Afghanistan: ragazzino fugge dai talebani che volevano farne un terrorista suicida quanti non ci riescono ?
Testata: La Repubblica Data: 27 settembre 2012 Pagina: 1 Autore: Giampaolo Cadalanu Titolo: «Il ragazzino che non volle diventare un kamikaze»
Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 27/09/2012, a pag. 1-36, l'articolo di Giampaolo Cadalanu dal titolo "Il ragazzino che non volle diventare un kamikaze".
Talebani, terrorista suicida bambino
A dodici anni si crede ancora agli adulti, anche quando raccontano fiabe truculente sul mondo e soprattutto quando presentano la realtà in un quadro semplice, senza dubbi né sfumature. Un ragazzo afgano che nasce nelle alture desertiche dell’Helmand, in un villaggio del distretto di Kajaki, a sei ore d’auto dal capoluogo Lashkar Gah, strumenti ne ha pochi.
Ma se gli danno dei soldi per indossare un gilet carico di esplosivo, e gli spiegano che dovrà farsi saltare in aria davanti agli invasori occidentali miscredenti o davanti ai soldati afgani complici degli stranieri, e gli dicono che in quel modo vendicherà la famiglia sterminata da un raid della Nato, la capacità di dubitare salta fuori. E così, se è vera la storia raccontata dal giornale online Khaama Press, può succedere che un ragazzino di nome Niyaz Mohammad decida di scegliere per conto suo, di lasciar perdere gli incitamenti dell’imam più accanito, di trascurare persino le certezze di beatitudine celeste ribadite dai compagni più grandi, quelli che hanno studiato nelle madrasse pachistane. Il ragazzo, racconta Khaama Press, si è consegnato alla polizia del distretto di Nawa-i-Barakzayi, dove era stato mandato — secondo la sua versione — per compiere l’attentato. «Non ho seguito le istruzioni che dicevano di indossare il gilet-bomba, e sono venuto qui al comando della polizia», ha raccontato. A “reclutare” l’adolescente e addestrarlo all’uso dell’esplosivo era stato un comandante Taliban che l’aveva preso in casa dopo l’uccisione dei genitori. Questo stesso interessato “tutore” avrebbe tentato di ucciderlo dopo il “no” del ragazzo. La fuga e l’arrivo al posto di polizia sarebbero una specie di lieto fine, a cui per ora non si possono aggiungere altre notizie sulla sorte del maestro di suicidio. La storia è raccontata pari pari da un comunicato dell’Isaf: non è ben chiaro se sia il giornale online che l’ha ripresa, o se invece siano stati i portavoce della forza internazionale a utilizzare la versione di Khaama Press. Qualche perplessità è indispensabile, legittimata dall’ultima bugia, appena venti giorni fa, quando i resti del cosiddetto baby-kamikaze, che si era fatto saltare nella Zona Verde di Kabul, si sono rivelati — a un esame diretto nell’obitorio di Emergency — essere quelli di un adulto. Ma al governo afgano sanno bene quanto può essere politicamente produttivo — in Occidente, soprattutto — l’orrore suscitato dall’idea di un bambino spinto al suicidio. Se il governo è mentitore, con tutta probabilità sono bugiardi anche i Taliban, quando gridano che loro mai e poi mai utilizzerebbero i ragazzi nella lotta contro Kabul e la Nato. Gli esempi portati dall’agenzia afgana Pajhwoksono numerosi: dal giovane Allah Muhammad, 11 anni, sfuggito alla prigionia degli integralisti nel villaggio di Chenar, nella provincia di Ghazni, nel 2008, ai ragazzini liberati in più occasioni da Hamid Karzai dopo essere stati arrestati mentre si addestravano ad attentati suicidi o, nel caso di Safir, un bambino pachistano, addirittura dopo aver fallito un attacco a una pattuglia delle forze afgane governative, due anni fa. Molto peggio è andata a un tredicenne ucciso dalla polizia nella provincia dell’Oruzgan mentre si lanciava contro il capo distretto con una cintura esplosiva indosso, nel 2010. Secondo la Pajhwok, uno dei serbatoi preferiti è la valle dello Swat, roccaforte dei Taliban pachistani, oltre confine. Molte famiglie della zona denunciano la scomparsa dei figli adolescenti, racconta l’agenzia. Altri ragazzi sono spariti dagli orfanotrofi della zona, senza mai tornare. L’anno scorso il governatore di Kandahar, Toryalai Wesa, ha chiesto alle famiglie di sorvegliare meglio i ragazzi, evitando di mandarli alle madrasse pachistane, dove corrono il rischio di essere trasformati in strumenti dei Taliban. Tutte bugie e disinformazione, come dicono i vari Qari Yousuf Ahmadi oppure Zabiullah Mujahid, portavoce degli “studenti coranici”? È improbabile. Ma è possibile che nella galassia dell’integralismo ci siano tendenze diverse. I Taliban tradizionali che seguono il mullah Omar e la shura di Quetta, per esempio, sono considerati molto più restii ad assalti indiscriminati e hanno l’ordine di non versare sangue musulmano. Molti meno scrupoli si fanno i radicali della rete Haqqani, vicini ad Al Qaeda e protagonisti degli agguati più feroci, compreso il massacro dei paracadutisti italiani a Kabul nel 2009 e la strage degli agenti Cia a Khost, nello stesso anno. Al di là delle manipolazioni e delle smentite, restano i bambini afgani, vulnerabili e stracciati, abbandonati in strada e pieni di sogni fragilissimi. Come quello di Muhammad Yaseen, scappato di casa dopo pochi giorni di lavoro a Kabul: «L’ho cercato a Logar, a Tagab, a Nijrab e a Sarobi », ha raccontato alla Pajhwok il padre Rahmat Gul. Il ragazzo era finito in mano a chi voleva mettergli una cintura esplosiva, ed era stato arrestato giusto in tempo, per poi essere liberato da Karzai. «Sognava di sposarsi, me l’aveva chiesto diverse volte. Prima doveva andare in giro con il carretto, a vendere la frutta, per mantenere la famiglia».
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