La debolezza dell'Occidente politicamente corretto di fronte all'islamismo Commenti di Souad Sbai, Carlo Panella, Andrea Morigi, Luciano Tas. Intervista a Benjamin Barber e Edward Luttwak di Ennio Caretto e Andrea Cuomo
Testata:Libero - Informazione Corretta - Il Giornale - Corriere della Sera Autore: Souad Sbai - Carlo Panella - Andrea Morigi - Ennio Caretto - Andrea Cuomo Titolo: «L’islam prepara un tranquillo venerdì di violenza - Il sostegno cieco alle rivoluzioni non porta democrazia - Inutile dialogare con l’islam»
Riprtiamo da LIBERO di oggi, 14/09/2012, a pag. 1-12, l'articolo di Souad Sbai dal titolo " L’islam prepara un tranquillo venerdì di violenza", a pag. 13, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Undici anni dopo l’11/9 l’Occidente è più debole ", a pag. 14, l'articolo di Andrea Morigi dal titolo " Ormai ci siamo immunizzati dalla rabbia e dall’orgoglio ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 9, l'intervista di Ennio Caretto a Benjamin Barber dal titolo " Il sostegno cieco alle rivoluzioni non porta democrazia ". Dal GIORNALE, a pag. 13, l'intervista di Andrea Cuomo a Edward Luttwak dal titolo " Inutile dialogare con l’islam ". Pubblichiamo il commento di Luciano Tas dal titolo "Primavere gelate".
a destra: 'L'islam è una religione di pace. Vedi che nessuno mi contraddice ?'
Ecco gli articoli:
LIBERO - Souad Sbai : " L’islam prepara un tranquillo venerdì di violenza "
Souad Sbai
Il timore è che Bengasi sia solo l’inizio. L’inizio di una strategia di terrore e di violenza preordinata e la cui regia ha radici ben note. Attaccare un’ambasciata, uccidere l’ambasciatore e mettere a ferro e fuoco città intere ha un significato e una volontà che esula pericolosamente dalle reazioni ad una pellicola che, per mediocre fattura e mancanza di senso, offende più l’intelligenza delle persone che il senso religioso. La pista di Al Qaeda, che sarebbe secondo i media americani dietro l’attacco a Bengasi e prima al Cairo, convince fino a un certo punto. Anzi, non convince per nulla. Almeno me che questo percorso di estremizzazione dei Paesi arabi in seguito alla cosiddetta “primavera” l’ho compreso e seguito dalle pagine di questo giornale fin dai suoi esordi. E non sono solo sensazioni quelle che mi spingono ad analizzare la questione in questo modo. L’ESEMPIO DEL MAROCCO Esempio lampante è il Marocco, Paese che è stato toccato in maniera superficiale dalla primavera araba e nel quale si notano i segni più evidenti del fermento della galassia estremista salafita. Il Movimento Salafita per la Umma, che aveva richiesto il riconoscimento come partito scatenando un braccio di ferro fra Tribunale, che aveva detto si, e Ministero degli Interni, che impugna la sentenza e dice no, ha già annunciato che farà rumore e che protesterà in piazza anche per la mancata risposta del Governo al film ritenuto blasfemo. Il salafismo tenta il sorpasso al Governo del premier Benkirane, cosa che in Egitto è già avvenuta, ed è un segno da non sottovalutare. Sarà un venerdì nero. In Giordania davanti all’ambasciata Usa i salafiti manifesteranno in protesta, in Egitto la Fratellanza chiama alla mobilitazione permanente non solo nel Paese ma in tutta l’area, con una imponente e feroce manifestazione al Cairo, e al boicottaggio di tutti i prodotti americani e la chiusura di tutte le ambasciate Usa. I leader spirituali del movimento della Da’Wa Salafita hanno chiamato tutti gli altri leader religiosi salafiti disseminati nel mondo arabo a rompere ogni relazione con gli Stati Uniti, diretta o indiretta che sia. Occidente e Usa oggi fanno i conti con la brutta abitudine di portare democrazia ai popoli mettendo le armi in mano a frange dalle radici controverse, per convenienza e semplicità d’azione. C’è da stupirsi? Credo di no, almeno se si hanno cuore e coscienza scevri da pregiudizi e condizionamenti di vario genere, quei condizionamenti prezzolati che hanno permesso finora a qualcuno di descrivere la primavera araba come un afflato di libertà. Cosa che non è mai stata. Ed è grave che da parte dei media ci sia ancora la volontà di mistificare la realtà. SALAFISMO ARMATO Il salafismo armato sta tentando il colpo gobbo, prendendosi tutto, con le armi che l’Occidente gli ha consegnato infiocchettate di tutto punto. Siamo di fronte alla fase calda della primavera araba, in cui l’estremismo più radicalista prende le redini della protesta e sconquassa, con qualsiasi scusa, i residui di equilibrio rimasti. Le navi da guerra americane sono davanti alla Libia e la situazione si fa tesa, troppo tesa per non essere giudicata pericolosa. La morte di un ambasciatore per mano straniera è o non è motivo per una risposta con la mano pesante? Chi manovra la politica estera americana, che alla vigilia delle elezioni più controverse della sua storia ha preso una piega del tutto inaspettata? Guarda caso il destino del popolo americano si gioca un’altra volta nel bacino mediterraneo, con le armi in pugno e il grilletto solo sfiorato, finora. Siamo all’alba della ridefinizione degli equilibri di potere nel mondo: estremismo, grande finanza, politica, militari. Tutti giocano, ad armi ormai pari, la stessa torbida partita per la supremazia globale, con la speranza che la ragione, anche all’ultimo secondo, riesca a prevalere.
