domenica 24 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Repubblica Rassegna Stampa
11.09.2012 Rushdie: la maledizione della fatwa che mi ha cancellato la vita
Roberto Saviano commenta l'anticipazione delle memorie di Rushdie, in uscita il 18 settembre

Testata: La Repubblica
Data: 11 settembre 2012
Pagina: 1
Autore: Roberto Saviano
Titolo: «Rushdie : la maledizione della fatwa che mi ha cancellato la vita»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 11/09/2012, a pag. 1-30, l'articolo di Roberto Saviano dal titolo " Rushdie : la maledizione della fatwa che mi ha cancellato la vita ".


Salman Rushdie

Pagine che dovrebbero essere lette soprattutto da chi in questi anni con enorme facilità ha descritto la sua condanna come un escamotage mediatico utile a vendere libri, o ha contribuito a metterla in dubbio con frasi del tipo «Rushdie è presente a tutti i party», o ancora «è sotto scorta ma è un grande amante della vita e delle donne» e banalità del genere ripetute come litania. Così, quella che ti trovi a vivere è una doppia condanna. Da un lato scappi da chi ti ha condannato a morte e cerchi comunque di continuare a vivere, dall’altro sarai inviso a una parte della società che trova disdicevole che un perseguitato possa avere una vita pubblica e privata. Ma in fondo sai che la tua vera colpa è essere ancora vivo. La persecuzione non porta mai con sé vera solidarietà. Ti aspetti un sostegno che non arriva nemmeno dalle persone più vicine, che cominciano a sentirsi inadeguate, non all’altezza della situazione. O, peggio ancora, alla lunga finiscono per farti sentire in colpa «per avergli rovinato la vita», «per dover litigare con i tuoi detrattori per difenderti». Le pagine pubblicate sul New Yorker, titolate “Lo scomparso” (mentre il libro che uscirà in contemporanea mondiale il 18 settembre si chiama Joseph Anton, in Italia da Mondadori, n.d.r.), raccontano dell’impatto di Salman Rushdie con la notizia della fatwa e dei suoi primi passi nella vita da scortato. Una vita nuova, in cui tutto cambia: casa, nome (Joseph Anton è appunto la nuova identità da lui assunta su richiesta della polizia), stile di vita, abitudini, rapporti, tutto. Da quel momento «smette di essere Salman, anche per gli amici, e diventa Rushdie». E a suggellare questa distanza, nel libro, lui stesso utilizza la terza persona per parlare di sé. Una terza persona che scava un solco profondo tra il Salman che è ora e il Salman di quei primi terribili momenti. Rushdie ricorda che a dargli la notizia fu una giornalista della Bbc che lo chiamò a casa prima ancora della polizia. È così, quando sei un personaggio pubblico c’è sempre un giornalista che viene a sapere cose che ti riguardano prima di te. Alle telefonate dei giornalisti seguirono fiumi di accuse e critiche. Arrivarono a dirgli che il suo non era un libro, ma solo un insulto. Inutile far presente che se avesse voluto offendere — semplicemente offendere! — avrebbe potuto farlo «molto più in fretta di così». La verità era che il suo aveva smesso di essere un libro ed era diventato qualcos’altro. E nemmeno chi, animato dalle migliori intenzioni, aveva provato a difenderlo, riusciva più a farlo partendo da quanto aveva scritto, dalle sue stesse parole. Dei Versi satanici circolava ormai una versione alternativa, inesistente, che lo rendeva odioso a una parte e paladino della libertà d’espressione per l’altra. La notizia della fatwa arriva poi in un momento difficile della sua vita privata. Le cose con sua moglie non vanno bene, eppure lei decide di affrontare la condanna insieme a lui. In queste pagine, il perno del racconto è un pronome, quel “noi”» che Rushdie descrive come “un atto di coraggio”. Quando si è vicini per amicizia o per amore a un condannato, “noi” è la parola più racompleanno ra e coraggiosa che possa essere pronunciata. Perché significa accettare il peso e il rischio della situazione, non abbandonare, non puntate il dito su chi in questa situazione ti ha scaraventato tuo malgrado. Tutto questo nella consapevolezza che una condanna distrugge tutto, sentimenti legami desideri. Tutto e in poche ore. Una condanna a morte, che non solo porta con sé tutta la paura e il dolore che ci si può immaginare, ma è anche aggravata dal fatto di essere diffusa dai media. Non la si può gestire come un elemento privato, tra le mura di casa, perché tutti sanno, tutti ne sono a conoscenza. E questo crea un cortocircuito insanabile: per quanto tu possa nasconderti sarai sempre visibile. La schizofrenia di essere visibilissimo, ma nascosto. Famoso, eppure nella la tua vita non puoi decidere più nulla in autonomia, neppure scegliere una casa. E la preoccupazione non è solo per te ma soprattutto per la tua famiglia, per loro ti senti responsabile. Il pensiero di Rushdie nelle prime ore dopo le minacce va subito a suo figlio Zafar di “9 anni e otto mesi” e da quel giorno ha cominciato a contare ogni istante non trascorso con lui, ogni non festeggiato insieme, ogni festa mancata. Rushdie spiega quanto sia difficile dire a un bambino come mai suo padre non potrà mai più portarlo a un parco giochi, mai più accompagnarlo a scuola. Mai più Zafar potrà dire di essere figlio suo con tranquillità e con orgoglio, come quando si parla del proprio padre. Per tranquillizzarlo gli assicura che lo chiamerà tutti i giorni alle 19. E Salman lo fa, ogni sera, puntuale. Finché un giorno nessuno risponde al telefono all’ora concordata. Più passano i minuti, più la convinzione del banale ritardo viene scalfita dalla paura che il peggio sia capitato. Dopo un’ora e un quarto di telefonate a vuoto la polizia manda a controllare: gli uomini trovano la porta di casa spalancata e le luci accese. Nei minuti che passano, davanti ai suoi occhi cominciano ad apparire le immagini di suo figlio e della sua prima moglie a terra, in una pozza di sangue, senza vita. Per fortuna si trattò solo di un terribile malinteso, un contrattempo, ma quegli attimi di terrore spiegano esattamente cosa terrorizzi davvero chiunque viva sotto minaccia di morte: che non potendo arrivare a te, arrivino ai tuoi familiari. Hai paura di non essere stato abbastanza attento a nasconderli, abbastanza bravo a dar loro una vita sicura, abbastanza responsabile da tenerli lontani dal dolore, da te. E poi ci sono gli uomini della scorta, perfetti sconosciuti che da un momento all’altro diventano vicini come nessun altro. Persone lontane anni luce dalla sua vita fatta di libri, di lunghe ore seduto a scrivere, eppure così attenti ora a non invadere il suo mondo già abbastanza scombussolato e interessati non solo a proteggerlo fisicamente, ma anche a farlo sentire bene. A volte è capitato che i poliziotti, venendo meno alle rigide regole del protocollo, abbiano portato lui e Zafar a giocare a rugby o al luna park, concedendogli momenti di normalità che per chi vive sotto scorta diventano l’eccezione o, peggio ancora, sono impossibili. Momenti che speri un giorno riavrai, mentre sai che stai mentendo a te stesso. Il giorno in cui fu messo sotto protezione, Rushdie disse a Zafar e alla ex moglie Clarissa quanto gli avevano detto gli uomini della sicurezza: «Sarà tutto finito nel giro di qualche giorno». Inizia sempre così la vita di un minacciato di morte che finisce in regime di protezione: «solo qualche giorno». Passarono anni e anni.

Per inviare la propria opinione a Repubblica, cliccare sull'e-mail sottostante


rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT