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Il Foglio Rassegna Stampa
20.09.2012 Elezioni americane: la stampa americana schierata contro Mitt Romney
Analisi di Dorothy Rabinowitz

Testata: Il Foglio
Data: 20 settembre 2012
Pagina: 1
Autore: Dorothy Rabinowitz
Titolo: «Il quarto potere è obamiano»

Riportiamo dal FOGLIO del 19/09/2012, a pag. 1-4, l'articolo di Dorothy Rabinowitz dal titolo "Il quarto potere è obamiano".


Dorothy Rabinowitz, Barack Obama, Mitt Romney

Dopo una settimana incredibile, durante la quale i media si sono concentrati con ardore sulla critica di Mitt Romney alla risposta americana agli assalti agli avamposti diplomatici degli Stati Uniti in medio oriente, pare che la tempesta si stia placando – ma non è finita. Né il messaggio mandato dai media può essere considerato trascurabile. Le condanne a Romney sono arrivate subito, e in gran numero.
E’ stato “grossolano e privo di tatto”, secondo Chuck Todd di Msnbc. Ha “diffamato” il presidente, secondo Jeffrey Goldberg dell’Atlantic. I giornalisti che seguivano questa storia sono stati rapidi nel far notare che le proteste contro Romney non si limitavano ai democratici, che le critiche venivano anche dai repubblicani. Non sorprende: la bigotteria del virtuoso non conosce confini politici. Non sorprende neppure lo spettacolo offerto dalle orde di giornalisti, a caccia esclusiva di uno scandalo su Romney, giorno dopo giorno – giorni che hanno registrato l’uccisione di quattro americani, l’incendio e la devastazione di ambasciate, folle di islamici in preda al delirio. E’ tuttora l’indicatore migliore del fatto che anche in queste elezioni il giornalista collettivo di quattro anni fa è vivo, sta bene, ed è pronto ad abbaiare di nuovo. E’ stato meraviglioso sentire le accuse sull’opportunismo politico di Romney, sulla sua mancanza di tatto, specialmente dopo una convention democratica che si è distinta per lo sfruttamento costante e senza vergogna del raid militare che ha ucciso Osama bin Laden. E’ impossibile immaginare un qualsiasi altro presidente nella storia americana che orchestri due minuti – figuriamoci tre giorni – di quell’autoglorificazione, di quell’autocompiacimento per una vittoria riportata dalle Forze armate come quelli visti a Charlotte. Se in quest’orgia di millanteria, compiuta nell’interesse della campagna elettorale, qualcosa ha catturato l’attenzione dei commentatori tanto offesi da Romney la scorsa settimana, non se ne è fatta alcuna menzione. L’affronto del governatore, come ormai tutto il mondo sa, aveva a che fare con le sconvolgenti scuse offerte dalla nostra ambasciata al Cairo proprio mentre folle di islamisti si radunavano, pronte a distruggere qualsiasi cosa, a causa di un rudimentale video apparso su YouTube che insultava l’islam – scuse che Romney collegava alla tendenza generale dell’Amministrazione Obama. Romney è stato accusato di aver criticato il presidente in un momento di estrema crisi. O, come ha detto Andrea Mitchell domenica a “Meet the Press” su Nbc, Romney ha rilasciato questa dichiarazione proprio mentre il dipartimento di stato non sapeva dove fosse l’ambasciatore Chris Stevens – “il corpo non si trovava”. Al momento della dichiarazione iniziale di Romney, ovviamente, nulla era trapelato sul destino di Stevens né su quello dei suoi colleghi uccisi. Ma questo non ha impedito a giornalisti ed esperti di proclamare che Romney si era scatenato in un attacco politico mentre il mondo era in rivolta e il presidente era nel pieno della crisi. Lo stesso presidente che, nel mezzo di quella crisi, è andato a fare un giretto a Las Vegas a un evento di raccolta fondi. Quando la campagna elettorale finì quattro anni fa, il ruolo dei media nel guidare il risultato era diventato troppo ovvio per essere oggetto di discussione. L’impatto della devozione dell’orda giornalistica nei confronti dei candidati democratici era chiara, le prove erano vivide – specialmente nel caso di quei reporter che andavano in estasi per i discorsi di Obama. Un reporter del New York Times scrisse di esserne stato così colpito da riuscire a stento a trattenersi dal piangere. E non per nulla il ruolo della stampa è diventato un caso giornalistico in sé – un caso imbarazzante che, pensavano le persone serie, sarebbe servito da avvertimento durante le campagne elettorali a venire. Nel 2010 Barack Obama non pronuncia più discorsi emozionanti, ma un’armata di giornalisti senza vergogna è ancora a disposizione, pronta ad assumere toni accusatori quando si parla dell’avversario repubblicano. Se non avete sentito dell’episodio di bullismo di Romney contro un altro studente ai tempi della scuola – parliamo del 1965, eh – allora il Washington Post ha una storia per voi, puro giornalismo investigativo. Sulle vicende scolastiche di Obama, sotto chiave e protette da indagini, la stampa mantiene una serena indifferenza. Obama continua a godere dei benefici di avere la stampa a suo favore – stampa incline invece a sospetti indicibili nei confronti dello sfidante. Il pesante alone di superiorità morale che emanava dalle condanne verso Romney la scorsa settimana non è certo iniziato in quell’occasione. Ma la superiorità morale era più vistosa del solito. Il tono di Romney era offensivo, non degno di un presidente, gli hanno rinfacciato i critici. Eppure è proprio il presidente degli Stati Uniti – lo stesso che si era presentato come l’uomo che avrebbe trasceso la partigianeria politica, siamo tutti americani – che per la maggior parte del suo mandato ha diviso la nazione in classi sociali, alimentando il risentimento. Che si fa beffe di “milionari e miliardari”. Che fa capire che si ritiene il presidente degli altri americani – quelli bravi. Questo invece va bene come tono presidenziale? Nessuno può aver frainteso l’importanza nella campagna di Obama dei temi della lotta di classe, che ha caratterizzato la convention democratica. I riferimenti a “milionari e miliardari” sono un viatico sicuro per essere applauditi. L’ex governatore del Michigan, Jennifer Granholm, ha sottolineato il fatto con un discorso che si apriva, con una strana nota di disprezzo, dicendo che il cuore dell’America non si può trovare nelle sale dei consigli di amministrazione. Ma è il vicepresidente Joe Biden il più fedele sostenitore del tema della lotta di classe. Serio, affabile, con una scorta senza fine di sagge massime di sua madre e di suo padre, il persuasivo Biden eccelle nello spiegare, col suo tono da esperto narratore di documentari, come l’altra parte vuole mettere in trappola voi, poveri e privi di mezzi. E ve lo garantisco, ragazzi, Barack Obama non lo permetterà. Mitt Romney non avrà vita facile nello sconfiggere un presidente con vantaggi come quelli di Obama. Un’armata di giornalisti amici è più potente di qualsiasi ricchezza, dicono i saggi. Il governatore avrà però occasioni migliori se impara la lezione della scorsa settimana: non c’è soltanto l’economia – ci sono la politica estera, l’Iran, la posizione dell’America nel mondo. Nelle poche settimane che rimangono prima delle elezioni, dovrà parlarne con la profondità e la risolutezza che lo hanno sempre distinto dal suo avversario. E dovrà farlo spesso.

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