LIBERO - Carlo Panella : " Undici anni dopo l’11/9 l’Occidente è più debole "
Carlo Panella
L’illusione di Abbottabad si è dissolta a Bengasi, nel corpo martoriato dell’ambasciatore Usa Chris Stevens, braccato e ucciso come una preda nella sua stessa ambasciata Usa. Umiliazione terribile della potenza statunitense. E l’11 settembre? Barack Obama, e con lui larga parte dell’Occidente - non noi - si era illusa che con l’uccisione di Osama bin Laden ad Abottabad il 2 maggio del 2011, il terrorismo islamico avesse subito un colpo mortale. Peggio ancora, Obama,con le riunioni settimanali in cui lo stesso aggiorna la Kill List, i terroristi islamici da uccidere con Droni, con una condanna alla pena capitale senza processo (anche di decine di civili e bambini uccisi con i terroristi), si è illuso di di schiacciare anche il corpo agonizzante della serpe terrorista. Insomma, da quando Obama è alla Casa Bianca, la lotta al terrorismo islamico è uscita dall’agenda politica principale dell’Occidente, si è ridotta ad una impegnativa guerra di polizia e servizi, in apparente conferma della «dottrina» dei democratici. Dottrina illustrata al mondo il 4 luglio 2009 dall’uni - versità al Azhar del Cairo da un Obama che teorizzava la netta separazione tra i terroristi islamici e il corpus dottrinale dell’islam, anche di quello fondamentalista. Analisi che ha avuto conseguenze gravissime: innanzitutto, assolutamente nessuna iniziativa per contrastare, neanche sul piano culturale e politico, la presa del fondamentalismo islamico. Arginato – con perdite, in Iraq e Afghanistan, il terrorismo qaedista (e non) ha subito trovato altri e protettivi santuari in Somalia, Yemen, Nigeria, Maghreb e Shael, in Mali ha addirittura conquistato il controllo di una intera regione. Quell’errore di analisi, condiviso dal pensiero politically correct, sommato alla sottovalutazione dell’impatto dei nuovi «santuari» del terrorismo islamico, ha avuto conseguenze nefaste, soprattutto quando Obama, con Sarkozy e Cameron, ha scatenato la guerra di Libia, senza tenere in minimo conto che così facendo si eliminava sì un dittatore feroce, ma che lo si faceva senza avere alcuna cura di costruire un «anticorpo » che contrastasse le infinite possibilità di presa e di azione che venivano così offerte al terrorismo islamico. Quando George W. Bush iniziò la guerra in Afghanistan e Iraq, sua prima cura fu individuare e appoggiare un forte nerbo nazionalista a Kabul e Baghdad, imperniato sugli oppositori storici dei Talebani e di Saddam Hussein, che governassero e contrastassero i terroristi (che in Iraq, si badi bene, hanno ucciso per il 90% musulmani, spesso nelle moschee, e solo per il 10% soldati occidentaliodelle Forze di Sicurezza locali). Operazione riuscita a stento, ancora in corso e con gravi perdite, ma all’interno di una prospettiva alla lunga vincente (in Iraq il terrorismo si è cronicizzato, ma la società irachena, libere elezioni incluse, si sta sviluppando in modo frenetico). In Libia, invece, Obama, Sarkozy e Cameron hanno preso come interlocutori Jalil, Jibril, e altri dirigenti del Cnl di Bengasi che sino al giorno prima altri non erano stati, se non i più stretti collaboratori di Gheddafi. Non solo, subito si è verificato che sul terreno la forza militare e politica dei ribelli era del tutto insufficiente ad abbattere il raìs e la vittoria è stata così conseguita unicamente grazie ai bombardamenti Nato. Il risultato è che oggi la Libia non ha Forze di Sicurezza, che è controllata da «signori della guerra» locali che permettono ai terroristi di muoversi come pesci nell’acqua, indisturbati. Come si è visto a Bengasi. La Libia è così diventata un nuovo santuario dei terroristi islamici. A due passi dall’Italia. Non per caso, ma in seguito ad una guerra scriteriata. Da ieri abbiamo un’unica certezza: vi saranno altri 11 settembre.
