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Il Foglio Rassegna Stampa
19.09.2012 Due contraddizioni sul Foglio
ma il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara non era schierato contro il politicamente corretto ?

Testata: Il Foglio
Data: 19 settembre 2012
Pagina: 3
Autore: Redazione del Foglio - Mattia Ferraresi - Annalena
Titolo: «Le risate in aula nel processo Arrigoni - Dàgli al gaffeur repubblicano - Massa grassa»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 19/09/2012, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Le risate in aula nel processo Arrigoni ", in prima pagina gli articoli di Mattia Ferraresi e Annalena titolati " Dàgli al gaffeur repubblicano " e " Massa grassa ".

Contrariamente a quanto si legge nell'editoriale, Vittorio Arrigoni non rappresentava nessun simbolo occidentale. E' stato ucciso per la sua condotta sessuale 'irregolare'. A buon intenditor, poche parole.
Stupisce che sul Foglio venga pubblicata una descrizione simile, frutto della peggior propaganda anti occidentale. E' vergognoso paragonare Vittorio Arrigoni, sostenitore dei terroristi di Hamas, a Daniel Pearl, Nick Berg e Fabrizio Quattrocchi.

Il Foglio non si è sempre schierato contro il politicamente corretto ? Allora non è ben chiaro per quale motivo Mitt Romney venga definito da Ferraresi sulla prima pagina del quotidiano 'candidato inadeguato' se ha semplicemente detto la verità.
Annalena, sempre in prima pagina, attacca il vice Paul Ryan, 'colpevole' di essere appassionato di fitness per combattere la 'massa grassa corporale'.
Definiamo a casa nostra questi due articoli delegittimatori dei due candidati repubblicani.
Ecco i pezzi:

Redazione del Foglio - " Le risate in aula nel processo Arrigoni "


Ismail Haniyeh conVittorio Arrigoni

Poteva Hamas, un’organizzazione terroristica che da anni impartisce la morte agli israeliani e che getta dalla finestra gli oppositori politici, garantire una cosa chiamata “giustizia”? E’ quello che ha cercato di fare due giorni fa una corte di Hamas a Gaza, processando e condannando gli assassini di Vittorio Arrigoni, cooperante pacifista ucciso da un gruppo salafita più di un anno fa. Restano numerosi dubbi sul caso, a cominciare dalla connivenza di chi fece arrivare dalla Giordania gli assassini dell’italiano e permise loro di muoversi indisturbati nella Striscia. Per non parlare del fatto che lo sceicco Maqdisi, il salafita detenuto a Gaza che i sequestratori volevano scambiare con Arrigoni, è stato scarcerato da Hamas lo scorso agosto senza mai essere stato interrogato. Era lui la chiave del processo e del caso. La sua liberazione è avvenuta senza alcuna spiegazione da parte di Hamas, che non ha comunicato le motivazioni all’avvocato della famiglia Arrigoni, Gilberto Pagani. Fra le condanne impartite ai salafiti c’è anche quella a un anno per favoreggiamento in un sequestro con omicidio. Due degli imputati salafiti erano a libro paga di Hamas, e i due principali sospettati erano già stati uccisi nel blitz di Hamas. C’è qualcosa di fatale e triste sia nella morte sia nel processo, e per sempre resterà impressa l’immagine dei salafiti che sghignazzano in aula. Avremmo tutti voluto vedere un processo giusto. Ma chi pensava che potesse venire da Hamas vive in una bolla ideologica. A Gaza, dove di solito basta un’ora di processo per infliggere un’impiccagione, non esiste la giustizia. Chi mai poteva aspettarsi un processo giusto da Hamas, chiamata a processare estremisti islamici per aver ucciso uno straniero, il primo da quando hanno preso il potere nella Striscia di Gaza? Malgrado le sue illusorie simpatie filo palestinesi, agli occhi dei carnefici Arrigoni era come Daniel Pearl, Nick Berg, Fabrizio Quattrocchi: un simbolo dell’occidente da abbattere. Lo stesso vale per l’uccisione a Jenin, sempre per mano di salafiti palestinesi, del regista israeliano Juliano Mer-Khamis, un altro pacifista ucciso da estremisti islamici. Anche dei suoi assassini e mandanti, che l’Autorità palestinese di Fatah doveva portare in tribunale, non si è saputo niente.

