Il FOGLIO prevede la sconfitta di Mitt Romney, nella analisi di Mattia Ferraresi, uscita oggi, 29/09/2012/ a pag. 1, con il titolo "Che ne è della Right Nation ?"
Può darsi che andrà così, ma perchè Ferraresi chiama 'scudiero' Paul Ryan ?
A quanto ne sappiamo è un economista di valore, al di là del fatto che se ne possano o no condividere le opinioni. Non ci pare per nulla uno scudiero, perchè definirlo così ? E' antipatico a Ferraresi perchè 'va in palestra' , come lo prese in giro Annalena qualche tempo fa in una colonna in prima pagina ?
Ferraresi è uno dei più bravi corrispondenti dagli Usa, ci auguriamo mantenga lo stile abituale, senza l'uso di un linguaggio che è meglio lasciare a chi si picca di descrivere la società con parole superficiali. Alludiamo ad Annalena ?
Ecco l'articolo
Mitt Romney, Paul Ryan, Mattia Ferraresi
New York. Se a quaranta giorni dalle elezioni i pretoriani del candidato alla Casa Bianca, protetti dall’anonimato, dicono ai giornalisti più smagati di Washington che Mitt Romney “ha le qualifiche per fare il presidente, ma è un pessimo candidato” oppure che è “un grande manager, ma non un grande politico”, “non è né acuto né alla mano, è un uomo d’affari analitico”, significa che le cose non stanno andando come previsto. I sondaggi nei battleground, gli stati incerti dove si vincono le elezioni (soprattutto Florida e Ohio), confermano con una certa uniformità la percezione dello svantaggio di Romney sul presidente Obama, anche se quella dei poll è la più inesatta delle scienze e il laboratorio delle profezie che si autoavverano, come dimostrano le analisi di Nate Silver, grande elaboratore di numeri del New York Times che durante le primarie repubblicane ha firmato un’elaborata teoria per dimostrare che se il Gop avesse scelto Romney e l’economia non si fosse ripresa i repubblicani avrebbero conquistato la Casa Bianca.
Ora che Romney è il candidato e l’economia non si è ripresa (giovedì la crescita dell’ultimo trimestre è stata rivista al ribasso e la disoccupazione è stabilmente sopra l’8 per cento), Silver è certo che vincerà Obama.
Allo stesso modo i repubblicani si rivolgono ad UnSkewedPolls, un sito che elabora i sondaggi che danno i repubblicani indietro secondo una metodologia non viziata da pregiudizi liberal, che dunque dà Romney in vantaggio.
Il finale rimane aperto, ma le difficoltà romneyane nel veicolare un messaggio convincente e mobilitare gli americani sono uno spettacolo quotidiano e l’origine della debolezza percepita è l’oggetto della discussione. Il giornale Politico, che ha interrogato i consiglieri riottosi di Romney, taglia corto: it’s Mitt. E’ lui il problema, sono i suoi tratti personali, la sua incapacità di parlare di football con lo stesso linguaggio usato dagli operai di Toledo, Ohio, il suo algido distacco dalla sensibilità del paese, il suo snobismo da 1 per cento, il ciuffo monoscocca e la sua incapacità di sembrare credibile quando si presenta ai comizi senza cravatta e parla come l’uomo della strada che non è. Poi c’è il Romney mormone, aspetto valorizzato soltanto per la sensazione di strano-ma-vero che certi precetti suscitano, ma che ha riflessi enormi sull’antropologia se si pensa che il dio dei mormoni non è creatore né causa incausata ma soltanto demiurgo, intelligenza analitica che mette ordine nel caos.
Cos’è Romney se non un demiurgo del business prestato alla politica? Sullo sfondo delle fattezze personali c’è però anche il paradigma della Right Nation, quell’America che aveva confermato George W. Bush quando tutto il vento sembrava a favore delle forze democratiche, tanto che un John Kerry qualunque sarebbe stato sufficiente per vincere. Ecco, forse nelle paludi che Romney e il suo scudiero Paul Ryan stanno attraversando c’è anche la riluttanza del fondo conservatore dell’America a ributtarsi in un modello sociale incarnato da Romney: di questa riluttanza scrive Richard McGregor sul Financial Times, e citando Ron Brownstein spiega che “si è adagiato sulle richieste più estreme che sono emerse dalla base dopo le elezioni di midterm, confidando eccessivamente sul fatto che il paese fosse pronto per l’agenda più conservatrice dopo quella di Reagan nel 1980”.
Il paradosso è che Romney alle primarie era quello moderato, il governatore centrista del Massachusetts tacciato di eterodossia tanto dai simpatizzanti del Tea Party quanto dai conservatori sociali, e invece di spostarsi al centro una volta conquistata la nomination, ha proposto una piattaforma dall’inappuntabile pedigree repubblicano: tagli fiscali profondi, contenimento della spesa pubblica, politica estera idealista, pochi margini per il compromesso.
Geoffrey Kabaservice, autore del compendio sulla traiettoria repubblicana “Rule and Ruin”, spiega al Foglio che “si tratta di un’accelerazione del processo di marginalizzazione dei moderati nel movimento conservatore” e allo stesso tempo è “un errore di calcolo: per non perdere l’appoggio dell’establishment Romney si è buttato a destra, ma così ha perso l’appoggio di una maggioranza silenziosa che in questo momento storico è moderata. Se le elezioni si vincessero in base a quanto i partiti sono in grado di mobilitare gli estremi, i repubblicani vincerebbero a valanga”.
Mark Lilla, storico della Columbia e osservatore delle cose politiche, sul New York Times usa il suo punto di vista di democratico moderato soddisfatto del lavoro pragmatico di Obama per spiegare un concetto limitrofo: i conservatori oggi riescono a generare passioni travolgenti in una minoranza rumorosa, ma il vasto terreno della Right Nation è un acquitrino in cui si rischia di affondare. Più che di innalzarsi, forse il destino di questa generazione repubblicana è quello di bonificare, come fece Barry Goldwater quando fu travolto alle elezioni del 1964. La sua impollinazione di idee conservatrici fu vendemmiata sedici anni più tardi da Ronald Reagan, quando George Will scrisse: “Ci sono voluti sedici anni per ricontare i voti, e alla fine ha vinto Goldwater”.
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