LIBERO - Andrea Morigi : " Ormai ci siamo immunizzati dalla rabbia e dall’orgoglio"
Andrea Morigi
Dimenticato ancor prima del funerale Christopher Stevens, l’am - basciatore statunitense ucciso martedì a Bengasi insieme ad altri tre funzionari. Sui mezzi d’informazio - ne, il posto del lutto è già stato occupato dall’ondata della “rabbia anti- Usa”. Fomentata dall’America, peraltro, con i messaggini di scuse per l’anticipazione di The Innocence of Muslims. Il Secolo XIX di Genova apriva la propria edizione di ieri con «La rabbia di Bengasi». Così, in linea con le fatwe degli imam di tutto il mondo, che soffiano sul fuoco delle rivolte, si fanno scomparire dalla scena la minaccia del terrorismo islamico e il sangue versato dalle vittime della violenza. Che fra l’altro sono prevalentemente musulmani. Nel mondo arabo si consuma una guerra civile, che certo non si risolverà a favore dei moderati mettendo sullo stesso piano un film blasfemo e la morte di quattro diplomatici. Anzi, il sangue continuerà a scorrere a fiumi se si darà spazio alle “ragio - ni” dei fondamentalisti. Eppure non s’è mai visto uno Stato islamico, pre o post primavere arabe, confessare le proprie colpe per le manifestazioni d’intolleranza anticristiana e i crimini contro la libertà religiosa e gli altri diritti umani. Raro esempio di equidistanza, l’Arabia Saudita ieri condannava il film ma prima ancora le violenze che ne erano seguite. Ma la monarchia wahhabita è ormai uno di pochi territori ancora immuni dall’in - vasione dei Fratelli Musulmani. Ancora per poco, probabilmente, visto il dilagare delle proteste. L’Occidente intanto, si è immunizzato dalla rabbia e dall’orgoglio. Quell’espressione, che aveva visto l’alba con il libro omonimo di Oriana Fallaci, sembra giunta al tramonto. Se non fosse per la Giornata Internazionale per la Libertà Religiosa, contro la persecuzione dei Cristiani nel Mondo, che si svolgerà nei prossimi giorni a Firenze, in coincidenza con il sesto anniversario della morte della scrittrice fiorentina. Dopo l’omaggio e il ricordo presso il cimitero evangelico agli Allori, sabato 15 presso la chiesa di Santa Margherita in Santa Maria de’ Ricci sarà celebrata una messa in suffragio della Fallaci e delle vittime della persecuzione. L’obiettivo del convegno, che si terrà il giorno successivo, domenica 16, è giungere a una “Dichiarazione contro la Cristianofobia” da presentare agli organismi internazionali, affinché «si impegnino immediatamente per fermare la mattanza dei cristiani». Fra gli invitati, sono attesi la scrittrice e saggista Bat Ye’Or e il politologo francese Alexandre Del Valle, ma gli organizzatori dell’even - to, il comitato “Una Via per Oriana” presieduto da Armando Manocchia, annunciano anche la presenza di Elzir Ezzedin, presidente dell’Ucoii, l’Unione della comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia, e di Riccardo Pacifici, della Comunità Ebraica di Roma.
