Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/09/2012, a pag. 53, la risposta di Sergio Romano ad un lettore dal titolo "La rabbia dei musulmani, proviamo a capirne le cause".
Sergio Romano, Tariq Ramadan
E' nato ieri un nuovo quotidiano, PUBBLICO, diretto da Luca Telese. Lo segnaliamo perché sul numero 2, uscito nelle edicole questa mattina, c'è una paginata dedicata ad un'intervista a Tariq Ramadan sulle 'primavere' arabe e sulle violenze contro l'Occidente. Questo, di per sè, è sufficiente a rendere poco credibile Il Pubblico per quanto riguarda la politica estera.
Nel corso dell'intervista, Ramadan definisce 'episodi marginali' gli attacchi alle ambasciate americane. L'assassinio dell'ambasciatore Stevens è 'marginale'? I continui attacchi di questi giorni sono 'marginali'?
Nella sua risposta ad un lettore, Sergio Romano esprime lo stesso concetto, solo con parole diverse : " Quelli che scendono in piazza e, a maggior ragione, quelli che danno l'assalto alle ambasciate straniere, sono pur sempre una piccola minoranza. ". Si tratta di minoranze, gli attentati non hanno nulla a che vedere con l'islam? Esiste un islam moderato...peccato che taccia sempre di fronte a questi attentati. Romano ha la risposta pronta anche per questa obiezione : "È vero che le minoranze diventano spesso aggressive e violente quando sanno di poter contare sul consenso più o meno attivo e partecipe di settori molto più consistenti della pubblica opinione. Ma allora sarà bene cercare di comprendere perché tanti cittadini arabi assistano silenziosamente, senza condannarle, a queste manifestazioni di rabbiosa violenza.". Invece di condannare le violenze degli islamisti e criticare chi li appoggia, anche solo silenziosamente, bisogna cercare di comprendere le 'motivazioni' ?!
Ecco lettera e risposta:
«Non tutti i musulmani sono terroristi ma tutti i terroristi sono musulmani», scriveva, mi pare, Oriana Fallaci dopo l'11 settembre. E sarebbe fin troppo scontato, in questi momenti di isteria collettiva, attribuire e riconoscere un che di profetico a tale frase. Ma a voler guardare bene dentro al mondo islamico, senza quelle pericolose e semplicistiche generalizzazioni reciproche, non si può non notare come la mala pianta del fanatismo religioso non abbia ovunque attecchito allo stesso modo. Le scrivo questo per chiederle se sia possibile approfondire le diversità esistenti all'interno di una fede per certi versi fin troppo radicale come quella musulmana. In cui però spesso ci si dimentica la differente collocazione etnico-geografica dei popoli coinvolti (araba, africana, indonesiana o albanese che sia).
Mario Taliani
mtali@tin.it
Caro Taliani,
N on erano musulmani gli anarchici francesi della «bande à Bonnot», responsabili di numerosi attentati in Francia agli inizi del Novecento, e gli anarchici italiani che fecero saltare in aria il teatro Diana a Milano il 23 marzo 1921 (21 morti e 80 feriti). Non erano musulmani i membri della Rote Armee Fraktion, delle Brigate Rosse, dei Nuclei armati proletari, di Action Directe. Non erano musulmani, nella Palestina mandataria, i militanti della Banda Stern e dell'Irgun Zvai Leumi. Non erano musulmani i seguaci della setta religiosa Aum Shinrikyo che diffusero gas sarin nella metropolitana di Tokyo provocando 12 morti e 6.000 intossicati. Non erano musulmani i guerriglieri dell'Irish Republican Army (Ira) e i separatisti baschi dell'Eta. Come ha ricordato il Papa nel suo recente viaggio a Beirut, il fondamentalismo ha inquinato, in questi anni, tutte le grandi religioni monoteiste. Aggiungo che anche il nazionalismo, come è accaduto persino nel democratico Occidente, può essere vissuto come una fede religiosa e divenire spaventosamente violento. Abbiamo forse dimenticato gli 8.000 musulmani uccisi a Srebrenica nel luglio del 1999 dai serbi del generale Mladic e le stragi «minori» di cui furono responsabili in quegli anni le milizie croate?
È vero che nella graduatoria del fanatismo religioso e dei comportamenti violenti l'Islam è balzato in questi anni ai primi posti. Ma vi sono alcuni fattori strettamente collegati di cui dovremmo tenere conto. In primo luogo non è ragionevole attribuire alle intere società arabe le esasperate manifestazioni di rabbia degli scorsi giorni. Quelli che scendono in piazza e, a maggior ragione, quelli che danno l'assalto alle ambasciate straniere, sono pur sempre una piccola minoranza. È vero che le minoranze diventano spesso aggressive e violente quando sanno di poter contare sul consenso più o meno attivo e partecipe di settori molto più consistenti della pubblica opinione. Ma allora sarà bene cercare di comprendere perché tanti cittadini arabi assistano silenziosamente, senza condannarle, a queste manifestazioni di rabbiosa violenza. Se scrollassi le spalle e sostenessi che questo accade «perché sono arabi e musulmani», darei una risposta partigiana, fondamentalmente razzista e politicamente inutile. Se scavassimo più a fondo, invece, giungeremmo probabilmente alla conclusione che anche questa fase della storia arabo-musulmana ha cause più concrete e specifiche. Il problema non è tanto religioso, quanto politico, culturale e identitario. Tutto ciò che è stato sognato e tentato in Medio Oriente dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale è tragicamente fallito. La nazione araba non esiste. Lo Stato arabo si è dimostrato incapace di dare soddisfazione alle esigenze dei suoi cittadini. La presenza di Israele nella regione è percepita come una sorta di usurpazione coloniale. Tutte le guerre sono state perdute. I frequenti interventi militari dell'Occidente e, in particolare, degli Stati Uniti sono stati, per l'orgoglio arabo, esperienze umilianti. E la religione è diventata l'estremo rifugio di popoli amareggiati e frustrati. In queste circostanze un'offesa all'Islam diventa un intollerabile affronto alla identità araba. Per curare queste malattie non esistono terapie sicure. Ma se la diagnosi fosse semplicemente «fanatismo islamico», peggioreremmo il male.
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