Mattia Ferraresi - " Dàgli al gaffeur repubblicano "


Mattia Ferraresi, Mitt Romney

New York. Lo scampanellìo che ha indotto nei commentatori politici – non solo democratici – una salivazione simultanea è il seguente: “Il 47 per cento degli americani voterà per il presidente in ogni caso. Il 47 per cento è con lui, e dipende dallo stato, sono persone che credono di essere delle vittime, che credono che lo stato abbia la responsabilità di prendersi cura di loro, che credono di avere il diritto alla copertura sanitaria, al cibo, all’alloggio e a qualunque altra cosa. Pensano che sia un diritto. E che lo stato debba loro questi servizi. Loro voteranno il presidente comunque. Quindi il nostro messaggio di abbassare le tasse non funzionerà”. Infine: “Non è compito mio preoccuparmi di queste persone. Non le convincerò mai che devono prendersi le loro responsabilità personali e prendersi cura delle proprie vite. Quello che devo fare è convincere quel 5-10 per cento di indipendenti al centro”. Mitt Romney ha detto queste cose il 17 maggio nel salotto del manager Marc Leder, a Boca Raton, in Florida, durante un incontro a porte chiuse con alcuni finanziatori della campagna elettorale repubblicana. La scena è stata surrettiziamente filmata e grazie alla mediazione del nipote di Jimmy Carter, un “oppo researcher” che fra poco non sarà più disoccupato, è arrivato al magazine ultraliberal Mother Jones, per la gioia di Barack Obama, che ha parlato di “sdegno e disgusto”, e di tutti i critici dello sfidante. Per Romney è l’ennesima stazione di una via crucis elettorale: il linguaggio è almeno “inelegante”, come ha ammesso lui stesso, la retorica spigolosa, la visione del mondo che fa emergere è intrisa di una forma di manicheismo in chiave economica. Da una parte ci sono i “makers”, i responsabili produttori di ricchezza, dall’altra i “takers”, le “vittime” che non pagano le tasse e sguazzano nei programmi assistenziali dello stato. Prima di giudicare l’accuratezza delle affermazioni di Romney, bisogna dare un’occhiata al contesto per scoprire che lo scandalo d’immagine che rischia di affossare la sua campagna elettorale forse uno scandalo non è. E’ un grosso guaio per le reazioni che ha suscitato, per i riflessi, per l’involontaria esplicitazione del non detto, per la spocchia da 1 per cento che traspare in questo discorsetto sul 47 per cento, e commentatori come David Brooks hanno maltrattato Romney, da destra, per le implicazioni culturali e personali del filmato, al prezzo però di elidere il contesto. Il candidato parlava a porte chiuse, pensando legittimamente di non essere spiato, e la dimensione della riservatezza è fondamentale per qualunque campagna elettorale. Un candidato per definizione tiene vari registri narrativi, non dice ai comizi quello che dice ai collaboratori, e non dice ai finanziatori quello che dice ai collaboratori. I finanziatori, poi, mettono soldi a palate nella campagna, e quando fanno una domanda in privato al candidato sulle sue possibilità di elezione, o su quali gruppi elettorali intende puntare, il minimo che si aspettano è una risposta sincera. Per uno “stump speech” basta accendere la Cnn. Se Obama ai suoi eventi di fundraising fa sequestrare con sovietica precisione i telefoni di tutti i presenti ci sarà un motivo, no? Poi c’è la questione di merito sul 47 per cento di americani che non pagano le tasse, il punto che ha scatenato non soltanto i martellatori ideologici e gli osservatori culturali, ma soprattutto i collezionisti di “hard facts”, quelli che sbandierano un’enorme quantità di grafici e tabelle come patenti di oggettività giornalistica. Gli altri sono dispensatori di ideuzze opinabili e interessate, loro sono cercatori di verità al di sopra di ogni sospetto. Da Annie Lowrey del New York Times scopriamo che effettivamente il 47 per cento (in realtà 46 e rotti secondo il Tax Policy Center) degli americani non paga le tasse, epperò, aggiunge lei, si tratta dei poveri, degli anziani e di famiglie a basso reddito che godono di agevolazioni appositamente introdotte nel sistema fiscale. Senza contare che una buona parte di questo 47 per cento paga tasse sul reddito. Da suo marito, Ezra Klein del Washington Post, scopriamo poi che il maggior responsabile di questa dicotomia fra creatori di ricchezza e parassiti fiscali è niente meno che George W. Bush. Così dagli “hard facts” discende direttamente una considerazione politica: l’inettitudine dei repubblicani ha creato questo sistema, e ora quell’avvoltoio che vuole estendere le sue truffe alla politica nazionale cerca di scaricare la parte più debole del paese. La domanda retorica da tribuni della plebe in linguaggio matematico risuona: vogliamo farci governare da uno così? Coro: “Nooo!”.

