Il senso di Kippur per gli ebrei
Questa sera, poco prima delle sette, inizia Yom Kippur, la più importante ricorrenza ebraica dell'anno, il digiuno totale di venticinque ore che viene rispettato da tutti ebrei, non solo dai più religiosi, come accade per la maggior parte delle altre feste. E' una ricorrenza antichissima, già prescritta nella Torà difficile da capire bene per chi non appartenga all'ebraismo. Non ha contenuti storici o narrativi, non è stata cioè istituita per preservare la memoria collettiva di qualche momento della storia di Israele, come tante feste ebraiche, e non si riferisce neppure al ciclo agricolo che ne ispira diverse altre. E' una lunga giornata di esame di coscienza e di "ritorno" o pentimento, al cui centro sta la rievocazione del modo in cui essa era celebrata nel Tempio di Gerusalemme, con la sola pronuncia del nome divino, compiuta dal Grande Sacerdote nella solitudine dell'ambiente più interno e sacro del Tempio e l'enigmatico rito del capro espiatorio, in cui si sorteggiava fra due animali identici quale dovesse essere sacrificato sull'altare e quale simbolicamente caricato dei peccati di tutto il popolo e liberato nel deserto. Ripetutamente durante la giornata si legge un elenco di trasgressioni etiche e religiose e ci si incolpa per queste, anche se personalmente si fosse sicuri di non averle compiute: la responsabilità e l'esame di coscienza sono individuali, ma le colpe sono espresse da verbi alla prima persona plurale: "abbiamo" compiuto peccati ed errori e ne siamo collettivamente responsabili. Questa dialettica di esame di coscienza personale e di reciproca responsabilità è uno delle dimensioni fondamentali dell'identità ebraica. Nessuno può venir "assolto" da qualcun altro per le sue colpe: ciascuno deve chiedere scusa personalmente - prima a chi ha ferito e solo dopo aver ottenuto il perdono può farlo con Dio. Le colpe non sono cancellate, questo non è possibile, semmai è la loro conseguenza, la punizione che ne cosegue, che può essere attenuata o sospesa. Questa concezione religiosa si fonda sulla metafora dell'iscrizione: vi sono libri in cui sono segnate le azioni di ciascuno, soprattutto libri in cui si iscrive la vita e magari il benessere di chi lo merita. E vi sono porte - porte del pentimento o del ritorno, porte dell'accoglienza di questo pentimento. Vi sono voti e promesse impossibili che sono sciolte, con una solenne invocazione collettiva che si recita tre volte all'inizio della ricorrenza; vi è il suono dello Shofar, il corno di montone che dovrebbe risvegliare le coscienze all'ultimo momento utile; vi è una settuplice proclamazione dell'unità del Nome divino, nei suoi aspetti universalistici, cioè di giustizia e di rigore e particolaristici, cioè di indulgenza e di relazione con il popolo di Israele. Ci si veste di bianco, i più religiosi con il sudario che ci avvolgerà dopo la morte; non si mangia, non si beve, si evitano le cose piacevoli della vita, insomma ci si comporta come morti; ma ben consapevoli che si tratta di una finzione: un'antica itronica osservazione talmudica spesso ripetuta dai maestri dice che il giorno dei pentimenti (Iom kippurim) va capito anche come ke-Purim, come quell'altra festa ebraica primaverile che ricorda il fallimento di un tentato genocidio di ebrei in Persia, che si chiama Purim, in cui ci si mette in maschera, si mangia e si beve oltremisura.
E' difficile probabilmente per un europeo d'oggi, le cui feste principali sono Natale col suo cenone o le vacanze di Ferragosto, comprendere come da millenni la ricorrenza più sacra, ma anche più amata da un popolo possa essere un rito di espiazione; non è facile comprendere il fervore con cui vi partecipano anche persone molto laiche o lontane dall'esperienza religiosa. E però questa è l'anima vera di Israele, che si rinnova ogni anno attraverso un processo psicologicamente difficile di autoesame e di presa di coscienza della propria relazione con se stessi e con i propri fratelli: la parola che traduce pregare in ebraico ha a che fare etimologicamente con l'agire su se stessi e col giudicarsi; i peccati sono detti con una parola che significa innanzitutto errore, sbaglio di mira; il pentimento di questi errori che è al centro della giornata è linguisticamente un "ritorno" o una "risposta"; al nostro ritorno si spera vi sia una risposta divina, un "sigillo" nel "libro della vita". Un certo rigore ebraico, anche nel mondo laico, una certa ostinata indipendenza di pensiero che non esclude, ma anzi implica la responsabilità collettiva vengono di qui, dalla consapevolezza della condizione umana che questa ricorrenza esprime.
Mi sono permesso di raccontare queste cose, senza troppe pretese filologiche o teologiche, per permettere ai miei amici non ebrei di capirci meglio su questo piano molto intimo della spiritualità ebraica, e soprattutto per augurare agli amici ebrei e a tutto Israele gmar hatimà tovà, una felice conclusione del loro percorso di consapevolezza, una iscrizione positiva nel libro della vita, un "buon sigillo".
Ugo Volli