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La Stampa Rassegna Stampa
30.09.2012 E' mai possibile che i 'cattivi' siano soltanti i salafiti ?
Reportage dalla Libia di Giovanni Cerruti

Testata: La Stampa
Data: 30 settembre 2012
Pagina: 11
Autore: Giovanni Cerruti
Titolo: «La Tripoli senza governo assediata dai fanatici salafiti»

Sulla STAMPA di oggi, 30/09/2012, a pag.11, il reportage dalla Libia di Giovanni Cerruti, dal titolo "La Tripoli senza governo assediata dai fanatici salafiti". I quali stanno ormai monopolizzando l'etichetta di 'cattivi' dell'islam, un modo troppo facile per evitare i problemi veri del fondamentalismo islamico.
Ecco l'articolo:

All’ora del tramonto, tra le sei palme che lasciano cadere datteri maturi, anche la troupe della televisione egiziana «Nile Tv» sceglie questa fontana in mezzo alla rotonda: è ancora il simbolo della città, ricordo dell’Italia del Fascio e della Colonizzazione. La gazzella di bronzo luccica sotto gli spruzzi e dà nome a piazza e fontana. Però non è sola, è appoggiata alla «donzella». E la donzella è nuda, sui peccaminosi capezzoli saltellano le gocce d’acqua. Il reporter adesso le indica, e al segnale del cameraman dirà quel che a Tripoli cominciano a temere: «Oggi la Gazzella e la Donzella ci sono, ma domani saranno ancora qui?».

Accanto c’è l’ambasciata algerina, in fondo il Palazzo delle Poste Italiane ora sede del Municipio. Al caffè all’aperto i vecchi tripolini fumano il miglior tabacco alla mela della città e si raccontano che gruppetti di salafiti hanno già tentato di abbatterla, la gazzella con la peccaminosa donzella. Ci riproveranno, aggiungono. Come alla moschea dei Sufi, davanti al Radisson hotel. Un anno di tentativi: la colpa è custodire le tombe dei «Marabutti», i loro santi. E ci sono riusciti al fine agosto, in tre giorni e due notti, con i picconi, con le ruspe. Tutta Tripoli li ha visti, chi passa dal Radisson vede macerie.

Nell’ultimo venerdì della preghiera a proteggere Piazza della Gazzella c’erano le Toyota della polizia militare. Perché il simbolo di Tripoli può diventare il nudo da abbattere, lo scandaloso obiettivo. Nella piazza del vecchio Mercato del Martedì, i furgoncini in arrivo dal confine con la Tunisia scaricano le barbe lunghe e nere dei salafiti dall’inizio dell’estate. Minoranza, qui come in tutta la Libia. Ma è la minoranza che ha bisogno di visibilità, che si materializza nelle moschee il venerdì, che riaccende i timori della Tripoli moderata. Che può destabilizzare, allearsi con i reduci di Gheddafi.

A Ovest della città, nel quartiere di Ghergash, la palazzina a quattro piani che dà sul mare è la sede dell’«Alleanza Nazionale per la Libia», il partito dell’ex presidente del Governo di transizione Mahmud Jibril. Qui, nel suo ufficio al secondo piano, il professor Faisel Krekshi, 55 anni, segretario del partito, ammette che anche questo è uno dei problemi della nuova Libia. «E’ un calcolo semplice: il 90% dei libici sono islamici moderati, il 5% laici, il 5% islamici radicali. Ecco, se quest’ultima percentuale aumenta, allora sì che diventa il nostro problema».

Posti di blocco solo nella notte, il porto che è un entra ed esci di navi, i palazzi di Piazza dei Martiri ripuliti dalle devastazioni e dagli sfregi di mortai e raffiche di kalashnikov, Tripoli si mostra città sicura. Il giorno dopo l’assalto al consolato Usa di Bengasi e la morte dell’ambasciatore Chris Stevens, il nuovo Parlamento ha eletto il capo del governo. Jibril, che aveva vinto le elezioni con il 65% dei voti, è stato battuto dall’abbraccio tra il «Fronte Nazionale di Libia» e i Fratelli Musulmani. Per due voti, 96 a 94, premier è Mustafa Abu Shagur, leader del Fn, 61 anni, ingegnere rientrato dagli Usa.

«Il mio sarà un governo di unità nazionale», si legge nell’ultimo dei 19 punti del suo programma. Quattro settimane di tempo, entro il 12 ottobre dovrà presentarsi al Congresso Nazionale con una maggioranza che ancora non ha. Il professor Krekshi si fa cauto, le trattative saranno lunghe, la sconfitta di Jibril fa ancora male. «Abu Shagur, brava persona, ha vinto anche grazie alle intimidazioni, alle offerte di soldi, alla corruzione e al condizionamento di gruppi religiosi e di alcuni Imam radicali». Deputati «indipendenti», che pur di impedire la nomina del liberale Jibril hanno rimesso in corsa i Fratelli Musumani.

E rieccolo un altro dei problemi che potrebbe diventare il problema. Ancora il professor Krekshi: «Sono settimane decisive per il futuro della Libia. Noi siamo disponibili al governo di unità nazionale, però in questo momento sarebbe come salire su una corriera: conosciamo l’autista, ma chi sono i compagni di viaggio e la direzione?». Metafora che fa capire come il partito di Jibril abbia ben poca voglia di avventurarsi in un governo con i Fratelli Musulmani. Insomma, fino al 12 ottobre, e ancora una volta, la Libia deve aspettare. Ha un premier, ma non ha ancora un governo, i ministri, né un programma. E la transizione continua.

Così comanda chi si è conquistato il potere locale, nelle città come nei quartieri, a Bengasi come a Tripoli. Brigate che non rispondono a nessuno, magari in guerra tra loro, rifugio per malavitosi o inquinate dai salafiti. E poi le città che non sono mai state liberate dai «gheddafiani», come Sirte e Bani Walid. Dove hanno appena festeggiato la morte di Omran Shaban, uno dei capi della Brigata Al Rihran di Misurata, che il 20 ottobre scorso aveva catturato il raìss. L’avevano preso quelli di Bani Walid. Torturato, sequestrato per un mese, rilasciato moribondo. E’ morto a Parigi il 23 settembre. «Il nostro ultimo martire».

Quando offre un caffè con acqua ghiacciata nel bar dell’albergo, Ahmed El Gehaivi, 61 anni, professore di diritto penale a Bengasi, sa bene che l’instabilità e i tempi lenti della Libia non sono un buon biglietto da visita: «Aspettiamo un governo che possa decidere, a partire da economia e sicurezza. L’emergenza finirà quando avremo un esercito, non le milizie e le Brigate che possono anche diventare rifugio di criminali o fanatici. Se devi arrestare uno delle Brigate, chi ci va? E ci vuole un ministro della Giustizia che stabilisca come processare la nostra storia: i libici vogliono sapere, ancora non conoscono tutta la verità».

Sta per partire per L’Aja, El Gehaivi: alla Corte Internazionale rappresenta la Libia che non intende consegnare Saif Gheddafi, il figlio del raìss. Lo vorrebbero processare a Tripoli, «ma quelli di Zintan che l’hanno catturato non lo mollano». Dalla Mauritania è appena stato estradato Abdallah Al Senussi, capo dei servizi segreti di Gheddafi. «E’ lui la scatola nera dei misteri», dice il professore. «Bisognerebbe processarli tutti assieme: Saif, Al Senussi, tutti gli altri gerarchi. Il nostro processo di Norimberga. Ma per decidere ci vuole quel governo che ancora non c’è...». Come la Nuova Libia, un anno dopo.

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