Annalena - " Massa grassa "


Annalena                           Paul Ryan

Diffidate subito di un uomo che al primo appuntamento (o in un’intervista) vi racconta la sua percentuale di massa grassa. Paul Ryan, candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti con i repubblicani, quarantenne patito di fitness e in particolare di un programma che si chiama P90X e promette di far uscire tartarughe da ogni flaccida pancetta, sostiene che la sua massa grassa è al sei per cento, e il ridicolo starebbe soltanto nel fatto che si tratta di una bugia: per quanto Ryan sia magro e in forma e dedito a questa disciplina fatta di allenamenti, dvd, quotidiani controlli allo specchio in cui far guizzare i bicipiti, alimentazione proteica, no dolci, no alcol e, come ha raccontato lui stesso entusiasta, “confusione muscolare che colpisce il corpo in molti modi diversi”, gli esperti dicono che il sei per cento di grasso se lo sogna, persino più della vicepresidenza. Il sei per cento è il premio per i centometristi olimpici, per i pugili, i lottatori e i maratoneti di livello mondiale. I ciclisti del Tour de France cercano di scendere, prima delle gare, intorno all’otto o nove per cento di massa grassa, mentre i nuotatori professionisti, con quei corpi da statue, in confronto alla percentuale millantata da Ryan sarebbero dei sedentari divoratori di cibo spazzatura. Dato quindi quasi per certo che si trattasse di un’esagerazione selvaggia, come quella delle maratone corse in due ore e cinquanta quando invece le ore erano quattro, Ryan aveva vent’anni e la sua unica gara si chiamava Maratona delle Nonne, perché mai un uomo che di mestiere non fa il personal trainer dovrebbe conoscere la propria massa? Paul Ryan costringe forse la moglie, oltre a cucinare pollo alla griglia ogni sera e ascoltare i racconti delle sue prodezze sul tapis roulant, ad afferrargli il grasso corporeo con le pinzette e una scala graduata? E’ bello che Ryan abbia tutto questo tempo da investire nella cura della sua forma fisica e dei suoi pettorali, nella speranza che Vogue gli proponga un servizio fotografico a torso nudo (è ancora un mistero: ci saranno davvero le tartarughe sotto quelle camicie Brooks Brothers?) prima delle elezioni, ma l’ossessione maschile per la fitness è peggio della Dukan. Può essere molto noioso l’uomo che vi sfiora il braccio non per ammiccare, ma per saggiarne la consistenza, che preferisce le carni bianche e si depila il petto per ammirare meglio il guizzo muscolare davanti allo specchio del bagno, che prima di prenotare un albergo deve accertarsi se ci sia una palestra attrezzata con sauna e piscina olimpionica per le quotidiane settanta vasche. Anche pericoloso, nel caso in cui proponga un trekking sulle Ande per mettere alla prova la massa magra. La fitness maschile e tutti i suoi accessori (pantaloncini aderenti, magliette lucide, scarpine tecniche, canottiere traspiranti, sacche da palestra in grado di contenere cadaveri, amici della palestra, cene della palestra) non andrebbero mai esibiti. E se proprio non si resiste all’ultima novità in fatto di glutei, si deve almeno giurare di non pronunciare mai più davanti alla nazione o a una donna l’espressione: massa grassa.

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