, i Grad e i Katyusha di Hamas che seminano vittime e distruzione a Tel Aviv, Ramat Gan, Petach Tikva, Ra’anana, Kfar Saba, Netanya, Hadera, Afula e Haifa, per non parlare dell’Aeroporto Ben Gurion, tenendo conto dei missili che sono già stati lanciati per anni su Sderot, Ashkelon e sulla zona di confine con Gaza?
E se mettessimo in atto un’azione difensiva contro tali attacchi, non ci sarà un altro Goldstone in agguato dietro l’angolo?
Chiaramente, l’Anp esiste solo grazie a tre fattori: l’IDF (esercito di difesa d’Israele), che la protegge e controlla l' opposizione, i sussidi che riceve a livello internazionale, preziosi come il sangue per le vene, e il trattato economico con Israele. Senza queste tre componenti l’Anp collasserebbe in un solo giorno, come un palloncino punto da uno spillo. Il popolo arabo s’identifica con l’Anp solo fino a quando dimostrerà di essere politicamente ed economicamente utile, e se ne sbarazzerà non appena finirà di essere un’agenzia di collocamento, il più grande fornitore di monodopera .
La soluzione realistica
Il popolo arabo in Giudea e Samaria resta sostanzialmente fedele alla tribù, non all’etnia nazionale araba o alla propaganda palestinese. In questo non è diverso dagli altri paesi arabi che circondano Israele, le “Terre del Mashreq (Oriente)”: Giordania, Siria, Iraq e Libano.
Ogni volta che la polizia palestinese è coinvolta in liti famigliari, viene buttata fuori perché “non fa parte di quella tribù”. I clan di grandi dimensioni controllano molto meglio le città rispetto alle organizzazioni di sicurezza dell’Anp, quindi è importante che qualsiasi futuro accordo venga fatto con le tribù.
Contrariamente ai politici corrotti dell’Anp, i capi clan sono leader legittimi, accettati e rispettati, quindi in grado di riuscire proprio là dove fallisce l’Anp, ottenere legittimazione e riconoscimento a livello popolare, e accettati come leader naturali.
Per questo motivo Israele deve incoraggiare gli autentici leader locali delle città per favorire la creazione di quadri politici, definiti in base alle riconosciute divisioni sociali: le famiglie Jabbari, Qasmi, Natasha, abu Snein e Tamimi a Hebron, hanno saputo per centinaia d’anni come rapportarsi gli uni con gli altri, e quelli del clan Jabbari sono stati accettati come i dirigenti locali legittimi.
A Nablus la famiglia al-Masri può capeggiare una coalizione locale con le famiglie Tuqan e Shakah, e questo può avvenire in tutte le altre città arabe della Giudea e della Samaria: Jericho, Ramallah, Tul Karem, Qalqiliyya e Jenin. Israele deve continuare a mantenere il controllo sulla zona rurale tra le città al fine di garantire che le montagne non diventino le stazioni di lancio di missili scavate nella roccia da parte di Hamas, come sta succedendo nel Libano del Sud con Hezbollah.
Il fatto che i governi delle città si appoggino sulle leadership locali, e non sul governo illegittimo che Israele avrebbe contribuito a creare, porterebbe stabilità sociale, quindi anche politica ed economica. Queste città vivranno in pace l’una con le altre perché saranno di fatto autonome, ciascuna si occuperà dei propri problemi senza intervenire in quelli degli altri.
Questo è l’unico modello che può esistere in Medio Oriente. I disordini negli altri paesi della regione derivano principalmente dal fatto che gruppi e tribù sono stati costretti a vivere insieme, diversi gli uni dagli altri e quindi ostili tra loro.
Anche il fatto che i regimi del Medio Oriente sono per lo più dittature, deriva dal fatto che la maggior parte della popolazione vede il proprio sovrano o presidente come illegittimo. È giunto il momento in cui Israele deve smantellare il quadro artificiale e illegittimo chiamato “Autorità Palestinese” e sulle sue rovine istituire otto entità, una a Gaza, che è già in essere da cinque anni, e altre sette nelle città della Giudea e Samaria. Israele dovrebbe annettere il territorio rurale e offrire la cittadinanza agli abitanti dei villaggi. Dal punto di vista demografico questa soluzione non rappresenta un problema, e dal punto di vista della sicurezza è una condizione necessaria perchè Israele possa essere in grado di esistere in un Medio Oriente così turbolento e instabile, dove non vengono rispettati i trattati, dove la Giordania potrebbe andare in pezzi con la formazione di uno Stato palestinese e uno beduino,dove l’Egitto sta diventando sempre più islamizzato, dove la Siria si sta disintegrando per diventare uno stato di terroristi e dove il Libano potrebbe cadere totalmente sotto il controllo di Hezbollah.
Un ritorno alle linee dell’armistizio del ‘49, che significherebbe abbandonare la valle del Giordano e ritirarsi dal crinale della montagna, sarebbe un suicidio per Israele. C’è da sperare che i nostri leader scelgano di tutelare l’interesse di Israele a lungo termine piuttosto che preferire quella calma artificiale, superficiale che Israele acquista da “contraente”dell’Anp a costo di centinaia di milioni di shekel e dollari.
Il riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese potrebbe perpetuare il disastro di Oslo, e sarebbe molto difficile aver a che fare con un tale stato dopo che sia stato dichiarato e riconosciuto. Non è ancora troppo tardi per impedire la creazione di un secondo stato di Hamas, questa volta in Giudea e Samaria, e ogni giorno che passa senza che venga smantellata l’Anp, avvicina Israele ad una situazione più difficile, una vera minaccia esistenziale, che uno stato di Hamas può far nascere in Giudea e Samaria.
Un buon anno a tutti e l’augurio di essere iscritti nel Libro della Vita.
Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
Link: http://eightstatesolution.com/
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