INFORMAZIONE CORRETTA - Luciano Tas : " Primavere gelate "
Luciano Tas
Non c’era davvero bisogno di una nuova strage perpetrata da visionari e fanatici assassini, come è accaduto in Cirenaica dove tra le vittime si conta anche l’ambasciatore degli Stati Uniti, per dare il giusto nome alle varie “primavere” arabe. Non c’era stato alcun politico occidentale, alcun giornalista di lungo corso, alcuna persona di buon senso, a credere alla virtù di quelle primavere, ma come se fosse stata tacitamente diffusa una parola d’ordine, quasi tutti avevano finto di rallegrarsi della lotta dei “partigiani” islamici per la democrazia. E’ stato tutto un peana: finalmente, si diceva o si sottintendeva, il mondo islamico si avvia alla libertà, ci offrirà presto e senza dubbio l’ulivo di pace. L’ulivo degli estremisti islamici, capaci invero di organizzare in poche ore manifestazioni via via sempre più pretestuose e violente contro l’Occidente e in prima linea USA e Israele, reca bombe invece di foglioline. E reca morte. Speriamo che nessuno ora venga a dire che la strage di Bengasi sia stata la risposta (magari un tantino forte) a una insopportabile provocazione americana. Dovessero organizzarsi analoghe manifestazioni occidentali contro le ambasciate dei paesi musulmani ogni volta che vengono assassinati dei cristiani di quei paesi oppure ogni volta (cioè ogni giorno) che si auspica, si minaccia e si prepara la strage finale “in” e “di” Israele, non ci sarebbero munizioni sufficienti. La democrazia! C’è un cartello, esposto a Londra da manifestanti musulmani, che riassume tutta la storia. Sul cartello si legge “L’Islam dominerà il mondo e vada al diavolo la libertà”. Questo è il vero programma politico di quella che ormai non si può più definire una minoranza estremista, ma di tutta una classe dirigente che sparge un veleno mortale sempre più diffuso. È chiaro a tutti che le religioni non c’entrano niente: non risulta che in alcuna religione, almeno dalla fine del Medio Evo, ci sia l’incitazione a uccidere tutti quelli che pensano diversamente. Il Corano non può essere interpretato in quel modo e in ogni caso chi crede alle sue parole (non strumentalizzate) ha diritto al nostro rispetto, ma anche chi non ci crede deve godere dello stesso diritto. Se per ogni barzelletta su preti, frati ed ebrei, magari spesso di cattivo gusto, si dovesse ammazzare chi la racconta, non ci sarebbero cimiteri abbastanza capienti. In realtà queste cose tutti le sanno, ma si direbbe che ci sia un diffuso sentimento di appeasement, come dicono con parola felice gli anglosassoni per indicare “pace a qualunque cedimento”. I paesi occidentali, attraversano una grave crisi economica (e non solo), è vero, ma non sembrano affatto protesi alla difesa della democrazia e della libertà, valori tanto più esaltati nei comizi quanto più negletti e indifesi nei fatti, e quindi in pericolo. “L’Islam dominerà il mondo” non è la frase di un comizio, non è un programma elettorale, è la bandiera di un esercito in marcia perché “vada al diavolo la libertà”.
CORRIERE della SERA - Ennio Caretto : " Il sostegno cieco alle rivoluzioni non porta democrazia "
Benjamin Barber
WASHINGTON — «Conoscevo l'ambasciatore Stevens, so che faceva del suo meglio per la Libia e per il mondo arabo. La sua morte e quelle dei marine segnano un tragico passo indietro nei rapporti con l'Islam non solo per noi ma per tutto l'Occidente. Ci chiediamo perché mai un popolo che abbiamo liberato si rivolti contro di noi. Non basta addossare la colpa a un sacrilego video su Maometto. C'è qualcosa di più profondo dietro l'attacco al nostro consolato a Bengasi, come c'è dietro l'attacco, per fortuna senza vittime, alla nostra ambasciata al Cairo. Sono angoscianti campanelli di allarme: potremmo essere di fronte a una nuova crisi nel mondo islamico». Lo storico e politologo Benjamin Barber, l'autore di «Guerra santa contro McMondo», dice di avere temuto per gli americani in Libia da alcuni mesi. «A giugno, gruppi armati misero una bomba vicino al nostro consolato a Bengasi. In precedenza avevano attaccato il Ministero degli Esteri a Tripoli e incendiato alcune moschee sunnite. Chiaramente, noi