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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Il Giornale Rassegna Stampa
21.09.2012 Siria, Aleppo sotto i bombardamenti di Assad
reportage di Gian Micalessin

Testata: Il Giornale
Data: 21 settembre 2012
Pagina: 15
Autore: Gian Micalessin
Titolo: «Vi racconto l’inferno di Aleppo»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 21/09/2012, a pag. 15, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo "Vi racconto l’inferno di Aleppo ".


Gian Micalessin               Aleppo

Vampate. Boati. Squarci di lu­ce e di morte nella trama oscura della notte. I soldati attendono silenziosi, addossati al muro, raccolti intorno al gracchia­re delle radio. Il colpo del tank è un boato ovattato seguito da nubi di fuoco, da un fragore di terremoto che scuote la terra, artiglia le visce­re. Poi il ringhio secco dei kalash­nikov, una grandine di traccianti nell’epicentro della esplosione. E poi gli altri. Quelli dei ribelli. Quelli che incrociandoli disegnano scie rossastre sulle nostre teste. Il capi­tano Hussein tasta il giubbotto anti­proiettile, cala l’elmetto sulla fron­te, gira nervoso la manopola della radio. Conta i minuti. Tra un po’ l’alba ricamerà il cielo,s’insinuerà traifalansteridiroccatidelquartie­re di Maisaloun, illuminerà giardi­ni d’una scuola diventata campo di battaglia. Fra poco toccherà a lui. E a noi. La radio sputa un graci­dio arabo. Hussein infila il colpo in canna, alza la mano- «Ialla, andia­mo ». Ombre in divisa, profili di el­metti e kalashnikov, cassoni di pi­ck up ricolmi d’armati. Capitan Hussein tiene il volante, sorride, ti bussa sull’elmetto. Indica schele­tri di cemento e macerie. «Sniper… testa giù». Ingrana la prima, la se­conda, la terza. Schizza come una biglia impazzita nella retta buia dell’asfalto. S’infila a testa bassa nel concerto d’esplosioni e proiet­tili tirandosi dietro un convoglio di auto e armati, divorando la strada e le sue voragini, zigzagando tra ca­vi penduli e piloni abbattuti. Un mi­nuto lungo un’eternità, ma più ra­pido dell’occhio dei cecchini.
Ora il convoglio è tra i piloni del cavalcavia,proprio di fronte all’isti­tuto tecnico informatico occupato dai ribelli e trasformato nel cuore della battaglia. Ora il quadrato di cemento situato nel centro di Mai­saloun­sembra una centrale elettri­ca impazzita.
Tra le mura rimbom­bano spari ed esplosioni, da fine­stre e balconi s’incrociano proietti­li e fiammate. Hussein schizza den­tro. Una trentina di soldati con i ka­lashnikov in pugno lo seguono.
So­no le sei del mattino e dentro infu­ria la battaglia. Un crescendo di col­pi che lentamente si sposta, muo­ve verso i giardini affacciati sulla strada alle spalle dell’edificio. Poi di colpo il silenzio. Rotto solo dai colpi dei cecchini di Maisaloun. Hussein s’affaccia.Fa segno.È tem­po d’entrare. Dentro è odore acre di cordite, tanfo di sudore, lezzo d’escrementi. Hussein ti fa strada, fra mura sbrecciate dal piombo, ve­trateinfrante, portedivelte. Ilcorri­doio è un tappeto di bossoli, calci­nacci. Granate inesplose. Sul mu­ro una scritta araba: «Gruppo com­ba­ttentebrigatadell’EsercitoLibe­ro di Siria». Hussein la indica, ripe­te il suo mantra preferito. «Terrori­sti, Al Qaida, distruzione». Ad ogni stanza infila la testa, indica registri bruciati, archivi scardinati, scriva­nie divelte.
Ora è nel giardino, gira l’angolo, t’accoglie nell’orrore.Loro i«terro­risti », i «ribelli», i «nemici» sono ot­to corpi crivellati, otto volti conge­lati in un ghigno di dolore, terrore, agonia. «Quando sono usciti dalle stanze, li abbiamo spinti verso il giardino. Lì oltre i cancelli avevo mandato un altro gruppo di uomini. Li abbia­mo inchiodati mentre cer­cavano di scavalcare e fuggi­re.
Abbiamo ucciso questi ot­to, altri quaranta sono scappati portandosi dietro i feriti. Ma non andranno lontano».I segni dell’im­boscata sono ovunque. Gli schizzi di sangue sono affreschi vermigli sul muro di cinta. Lo zampillio di unatubaturasforacchiatacolasul­la nuca fracassata di un ribelle, tra­scina colate di cervella e sangue in una pozza vermiglia. Un soldato si china. Con una mano raccoglie un kalashnikov, con l’altra una gam­ba troncata all’altezza del ginoc­chio. La maneggia come un ramo secco, l’allinea accanto alle armi e ai caricatori strappati ai cadaveri. Un altro rivol­ta i corpi a pedate, li guarda in fac­cia, urla «Al Qaida, terroristi». A ve­derli non si direbbe. Non hanno barboni, nè bandane inneggianti all’Islam.I loro volti non sono quel­li di ragazzini fanatici, ma di tren­tenni stempiati con il capello cura­to. La barba sfatta non è quella di un fanatico, ma di un combattente senza troppo tempo per il rasoio. Non sembrano i caduti di un’arma­ta brancaleone, ma i coscritti di un esercito con tutti i crismi. Ribelli ben armati e ben riforniti con poco da invidiare, armi pesanti e aviazio­ne a parte, a chi li ha snidati e ucci­si.
Indossano mimetiche e giberne ricolme di caricatori e granate. Sul­le spalle esibiscono il simbolo del­la “ Liwa Ahrar Suria”,una delle uni­tà dell’Esercito Libero di Siria, la principale organizzazione armata ribelle. Accanto ai soliti kalash­nikov e alla gamba mozzata fa bel­la mostra uno Steyr, un fucile d’as­saltoaustriacousatoanchedaalcu­ni reparti sauditi. Un’arma difficile da trovare sui campi di battaglia mediorientali che testimonia, as­sieme ad una manciata di granate a frammentazione statunitensi, l’impegno del regno wahabita nel­le forniture di armamenti ai nemi­ci di Bashar Assad. Elementi e indi­zi che rafforzano in Capitan Hus­sein e nei soldati protagonisti di questa battaglia la convinzione di essere al centro d’una cospirazio­ne «L’Arabia Saudita e il Qa­tar vogliono regalare il nostro Paese al fonda­mentalismo – s’in­furia Hussein – ma hanno sba­gliato i conti. Questa non è la Libia. Gli è andata bene perché si so­no infiltrati ad Aleppo men­tre l’esercito non era in città. Ma ora siamo qui e devono fare i con­ti con noi. Ora stiamo ripulendo il centro e la Cittadella, poi passeremo al­la periferia». Dopo l’offensiva di metà agosto che sembrava destina­ta a far cadere Aleppo l’armata ri­belle sembra in effetti essersi im­pantanata. L’assalto alla scuola oc­cupata di questo quartiere è solo l’ennesimo episodio di un’offensi­va governativa che sta stringendo a tenaglia i quartieri della citta vec­chia. Quartieri dove le cellule ribel­li appaiono sempre più isolate, semprepiùprivedell’appoggiopo­polare. «Date retta a me – azzarda Capitan Hussein - a questa gente restano ormai solo un paio di setti­mane, poi dovranno scegliere se tornarsene verso la frontiera della Turchia da dove sono venuti o se­guire i loro compagni sulla strada del Paradiso».
www.fiammanirenstein.com

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