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Il Foglio Rassegna Stampa
22.09.2012 Tasse pagate: Romney mette a tacere i critici
Tassato al 20 per cento, come Obama.

Testata: Il Foglio
Data: 22 settembre 2012
Pagina: 1
Autore: La redazione
Titolo: «Ecco le tasse di Romney e il punto debole di Obama»

Sul FOGLIO di oggi, 22/09/2012, a pag.1, con il titolo " Ecco le tasse di Romney e il punto debole di Obama " una accurata corrispondenza da New York che mette fine a uno dei cavalli di battaglia dell'informazione internazionale schierata contro Mitt Romney. Non è vero che ha evaso le tasse, negli ultimi 20 anni ha pagato il 20% circa, la stessa percentuale di Barack Obama. L'accusa di evasione non teneva conto del sistema americano, che consente di defalcare dalla dichiarazione il denaro versato per scopi benefici o comunque detraibili. Ne prenderanno buona nota i nostri giornaloni/giornalini ? Ne dubitiamo.
Ecco l'articolo:

Mitt Romney

New York. Dopo mesi di richieste, sfottò, insinuazioni e reticenze giustificate dalla prassi elettorale, Mitt Romney ha pubblicato la sua dichiarazione dei redditi relativa al 2011 e una sintesi dell’aliquota media versata dal 1990 al 2009 (quella del 2010 era già stata resa pubblica): la famiglia Romney lo scorso anno ha versato quasi due milioni di dollari al fisco, contro un imponibile di 13,6 milioni, pari cioè al 14,1 per cento. Una percentuale in linea con i dati già noti. La campagna elettorale dello sfidante ha comunicato che nei vent’anni precedenti il candidato ha pagato in media il 20,20 per cento, con un minimo storico del 13,66 per cento: in complesso non molto dissimile dal 20,5 per cento versato da Obama nel 2011, anche se le cifre sono diverse, visto che l’inquilino della Casa Bianca dichiara 789.674 dollari lordi. Il compendio di Romney dovrebbe mettere a tacere i critici che hanno insistito senza posa sulla presunta colpa di essere un capitalista della specie più rapace, con tanto di conti svizzeri e fondi alle Cayman; ma quella delle tasse è soltanto una battaglia nella guerra di posizione fra i candidati, che in questi giorni si sono fronteggiati a distanza su una domanda: Washington si può cambiare dall’interno o la macchina del potere imbriglierebbe anche il più impavido portatore di “change”? Barack Obama ha detto di avere imparato una lezione: “Non si può cambiare Washington dall’interno. Si può cambiare soltanto da fuori”. E per questo il popolo americano quattro anni fa aveva eletto lui, sull’onda emotiva della promessa di correggere le disfunzionalità cronica di Washington e superare la partigianeria politica. La strategia elettorale del presidente prevede una parziale ammissione di responsabilità. Romney ha immediatamente sfruttato l’occasione per spiegare che presto Obama avrà modo di cambiare Washington dall’esterno: “Io posso cambiare Washington. Io cambierò Washington. E lo farò dall’interno”. Ma nel sottotesto tattico di Obama non c’è una resa senza condizioni, piuttosto s’intravede la volontà di mandare all’elettorato un messaggio dettato dalle leggi del realismo: “L’idea diffusa è che il presidente sia onnipotente e possa realizzare tutto. Non ho mai promesso che avrei fatto tutto al 100 per cento. Quello che ho promesso era che avrei lavorato ogni giorno per assicurare che chiunque nel paese avrebbe avuto la possibilità di accedere al sogno americano. Questa promessa l’ho mantenuta”. Non era Mitt quello ricco? All’Università di Miami il presidente parlava alla comunità ispanica, e ha chiesto scusa per non avere approvato la riforma dell’immigrazione, ma il ragionamento sui limiti del potere presidenziale toccano un punto che va al di là della issue di giornata. Spiegando che il presidente è il titolare del potere esecutivo, ma non di quello legislativo e giudiziario, che possono mettersi di traverso rispetto ai desiderata della Casa Bianca, Obama suggerisce che la colpa non è soltanto sua. Il ragionamento è: se il presidente fosse onnipotente, tutto ciò che non va potrebbe essere imputato giustamente a lui, soltanto che il presidente non è onnipotente. La debolezza di Obama in questo caso è la sua forza e “The Price of Politics”, il libro in cui Bob Woodward racconta dei ruvidissimi scontri fra il Congresso e la Casa Bianca sull’innalzamento del tetto del debito, torna utile in questo frangente di relativa ammissione di colpa. Nel libro non mancano le critiche a Obama, ma l’impressione che lascia è che nei meccanismi di Washington il Congresso abbia un potere enorme e sottostimato. Un Congresso per la metà in mano al Gop, accusato di fare ostruzionismo in modo sistematico. Certi nodi, insomma, nemmeno il presidente può scioglierli, e Obama abilmente cavalca questa versione dei fatti. Dopo che i media hanno sbandierato per mesi la supposta superiorità finanziaria di Romney – con implicito suggerimento che i suoi amici miliardari hanno commissariato la campagna – la commissione che controlla i finanziamenti elettorali ha comunicato che alla fine di agosto Obama aveva in tasca 88,8 milioni di dollari, contro i 35,4 dello sfidante. Ed è con un certo orgoglio che gli uomini del presidente hanno detto che il resoconto delle donazioni di agosto è lungo 170 mila pagine, contro le 90 mila di quello presentato a luglio. Segno che sono i piccoli donatori e non le grandi corporation a mettere benzina nella macchina.

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