eravamo e siamo uno dei bersagli delle forze eversive libiche». Barber, frequente visitatore in Medio oriente, teme adesso anche per gli americani in altri paesi: «Non siete al sicuro neppure voi europei, perché ovunque possono svilupparsi movimenti antioccidentali». Crede che queste morti si potevano evitare? «Non lo so. Ma so che il nostro consolato non è stato adeguatamente protetto dalla polizia e dall'esercito libici che erano nelle vicinanze. Anche al Cairo le forze dell'ordine non sono intervenute, ma l'attacco non è stato cruento. A Bengasi anche il pubblico è rimasto a guardare, bisogna fare luce sul comportamento di tutti». A che cosa allude quando dice che qualcosa di più profondo del video su Maometto ha motivato l'attacco al consolato a Bengasi? «A più fattori. Al caos che ha fatto seguito alla rivoluzione: in Libia in realtà mancano la legalità e ordine. Alla preminenza delle milizie armate, degli estremisti islamici, dei terroristi: predicano l'antiamericanismo e la violenza. E alla nostra cecità. Il video ha innescato una reazione che si stava preparando da tempo. In Libia è in corso una sanguinosa lotta per il potere e ora la situazione rischia di sfuggire di mano sia al governo di Tripoli sia a noi». In che senso l'Occidente è stato cieco in Libia? «Ha creduto che dalla rivoluzione libica scaturisse subito la democrazia, mentre la storia ci insegna che dalle rivoluzioni scaturisce l'anarchia, e che dopo l'anarchia la legalità e l'ordine vengono ripristinati non dai buoni, chiamiamoli così, ma dai cattivi, perché sono loro a prender il sopravvento. Basta pensare alla rivoluzione francese, che portò alla monarchia, e alla rivoluzione sovietica, che portò allo stalinismo, risultati opposti a quelli desiderati». Ma l'Occidente non poteva non appoggiare la rivoluzione libica... «La doveva appoggiare, certo: le rivoluzioni scoppiano perché i popoli vogliono la libertà, e l'Occidente deve essere il loro alfiere. Ma il popolo libico ha pagato e sta pagando con il sangue la conquista di una libertà e di una democrazia che adesso sono in bilico. L'Occidente non lo ha preparato e non lo aiuta a preservarle. Ha bombardato all'improvviso la Libia per rovesciare Gheddafi ma non ha fatto molto per impedire che diventasse terra di guerriglia. Io applaudii e applaudo alla rivoluzione libica, ma critico il mio paese». Perché? L'America ha qualche responsabilità di ciò che accade nel mondo islamico? «L'America e l'Europa sono corresponsabili dei rapporti dell'Occidente con l'Islam, come l'Islam è responsabile dei suoi rapporti con l'Occidente. Le esplosioni di violenza nei paesi islamici non sono colpa nostra. Ma la protesta pacifica contro le nostre politiche ci sta, perché per varie ragioni, spesso economiche, vedi il petrolio, noi americani passiamo da un cieco sostegno alle dittature a un cieco sostegno alle rivoluzioni. Ripeto, non è la strada giusta per la democrazia». Sbaglio, o lei pensa che la primavera araba stia finendo? «Non sono mai stato ottimista sulla primavera araba per i motivi che le ho detto. Le forze che la stanno strumentalizzano non sono democratiche. A Bengasi si sventola la bandiera della monarchia, in Egitto sono al potere i Fratelli Musulmani, per ora moderati, ma esposti a gruppi estremisti, in altri paesi aumenta la nostalgia dell'uomo forte. È ora che l'America e l'Europa si mettano assieme e rivedano la loro politica verso l'Islam, prendendo le distanze dalle dittature. La libertà e la democrazia nascono dal basso e vanno alimentate anche nei paesi islamici. Non nascono dal rovesciamento dei tiranni». È un principio che vale anche per la Siria? «Ho visitato la Siria l'ultima volta due anni fa. Rispetto ad Assad, che sta uccidendo la sua gente, Gheddafi è stato più cauto. Ma noi non facciamo nulla per i siriani. Non sappiamo che cosa fare anche perché la posta in gioco è troppo alta, potremmo destabilizzare l'intera regione, l'Iran, il Libano, Israele, l'Iraq. I paesi arabi e del Golfo Persico sono nella nostra stessa situazione. Questa paralisi deve finire. L'America e l'Europa devono coordinarsi maggiormente non solo tra di loro ma anche con i paesi arabi e del Golfo Persico».
