Disaccorso Usa/Israele sul nucleare iraniano. Basta una telefonata a colmare le distanze ? Commento di Mattia Ferraresi
Testata: Il Foglio Data: 13 settembre 2012 Pagina: 1 Autore: Mattia Ferraresi Titolo: «La vecchia frattura tra Obama e Bibi non si ripara con una telefonata»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 13/09/2012, a pag. 1-4, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo "La vecchia frattura tra Obama e Bibi non si ripara con una telefonata".
Mattia Ferraresi, Barack Obama, Bibi Netanyahu
New York. La telefonata fra Obama e Netanyahu è arrivata con il ritardo tipico delle conversazioni riparatrici, aggiustamenti di maniera che si adoperano quando troppo è stato detto e troppo poco è stato fatto per salvare la relazione quando era il momento. La Casa Bianca ha insistito sulla durata della telefonata, un’ora, come a sottolineare che il presidente americano non sta snobbando l’alleato, sospetto alimentato invece dalla stampa israeliana, che riferisce – tramite anonime fonti governative – che Obama ha rifiutato di incontrare Netanyahu durante la visita a New York per l’Assemblea generale dell’Onu. “Semplicemente un problema di agenda”, dice un portavoce dell’Amministrazione, il quale ha spiegato ai cronisti che Obama sarà a New York il 24 settembre e tornerà a Washington il giorno successivo, senza partecipare a incontri bilaterali e limitandosi al discorso al Palazzo di Vetro e alla partecipazione alla conferenza del Clinton Global Initiative; il premier israeliano arriverà in città soltanto alcuni giorni più tardi. Le fonti di Gerusalemme riferiscono però della richiesta di un incontro alla Casa Bianca, con il primo ministro che avrebbe dato la sua disponibilità ad allungare la missione americana per incontrare il presidente, circostanza che complica la posizione di Obama, immediatamente passato alla fase difensiva. La sintesi delle critiche a Obama l’ha fatta su Twitter il deputato repubblicano Ted Poe: “E’ ironico che il presidente abbia tempo per una cena di fundraising da 40 mila dollari a testa con Jay- Z e Beyoncé, ma non per il primo ministro di Israele”. A quel punto il presidente ha preso in mano il telefono. “Il presidente Obama e il primo ministro Netanyahu hanno riaffermato che sono uniti e determinati nell’impedire che l’Iran ottenga un’arma nucleare, e hanno detto che continueranno le consultazioni”: questa la versione diramata ufficialmente ma sullo sfondo risuonava ancora la durissima frase pronunciata da Netanyahu: “Quelli che nella comunità internazionale rifiutano di mettere le ‘linee rosse’ sull’Iran non hanno il diritto morale di accendere la ‘luce rossa’ davanti a Israele”. Il riferimento esplicito è a generici attori nella comunità internazionale, quello subliminale – ma nemmeno troppo – è alle dichiarazione del segretario di stato, Hillary Clinton: “Non fissiamo nessuna scadenza” per un’operazione contro l’Iran. E’ qui che Netanyahu non ci ha più visto: “Il mondo dice a Israele: ‘Aspettate, c’è ancora tempo’, e io dico: ‘Aspettare cosa? Fino a quando?’”, ha detto in conferenza stampa, e la frattura è precipitata nella querelle pubblica degli appuntamenti negati, poi smentiti e infine riparati quando ormai era troppo tardi. Il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha detto che “Israele e gli Stati Uniti devono risolvere i loro problemi a porte chiuse” e ha ricordato, anche al suo primo ministro, “l’importanza strategica dell’alleanza con gli Stati Uniti”. Detto altrimenti: la sovranità di Israele non è in discussione, ma la sua capacità di portare un attacco significativo alle installazioni nucleari iraniane senza l’appoggio degli Stati Uniti è una faccenda più complessa. Alcune fonti dicono a Fox News che la Casa Bianca sta lavorando per mettere l’incontro con Netanyahu in agenda, ma anche nel caso di un accordo in extremis si tratterebbe di un cerotto formale messo su una ferita sostanziale. Una ferita che ha a che fare con le diverse prospettive sull’Iran – nonostante la vanità degli sforzi, ufficialmente Washington insiste sulla via diplomatica – con la campagna elettorale americana e anche con la differenza di caratteri fra Obama e Netanyahu. Come scrive l’agenzia Reuters, la polemica fra i due leader “ha messo entrambi in una posizione in cui non vorrebbero essere”, con il primo ministro israeliano che vede deteriorare la sua immagine di influente broker politico presso Washington, e il presidente americano che si espone all’accusa di abbandonare l’alleato nel momento del bisogno. “Throw Israel under the bus” è l’accusa che il candidato repubblicano alla Casa Bianca, Mitt Romney, ripete ormai da oltre un anno; i senatori John McCain e Lindsey Graham hanno detto di essere “sorpresi e delusi” per lo sgarbo di Obama e l’ex ambasciatore presso l’Onu, John Bolton, ha parlato di un “enorme errore di politica estera”. Obama ha alcune ragioni tattiche per evitare un incontro formale con l’alleato. La posizione ambigua della sua Amministrazione non può essere portata avanti se non al prezzo di fomentare le critiche all’interno, costo insostenibile per un presidente in cerca di rielezione; d’altra parte è chiaro che la dottrina di Washington sull’Iran impone attesa, sanzioni e deterrenza, ovvero quel misto di blando contenimento e diplomazia che Obama ha promosso a debole marchio di fabbrica della sua politica estera. E la divergenza con Netanyahu sullo strike è soltanto l’ultima propaggine di un rapporto che si è trascinato negli anni fra liti private, conversazioni rubate, molta anticamera, leaks maliziosi, dissensi su insediamenti e operazioni militari. Ferite che difficilmente si rimarginano con un incontro alla Casa Bianca, figurarsi con una telefonata.
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