Il GIORNALE - Andrea Cuomo : " Inutile dialogare con l’islam "
Edward Luttwak
Professor Edward Luttwak, l’attentato di Bengasi riapre il conflitto tra l’islam e gli Stati Uniti? «Il conflitto non è tra il mondo islamico e gli Stati Uniti, ma tra il mondo islamico e l’intero mondo non islamico. A Mindanao attaccano i filippini cristiani, il Pakistan è in conflitto con l’India, ovunque c’è l’islam in contatto con il non-islam,l’incitamento alla violenza da parte dei predicatori ha il suo effetto. Per fortuna in pochi ricorrono alla violenza, ma tutti gli altri stanno a guardare, compresi eserciti e forze dell’ordine». È molto carico l’economista statunitense di origine romena, 69 anni, conosciuto per le sue pubblicazioni sulla strategia militare e la geopolitica, che segue con grande attenzione le vicende italiane e parla benissimo la nostra lingua. Pessimista e provocatorio lo è sempre stato; che sia contrario al buonismo del dialogo con i sordi e alle missioni di pace in genere non è certo una novità. Eppure stavolta c’è qualcosa di più: a migliaia di chilometri di distanza da noi, la sua rabbia serena, se si può dire così, stavolta si percepisce anche attraverso il filo del telefono. Forte e chiara. Per lui ogni sforzo di venire a patti con l’islamismo è sciocco e vano. E inutilmente cercheremo raggi di luce nel corso dell’intervista. Un quadro cupo, il suo... «Ma non è mica un quadro cupo, è la realtà». Dove potrà arrivare la reazione degli Stati Uniti? «Guardi,c’è un macrotrend evidente, che è quello di lasciare gli islamici cuocere nel loro brodo. Gli Stati Uniti sono riluttanti a intervenire in Libia, in Siria, perché è chiara ormai l’inutilità di certe azioni. Basti pensare all’Irak, all’Afghanistan. Grandi spese, nessun risultato. Una perdita di soldi e di tempo. Me lo lasci dire, in alcuni casi si tratta di barbari che governano selvaggi. È tutto inutile. L’ambasciatore Chris Stevens rappresentava quell’entusiasmo per la questione mediorientale che ora, con la sua uccisione, sarà sempre meno convincente e avrà sempre meno riscontro nella realtà ». Questo è il macrotrend, come lo chiama lei. Ma nell’immediato qualcosa l’Occidente può fare? «Certo: possiamo liberarci del linguaggio falsificante. Ad esempio non c’è una nuova democrazia in Libia, perché se non c’è rispetto della persona non può esserci democrazia. E non credo che le cose potranno cambiare per un secolo o due. Per ora islam e democrazia sono due parole incompatibili ». Ma ci sono esempi di islam democratico, pensi alla Turchia... «Certo, ma lì c’è democrazia nella misura in cui ci sono regimi anti-islamici. Ma appena sale al potere un partito islamico, e con Erdogan ci siamo quasi, bye-bye alla democrazia turca». L’attentato all’ambasciata Usa a Bengasi ha colpito l’Occidente senza varcare i confini libici. Possiamo attenderci di essere colpiti prossimamente anche all’interno dei nostri confini? Ci potrebbe essere un altro 11 settembre? «Solo nei limiti delle possibilità degli islamisti, che per fortuna solo limitate. Del resto l’11 settembre è stato “fabbricato” in Occidente, basti pensare a Mohammed ’Atta, uno degli attentatori, un ingegnere egiziano che lavorava in Germania. Quando invece gli attentati sono progettati in questi Paesi non arrivano a questo livello di organizzazione. Gli islamici sono incapaci anche nella violenza». Neanche l’Italia corre rischi a suo giudizio? «L’Italia e tutta l’Europa non hanno nulla da temere, soprattutto se agiranno con moderazione ». Ecco, qual è il ruolo in tutto questo dei Paesi che affacciano sul Mediterraneo e in particolare dell’Italia? «Nessun ruolo. I Paesi del Mediterraneo hanno solo la sfortuna di essere più vicini geograficamente all’islam, dovranno turarsi il naso per non sentire la puzza di integralismo, di ideologia, di selvaggeria. Mentre noi negli Stati Uniti abbiamo il lusso di essere lontani da tutto ciò». Beh, c’è sempre la diplomazia. Possibile non possa fare nulla? «Certo, bisogna essere diplomatici, ma non cretini. Quando trattiamo con i Paesi islamici è giusto essere cauti e moderati. Ma quando parliamo tra di noi occidentali è meglio non prenderci in giro, almeno nell’uso delle parole ».
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